Oltre Argan
La ricezione del Bauhaus in Italia (con un’appendice su alcuni «Bauhäusler» italiani)

· Alberto Giorgio Cassani ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0002-449F-F

 

È stato Ludwig Mies van der Rohe, ultimo direttore del Bauhaus dopo il fondatore Walter Gropius e l’intermezzo di Hannes Meyer, a sentenziare: «Il Bauhaus non era un’istituzione con un chiaro programma – era un’idea».1 Ad essa è strettamente unito questo corollario: «Il Bauhaus è un modello».2 Sono storicamente fondate, queste due affermazioni? Il Bauhaus, a un secolo ormai dalla sua fondazione (1919–1933), continua, in effetti, a essere considerato «il più famoso esperimento nel campo della educazione artistica che si sia compiuto nell’epoca moderna».3

Nonostante la sua breve durata (meno di quindici anni), infatti, il Bauhaus si è caricato di un’aura mitica, creata soprattutto dal libro-capolavoro di Giulio Carlo Argan, Walter Gropius e la Bauhaus del 1951 [fig. 1], testo non per nulla adorato dallo stesso Gropius – sebbene, in una lettera a Herbert Bauer del 30 aprile 1951, scritta da Cambridge, Gropius abbia affermato:

Convengo con te sul fatto che una terza persona che scrive riguardo a sé non può mai creare l’atmosfera in cui vive. È stata per me un’esperienza curiosa sentirmi tanto distaccato e obiettivo nei confronti del libro di Argan (su di me) quando l’ho letto come se fosse stato scritto su qualcun altro.4

 

Fig. 1: Copertina della prima edizione del volume di Giulio Carlo Argan: Walter Gropius e la Bauhaus, Torino: Einaudi 1951
Fig. 1: Copertina della prima edizione del volume di Giulio Carlo Argan: Walter Gropius e la Bauhaus, Torino: Einaudi 1951

Di là dell’«idea» o del «modello», il Bauhaus ha probabilmente incontrato fin dall’inizio quelle difficoltà che poi portarono alla sua chiusura per un motivo chiaramente compreso già nel 1929 da Walter Benjamin, ragione che in modo più o meno esplicito vale anche oggigiorno, come, a sua volta, ha inteso, perfettamente, il grande scrittore austriaco Thomas Bernhard.

Nella recensione al libro di Franz Hessel, Spazieren in Berlin,5 Benjamin coglie il nocciolo della filosofia dell’abitare del Neues Bauen, pur non citando esplicitamente Gropius e il Bauhaus:

Il flâneur è il sacerdote del genius loci. Questo passante poco appariscente che ha la dignità di un sacerdote e il fiuto di un detective […]. Si deve seguire l’autore nella «vecchia parte occidentale», per imparare a conoscerlo sotto questo aspetto: per vedere come rintraccia i lari sotto la soglia, come celebra gli ultimi monumenti di un’antica civiltà dell’abitare. Gli ultimi: poiché nella segnatura di questa svolta storica sta scritto che per l’abitare nel vecchio senso, dove l’intimità, la sicurezza stava al primo posto, è suonata l’ultima ora. Giedion, Mendelssohn, Corbusier trasformano la dimora degli uomini anzitutto in uno spazio di transito attraversato da tutte le pensabili forze e onde di luce e aria. Il futuro sta sotto il segno della trasparenza.6

È quest’annullamento della «traccia», del «genius loci», della casa come «astuccio» propria dell’epoca Biedermeier, di cui lo stesso Benjamin aveva parlato nel suo incompiuto capolavoro,7 che la «gente» di Weimar, e in seguito il Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei non accetteranno mai (di là dalle stesse intenzioni di Gropius che «rivoluzionario» non era8). Così come la maggioranza degli uomini contemporanei non sopporta di vivere circondandosi dei mobili della propria epoca:

La gente si arreda la casa in stile antico, si circonda di mobili che appartengono a un’epoca ormai sepolta da secoli che non le è per nulla congeniale, e questo basta a farla vivere nella menzogna, pensavo. In realtà la gente è talmente debole rispetto alla propria epoca che si sente costretta a circondarsi di mobili di un’epoca da tempo passata, da tempo scomparsa, da tempo morta e sepolta, e si può dire che lo fa per tenersi a galla, pensavo, ed è quindi sempre segno di uno stato di orrenda debolezza quando la gente si arreda la casa con mobili di epoche passate e non con i mobili della propria epoca, della quale non riesce a sopportare la durezza e la brutalità, pensavo. La gente si circonda di mollezza, la mollezza del passato da cui è scomparsa ogni contraddizione, penso.9

La riprova di ciò, se ce ne fosse bisogno, si può rintracciare all’interno stesso del Bauhaus: Wassily Kandinsky e la moglie Nina Andrejewsky scelsero mobili e accessori in stile russo al posto dei «freddi» mobili in stile Bauhaus.10

Ma occorre, come detto, partire dal libro fondante di Argan. Un libro davvero epocale, dal momento che è il primo testo critico-interpretativo della «filosofia» di Gropius e del Bauhaus al mondo. Fatto quasi unico per il mondo culturale italiano che di solito giunge abbastanza in ritardo ad accorgersi del Nuovo che avanza. Basterebbero le sue numerose riedizioni italiane e le traduzioni in lingua straniera per decretarne l’importanza.11 Anche se, come in altri casi, il libro fu senz’altro più famoso che letto e compreso.

Fig. 2: Copertina del volume di Giulio Carlo Argan: Walter Gropius e la Bauhaus, Torino, Einaudi, 1974
Fig. 2: Copertina del volume di Giulio Carlo Argan: Walter Gropius e la Bauhaus, Torino, Einaudi, 1974
Fig. 3: Copertina del volume di Giulio Carlo Argan: Walter Gropius y el Bauhaus, Buenos Aires: Ediciones Nueva Visión 1957
Fig. 3: Copertina del volume di Giulio Carlo Argan: Walter Gropius y el Bauhaus, Buenos Aires: Ediciones Nueva Visión 1957

Sul libro di Argan è decisiva l’introduzione di Marco Biraghi all’ultima edizione Einaudi (2010), dal titolo «Valore di un libro»,12 per cui è sufficiente qui rimandare a quel testo, ricordandone alcuni passaggi decisivi. Innanzitutto il ruolo fondamentale avuto da Anna Mazzucchelli, futura moglie di Argan, per la decisione di quest’ultimo di scrivere un libro su Gropius:

Rileggendo i contributi che la Mazzucchelli pubblica negli anni della sua collaborazione a Casabella, infatti, emerge con forza l’interesse da lei riservato – così come del resto da tutta la rivista sotto la conduzione di Pagano e Persico – alla figura e all’opera di Walter Gropius.

E se ancora nel suo primo articolo, dell’agosto 1934 «Stile di una mostra», il nome dell’architetto tedesco e del Bauhaus sono affiancati a quelli di Le Corbusier, Mendelsohn, Mel’nikov, Breuer, negli articoli seguenti «Richard J. Neutra architetto» (gennaio 1935), «Da Paxton a Gropius», Casabella (marzo 1935), «Pioneers of Modern Movement» (aprile 1937) Gropius viene assumendo un ruolo centrale e un valore paradigmatico nella sempre più aspra «battaglia» per l’architettura nuova.13

Interesse ribadito ancor più in una recensione della stessa al libro di Nikolaus Pevsner, Pioneers of Modern Movement: «Ripetuto da noi sino alla noia, il nome di Gropius è il più ingrato ai nostri avversari; i quali, incapaci di intendere il senso dell’arte nuova, l’han fatto arma contro noi stessi, decisi a batterci sopra un terreno che con la critica non ha niente a che fare».14 Inoltre:

Gropius ha compreso a fondo questi problemi [dello «standard»]: li ha già praticamente risolti, e riproposti nell’arte, sfruttando le possibilità dell’industria, aiutando chi gli volta le spalle, incitando verso un più alto ideale. Come nell’arte di Gropius, l’aspirazione ad un equilibrio nuovo delle unità maggiormente in contrasto: la verticale e l’orizzontale intersecate fuori dal centro, ma risolte in un piano, si va concretando in una nuova realtà.15

La Mazzucchelli termina con la promessa che «in uno studio su Gropius chiariremo di più».16 Ciò, purtroppo, non avverrà mai. A mantenerla, quella promessa, ci penserà invece Argan. Ma, come spiega bene Biraghi, i presupposti del futuro capolavoro arganiano devono molto alla compagna della vita:

Pur se disattenderà in prima persona tale promessa, la Mazzucchelli mostra però di abbracciare una posizione critica pienamente riconducibile a quella di Argan: identica la ricerca di «elementi figurativi», anziché di semplici espedienti pratici, nell’articolazione della forma architettonica e nell’uso dei materiali, all’interno delle opere degli autori da loro presi in considerazione; così come identica la distinzione da essi operata tra sfera della fantasia e sfera dell’utile, con una sintomatica preferenza per la prima, nel caso di entrambi. Se dunque comune è l’approccio idealistico all’architettura, specifico della Mazzucchelli è il riconoscimento del contributo gropiusiano, cui Argan giungerà soltanto diversi anni più tardi e – per sua esplicita ammissione – sotto la spinta dell’incessante dialogo con lei.17

Quale il lascito, per Biraghi, del libro-mito di Argan – che, come oggi sappiamo, è più un testo filosofico che un libro di storia, che mostra un Gropius di là della sua reale figura, come ricorderà lo stesso Argan citando un’affermazione di Gropius: «Lei mi ha fatto plus grand que nature»?18 Di aver osato una «sintesi» che nessun altro studioso del Bauhaus, dopo questo libro, tenterà. Nel nome di una (un po’ pavida?) filologia storica che, sembra dire Biraghi, pone sullo stesso piano temi grandi e piccoli:

In questi, come nei molti altri casi di studi riguardanti il tema affrontato da Argan, si verifica un abbandono della «ricerca delle grandi sintesi che per loro stessa natura lasciano spesso scoperti troppi aspetti dei problemi, a favore di studi più accurati e filologicamente più corretti», come recita la Prefazione all’edizione italiana del libro di Wingler. In tal modo, Walter Gropius e il Bauhaus tornano a essere un argomento fra i tanti, che in quanto tale rientra nell’«indifferente» regno delle differenze e delle specificità storico-filologiche: un regno nel quale tutto ciò ch’è esistente può rivendicare la propria presenza, e dove, tuttavia, proprio la qualità dei fenomeni, il senso di cui dovrebbero essere portatori, finiscono per cessare di avere qualche importanza.19

Ma, su ciò, sarà il caso di ritornare più avanti. Il libro di Argan, per Biraghi, non è una celebrazione, ma una sfida: «una sfida per un’idea progressiva di società e di architettura (e, in ultima analisi, di urbanistica, in quanto strumento per la risoluzione di problemi reali); una sfida che nemmeno nel momento in cui il libro è stato concepito risultava facilmente accettabile».20 Ancor meno oggi, dopo la disillusione degli ultimi decenni, mentre per Biraghi il ruolo del (materialista) storico dovrebbe essere proprio quello benjaminiano di far «deflagrare la storia»:21

Oggi l’idea di un’architettura, di un’urbanistica, di una società votate al bene comune è quanto mai «inattuale». Tuttavia, paradossalmente, è proprio la distanza da ogni sua attualità a rendere «attraente» la sfida del libro di Argan. Per questa ragione, ripubblicarlo e rileggerlo oggi significa ben più che rinverdire un classico della letteratura architettonica, ben più che rendere il doveroso omaggio in occasione di qualche anniversario: significa scommettere sulla possibilità di trovare una «coincidenza» tra l’epoca odierna e i primi anni cinquanta, al di là di tutto il tempo e le differenze che li separano.22

E la conclusione di Biraghi – scritta nel 2010, dunque alle soglie di quella crisi che ha assunto per molti i connotati di una «guerra» e assai prima che «spettrali» prospettive di una terza guerra mondiale siano, non più così metaforicamente, evocati – assume toni quasi «profetici» sul nostro difficile presente, celebrando il valore e la paradossale attualità del libro arganiano:

Certo, oggi, per nostra fortuna, il momento è – almeno apparentemente – meno drammatico: nessuna guerra da poco conclusa che costringa a una ricostruzione materiale e morale; in compenso però nessuno sprone alla condivisione di un impegno, al raggiungimento di un obiettivo comune. Ed è forse proprio l’assenza di ogni conflitto manifesto – e conseguentemente l’assopirsi delle coscienze, il loro ergersi a paladine estreme dell’identità individuale – a costituire il problema, il dramma collettivo odierno; la condizione dalla quale alienarsi, il punto di crisi a partire dal quale cercare di «ricostruire».

Walter Gropius, la Bauhaus, in quanto epici «pezzi di storia», appartengono inequivocabilmente al passato, ma al tempo stesso – e in modo altrettanto esemplare – costituiscono un’«indimenticabile» occasione per il futuro. Questo, probabilmente, è il valore più alto che il libro di Argan riesce tutt’oggi a comunicare.23

Cosa accade in Italia, dopo il libro di Argan, rispetto all’interpretazione del Bauhaus? Non molto fino agli inizi dei «ruggenti», almeno nel campo della storia dell’architettura, anni Settanta. In questi ultimi, che furono quelli della «critica all’ideologia» nei confronti del Bauhaus – così come di tutto il cosiddetto «movimento moderno»24 ma anche del «mito» dell’avanguardia sovietica25 –, si esercitò un’opera di «decostruzione» dei testi apologetico-agiografici su questa scuola: mi riferisco, soprattutto, alle due introduzioni di Francesco Dal Co – il maggior studioso dell’ideologia del Bauhaus – quella26 alla traduzione, nel 1972, per i tipi di Feltrinelli, della fondamentale e monumentale raccolta di documenti di Hans Maria Wingler: Das Bauhaus 1919–1933,27 e quella alla traduzione italiana del volume – altrettanto epocale di quello di Wingler per gli studi sul Bauhaus – di Marcel Franciscono: Walter Gropius and the creation of the Bauhaus in Weimar28 dal titolo «La tradizione del Bauhaus».29 A questi due saggi va aggiunta la prefazione e la cura degli scritti di Hannes Meyer, il direttore comunista del Bauhaus, decisivo per comprendere l’apoliticità della figura di Gropius.30

Occorrerebbe qui spendere ben più di poche righe per il libro di Franciscono; ma basti dire, succintamente, come questo fondamentale studio presenti nuovi documenti inediti sullo scontro avvenuto al Congresso del Werkbund a Colonia nel 1914, nonché sulla partecipazione di Gropius alla fondazione del Arbeitsrat für Kunst (Consiglio del Lavoro per l’Arte). Il lavoro, infine, approfondisce, per la prima volta, i primi, decisivi anni del Bauhaus di Weimar (il libro si ferma proprio al 1923, anno della «cacciata» di Johannes Itten), in particolare, appunto, la figura di quest’ultimo e la filosofia del suo insegnamento nel corso base del Bauhaus, il cosiddetto Vorkurs, chiarendo così i motivi dell’incomponibile dissidio con Gropius.

Recentemente, in occasione del novantesimo anniversario del Bauhaus, nel 2009, Dal Co è tornato a riflettere sul difficile rapporto degli storici e dei critici su quella Scuola, con approfondite recensioni di due volumi editi in Germania e negli Stati Uniti.31

In quest’impegno di critica all’ideologia, Dal Co era affiancato dal maestro di tutta quella generazione di giovani storici, Manfredo Tafuri che, proprio con Dal Co, co-firmerà la fondamentale Architettura contemporanea,32 vera summa di quella critica. Un altro momento di questa de-costruzione della grande narrazione ideologica del cosiddetto «movimento moderno» era stato il piccolo ma prezioso volume di Mario Manieri Elia: William Morris e l’ideologia dell’architettura moderna.33

Il 1973, d’altro canto, è un anno altrettanto importante: escono, infatti, la traduzione italiana del testo di Barbara Miller Lane: Architecture and politics in Germany: 1918–1945,34 e il fondamentale Metropolis. Saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel,35 di Massimo Cacciari. Il volume della Miller-Lane è la prima riflessione critica alla luce dei documenti pubblicati da Wingler, in cui si dichiara in maniera esplicita, nonostante il libro di Argan (che l’autrice non cita), che: «Ad oggi non esiste alcuna storia generale del Bauhaus che sia soddisfacente»,36 citando, come unici utili materiali, oltre al libro di Wingler, i soli Bauhaus 1919–192837 e The New Architecture and the Bauhaus,38 due opere, dunque, dei diretti protagonisti di quegli eventi (e, per questa ragione, aggiungiamo noi, troppo «operativi»). Il libro della Miller-Lane, importante perché è riuscito ad evidenziare alcuni nodi decisivi della vicenda Bauhaus, si sofferma in particolare sul difficile rapporto con la politica tedesca, prima negli anni weimariani,39 poi nei confronti dell’ideologia nazista; in più evidenziando come Gropius, nonostante gli afflati romantico-ruskiniani dei primi testi post 1919, rimanga sempre convinto che la «cattedrale» odierna non è altro che l’industria e come egli sia stato, nonostante il monumento ai caduti di Weimar (1920–1922), nel complesso, sempre un «apolitico».40

Ugualmente, se non più importante, è senz’altro il lungo saggio di Cacciari che costituisce il fondamentale preludio alla raccolta di testi sulla Großstadt di Werner Sombart, August Endell, Karl Scheffler e Georg Simmel. Cacciari analizza lo snodo decisivo, anche per il Bauhaus, del periodo fra il 1870 e i primi anni dieci del Novecento, in cui, «‚precipitano’ temi e problemi maturati nello sviluppo del pensiero negativo, nella crisi della ragione e dello Stato dialettici».41 Tutto ciò ha un suo momento di confronto e di scontro nel Congresso del Werkbund a Colonia del 1914 (con protagonista, oltre a Gropius, quasi tutta l’intelligencija architettonica tedesca della prima metà del secolo). L’analisi di Cacciari mostra, per la prima volta con totale «Aufklärung», che né Muthesius, né van de Velde, né il Gropius che, strategicamente,42 parteggerà per il secondo, hanno capito nulla della posta in gioco di quel decisivo momento della storia europea (al contrario di Friedrich Naumann, nel suo lucidissimo intervento dal titolo Werkbund und Weltwirtschaft43):

L’intellettuale deve smettere di mistificarsi come lavoro «autonomo», come Kunst versus Arbeit, come simbolo di possibili redenzioni della strumentalità del lavoro. Il fatto è che l’intellettuale è radicalmente alienato-spossessato. E da questo dato soltanto può partire per conoscere. La sua opera non potrà mai valere come superamento di tale dato. E se pretenderà a questo, sarà destituita di ogni significato – esistenza spettrale, Hoffnung. Soltanto affermandosi alienato, l’intellettuale sarà in grado di dire gli attuali rapporti sociali di produzione ed assumere la «libertà» sufficiente per integrarli.44

Quanto di più distante, questa, dalla lettura di Argan non si potrebbe immaginare. Puro disincanto, integrale critica dell’ideologia. Ciò che deve fare il vero storico materialista: a cui compete non l’«atteggiamento di giudice» che sentenzia sulla base di «simpatia o antipatia»; dunque non sta a lui «accusare o perdonare», «ma solo comprendere» [«sondern allein zu verstehen»].45

Rileggendo questi testi che, oggi, nell’età di Internet, della comunicazione veloce e dell’ancor più rapida «dimenticanza» della storia – viviamo tutti in un «eterno presente» che cancella, in tempo reale, i fatti accaduti appena il giorno prima –, lo storico odierno dovrebbe verificarne la tenuta, storicizzandoli, a loro volta. Cercando di mettere in luce, soprattutto, la fondamentale questione della «modernità» o meno del Bauhaus, del suo guardare sia in avanti che all’indietro – ad esempio all’ideologia del Arbeitsrat für Kunst, movimento espressionista di cui Gropius fu fondatore e direttore, nel tentativo di salvare i diritti della Forma contro il dominio della Tecnica.46 Il mestiere dello storico è soggetto, inevitabilmente, come tutti gli altri, al giudizio del tempo.

Una cosa, però, non sembra essere cambiata dai tempi del Bauhaus e da quelli della critica della sua ideologia; la verità dell’affermazione di Walter Benjamin:

[…] prima di chiedere: che posizione ha una poesia rispetto ai rapporti di produzione dell’epoca?, vorrei chiedere: qual è la sua posizione in essi? Questa domanda riguarda direttamente la funzione che ha l’opera all’interno dei rapporti letterari di produzione di un’epoca.47

Benjamin affermava ciò per togliere ogni alibi all’artista nell’età del capitale, credendo ancora, però, in una speranza di «redenzione» per i vinti della storia. Oggi che, apparentemente, il capitalismo ha campo libero, possiamo ancora credere a quella «debole forza messianica» di cui parlava Benjamin?

 

Appendice

Tre «Bauhäusler» italiani: Augusto Cernigoj (Avgust Černigoj), Ivo Pannaggi ed Alfredo Bortoluzzi. Enrico Augusto Griffini, «stregato» dal Weissenhof

Un tema ancora poco studiato è la presenza di allievi italiani al Bauhaus. Ricordo qui, molto brevemente, lo stato dell’arte, in working progress.

Fig. 4: Avgust Černigoj nella sua fase „jeans“ a Trieste, 1928 ca.
Fig. 4: Avgust Černigoj nella sua fase «jeans» a Trieste, 1928 ca.
Fig. 5: Avgust Černigoj, Come attraverso la strada, 1925, collage
Fig. 5: Avgust Černigoj, Come attraverso la strada, 1925, collage

Avgust Černigoj,48 artista futurista e costruttivista [figg. 4–5], è stato, a quanto se ne sa, l’unico italiano (di lingua slovena), assieme al marchigiano Ivo Pannaggi [figg. 6–7] e ad Alfredo Bortoluzzi, a frequentare i corsi del Bauhaus.49

Fig. 6: Ivo Pannaggi, I costruttori, 1925, olio su cartoncino, cm 45 × 35, collezione privata, Italia
Fig. 6: Ivo Pannaggi, I costruttori, 1925, olio su cartoncino, cm 45 × 35, collezione privata, Italia
Fig. 7: Ivo Pannaggi, Astrazione prospettica, 1925, olio su tavola, cm 47 × 46, Macerata, Fondazione Cassa di Risparmio, Museo Palazzo Ricci
Fig. 7: Ivo Pannaggi, Astrazione prospettica, 1925, olio su tavola, cm 47 × 46, Macerata, Fondazione Cassa di Risparmio, Museo Palazzo Ricci

Su di lui, in italiano, la bibliografia è assai avara: un volume dal titolo Augusto Cernigoj bauhausiano50 ed un catalogo di una mostra tenuta a cavallo del 1998–1999, in occasione del centenario della nascita51 e poco altro.52 Qualcosa in più è stato edito nella sua lingua madre.53 Vi è, inoltre, un saggio in lingua inglese di Tomaž Toporišič.54 Dopo aver studiato alle Accademie di belle arti di Bologna e Monaco, per pochi mesi, nel 1924, egli s’iscrisse al Bauhaus di Weimar frequentando i corsi di Lázló Moholy-Nagy e Wassily Kandinsky.55

Ivo Pannaggi56 fu anch’egli futurista come Černigoj, ma, mentre l’artista sloveno partecipò, come detto, al primo Bauhaus, Pannaggi frequentò la scuola tra il 1932 e il 1933, a Berlino,57 prima della sua chiusura definitiva.58

Alfredo Bortoluzzi,59 nato a Karlsruhe ma da genitori italiani, frequentò il Bauhaus dal 1927 al 1930 (con numerose interruzioni). Suo padre Eugenio era un mosaicista veneziano. Nella città lagunare, Alfredo s’iscrisse all’Accademia di Belle Arti, abbandonandola quasi subito per non avervi trovato stimoli e, tornato in Germania, s’iscrisse prima all’Accademia di Karlsruhe e poi, appunto, al Bauhaus. Su di lui la maggiore esperta è Gisela Barche, che ne ha scritto in più occasioni.60

Assai meglio studiato è Enrico Augusto Griffini – che Bauhäusler non fu, ma che rimase «stregato» dall’esposizione del Weissenhof di Stoccarda, che all’orizzonte del Bauhaus può senz’altro essere ascritto – soprattutto per merito di Massimiliano Savorra che a lui ha dedicato, oltre ad una monografia,61 anche la cura del regesto dell’intero archivio.62 Recentemente, nel 2012, è inoltre uscito un volume a più mani a lui dedicato.63 Egli, che veniva dal cosiddetto «barocco fiorito lombardo» [fig. 8],64 passò, dopo il 1927, a progetti rigorosamente funzionalisti [fig. 9].

Fig. 8: Enrico Agostino Griffici ed Enrico Mezzanotte, Concorso per il Monumento al Fante sul Monte San Michele al Carso (Gorizia), 1920, prima versione
Fig. 8: Enrico Agostino Griffini ed Enrico Mezzanotte, Concorso per il Monumento al Fante sul Monte San Michele al Carso (Gorizia), 1920, prima versione
Fig. 9: Enrico Agostino Griffini, con Piero Bottoni ed Eugenio Giacomo Faludi (Jakab Floh), Colonia di case per vacanze: Casa per spiaggia marina, V Triennale di Milano, Parco Sempione, 1933
Fig. 9: Enrico Agostino Griffini, con Piero Bottoni ed Eugenio Giacomo Faludi (Jakab Floh), Colonia di case per vacanze: Casa per spiaggia marina, V Triennale di Milano, Parco Sempione, 1933

Inoltre, egli lasciò le sue riflessioni teoriche nel testo del 1932: Costruzione razionale della casa. I nuovi materiali. Orientamenti attuali nella costruzione la distribuzione la organizzazione della casa, per i tipi di Hoepli, in gran parte illustrato, che godette di notevole fortuna editoriale.65 «L’avvio del processo di alfabetizzazione tecnica che culmina nel 1931» da parte di Griffini, come sottolinea Savorra, «va però fatto risalire al 1927, quando, di ritorno da un viaggio a Stoccarda per visitare l’insediamento modello del Weissenhof, egli intraprende – attraverso articoli e conferenze – una capillare e sistematica opera di diffusione dei principî alla base della moderna abitazione razionale».66

Il tema è quello, largamente discusso da Gropius e dai suoi aiuti architetti nel Bauhaus, almeno a partire dal 1923, della casa economica e prefabbricata, che troverà appunto a Stoccarda un momento di sintesi finale:

Il testo dell’intervento sul Weissenhof tenuto, nel novembre 1927, all’Associazione tra i Cultori di Architettura di Milano, pubblicato nel luglio del 1928 sulle pagine di La Casa,67 costituisce il primo tassello di quest’opera di divulgazione che avrebbe raggiunto l’apice nel manuale. Da questo momento, concetti quali «standardizzazione degli elementi», «alloggio minimo», «normizzazione», «razionalizzazione del montaggio» furono infatti sempre più presenti nei suoi scritti. Non a caso, del Weissenhof Griffini – nella conferenza del novembre 1927 – mise in evidenza la mostra dei materiali che esponeva i sistemi costruttivi adottati nella colonia, tecniche capaci di venire incontro alle rinnovate esigenze economiche.

Lo scritto evidenziava l’attenzione posta alle peculiarità dei metodi costruttivi e alle opportunità offerte da una coerente scelta dei materiali.68

Fig. 10: Ludwig Mies van der Rohe, Case n. 1-4, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Am Weissenhof 14-20, fronte
Fig. 10: Ludwig Mies van der Rohe, Case n. 1–4, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Am Weissenhof 14–20, fronte
Fig. 11: Ludwig Mies van der Rohe, Case n. 1-4, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Am Weissenhof 14-20, retro
Fig. 11: Ludwig Mies van der Rohe, Case n. 1–4, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Am Weissenhof 14–20, retro

In quest’articolo, Griffini metteva a confronto l’edificio di Mies van der Rohe [figg. 10–11] e quelli di Le Corbusier – Pierre Jeanneret [figg. 12–13], a tutto favore del primo, da lui

considerato «tra i più interessanti e meglio studiati della colonia». Nello scritto, illustrato da disegni del Weissenhof eseguiti dallo stesso Griffini, grande risalto era dato agli elementi tecnico-costruttivi dell’opera miesiana: dalla struttura al rivestimento, dagli accessori all’illuminazione, dai serramenti ai pavimenti. Per quanto riguarda gli aspetti distributivo-dimensionali, considerava ben studiato lo spazio delle cucine; inoltre, sottolineava come la distribuzione dell’arredamento fosse stata pensata «coi principi teorici e coi criteri severi con cui si studierebbe la disposizione del macchinario in uno stabilimento industriale».69

Fig. 12: Le Corbusier-Pierre Jeanneret, Casa n. 14-15, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Rathenaustraße 1-3
Fig. 12: Le Corbusier – Pierre Jeanneret, Casa n. 14–15, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Rathenaustraße 1–3
Fig. 13: Le Corbusier-Pierre Jeanneret, Casa n. 13, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Bruckmannweg 2
Fig. 13: Le Corbusier – Pierre Jeanneret, Casa n. 13, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Bruckmannweg 2

Di nuovo,

Nel marzo del 1928, sulle pagine della neonata Domus,70 Griffini constatava il fiorire degli studi attorno al problema della casa economica: ricerche che – affermava – avevano condotto a risultati notevoli specialmente in Germania e in Olanda. Ricordando l’Esposizione della Casa ideale tenutasi a Londra nella primavera del 1924 per iniziativa del Daily Mail, egli sottolineava l’importanza del Weissenhof «per il perfezionamento di uno tra i sommi beni dell’uomo ed una delle sue maggiori aspirazioni: la casa comoda e bella». A suo vedere la colonia di Stoccarda risultava di estremo interesse, perché costituiva «un’affermazione stabile e duratura dei nuovi principii, un caposaldo importante nella storia dell’architettura moderna».71

All’opposto, in modo abbastanza inspiegabile, «criticava aspramente gli alloggi di Le Corbusier e Jeanneret per il loro ‹sfoggio di soluzioni strane, appoggiato a teorie tanto ardite quanto paradossali›»,72 dal momento che nelle loro due case

l’artificio emerge dovunque: l’autore scrive che le case costano troppo, il denudamento delle facciate dalle inutili decorazioni, la soppressione degli ornamenti, il massimo studio per l’utilizzazione dello spazio al millimetro, per rendere la casa accessibile a tutte le borse anche più modeste – aspirazione evangelica – e poi, messo alla prova dei fatti, innalza due costruzioni che si distinguono da tutte le altre della colonia per l’assurdo che vi domina. Se al piano terreno gli viene bene una latrina e un’anticamera rotonda, se gli vengono bene dei tavolati ricurvi, se gli vengono bene delle soprastrutture inutili in cemento armato, vi dà esecuzione con tutta disinvoltura senza preoccuparsi menomamente se questi elementi rispondano veramente al tema della casa logica ed economica. Griffini continua analizzando puntigliosamente ogni elemento compositivo; infine scrive: In queste costruzioni appare uno sforzo manifesto per fare del nuovo a tutti i costi e l’autore non s’avvede che questa fatica si giucca di lui e lo conduce alquanto lungi dalla via maestra del retto ragionare e dai postulati dell’estetica nuova che egli stesso, con tanto zelo, va propagando.73

Tre mesi dopo, sempre sulle pagine di Domus,74 Griffini tornava di nuovo sull’argomento Weissenhof, richiamando «l’idea della casa-macchina, dimostrando una completa adesione al pensiero di Le Corbusier in Vers une architecture»,75 in evidente contraddizione con l’articolo pubblicato su La Casa. Inoltre, fra tutte le abitazioni modello dell’Esposizione, Griffini sceglie

di descrivere, sottolineandone gli aspetti tecnici e funzionali, le case di Richard Döcker [figg. 14–15], di Max Taut [figg. 16–17] e di Hans Scharoun [fig. 18]. Scelti perché rappresentavano le caratteristiche predominanti dell’intero complesso, e accomunati per la loro «coerenza» costruttiva, gli edifici apparivano ai suoi occhi come perfette dimostrazioni di una modernità adatta alla ridefinizione di nuovi valori oggettivi. Un rapporto con la modernità, assai ricco di contrasti e sfaccettature, che si legava ad una visione della tecnologia come soluzione per l’architettura: il moderno si esprimeva soltanto con nuove tecniche e materiali nuovi.76

Fig. 14: Richard Döcker, Casa n. 21, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Bruckmannweg 10
Fig. 14: Richard Döcker, Casa n. 21, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Bruckmannweg 10
Fig. 15: Richard Döcker, Casa n. 22, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Rathenaustraße 9
Fig. 15: Richard Döcker, Casa n. 22, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Rathenaustraße 9
Fig. 16: Max Taut, Casa n. 22, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Rathenaustraße 11, fronte
Fig. 16: Max Taut, Casa n. 22, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Rathenaustraße 11, fronte
Fig. 17: Max Taut, Casa n. 22, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Rathenaustraße 11, retro
Fig. 17: Max Taut, Casa n. 22, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Rathenaustraße 11, retro
Fig. 18: Hans Scharoun, Casa n. 22, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Hölzelweg 1
Fig. 18: Hans Scharoun, Casa n. 22, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Hölzelweg 1

Al contrario, e con ciò forse il cerchio di questa breve disamina della ricezione del Bauhaus in Italia può aver termine, seppur del tutto provvisoriamente, il Direttore del Weissenhof, Mies van der Rohe, individuava come «edifici più interessanti dell’esposizione»77 proprio le due case [figg. 19–22] progettate da Gropius, realizzate con montaggio di elementi prefabbricati a secco (Casa n. 16) e a semi-secco (Casa n. 17).78 Per il solito, inesplicabile, gioco del destino, le due case furono distrutte dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale ed oggi non esistono più.

Purtroppo, non sapremo mai a chi dar ragione.

Fig. 19: Walter Gropius, Casa n. 16, Weissenhof, Stoccarda, 1927 (distrutta), Bruckmannweg 4
Fig. 19: Walter Gropius, Casa n. 16, Weissenhof, Stoccarda, 1927 (distrutta), Bruckmannweg 4
Fig. 20: Walter Gropius, Casa n. 17 in costruzione, Weissenhof, Stoccarda, 1927 (distrutta), Bruckmannweg 6
Fig. 20: Walter Gropius, Casa n. 17 in costruzione, Weissenhof, Stoccarda, 1927 (distrutta), Bruckmannweg 6
Fig. 21: Walter Gropius, Casa n. 17, Weissenhof, Stoccarda, 1927 (distrutta), Bruckmannweg 6
Fig. 21: Walter Gropius, Casa n. 17, Weissenhof, Stoccarda, 1927 (distrutta), Bruckmannweg 6
Fig. 22: Walter Gropius, Casa n. 17, Weissenhof, Stoccarda, 1927 (distrutta), Bruckmannweg 6, il soggiorno
Fig. 22: Walter Gropius, Casa n. 17, Weissenhof, Stoccarda, 1927 (distrutta), Bruckmannweg 6, il soggiorno

 

Didascalie

Fig. 1: Copertina della prima edizione del volume di Giulio Carlo Argan: Walter Gropius e la Bauhaus, Torino: Einaudi 1951

Fig. 2: Copertina del volume di Giulio Carlo Argan: Walter Gropius e la Bauhaus, Torino, Einaudi, 1974

Fig. 3: Copertina del volume di Giulio Carlo Argan: Walter Gropius y el Bauhaus, Buenos Aires: Ediciones Nueva Visión 1957

Fig. 4: Avgust Černigoj nella sua fase «jeans» a Trieste, 1928 ca.

Fig. 5: Avgust Černigoj, Come attraverso la strada, 1925, collage

Fig. 6: Ivo Pannaggi, I costruttori, 1925, olio su cartoncino, cm 45 × 35, collezione privata, Italia

Fig. 7: Ivo Pannaggi, Astrazione prospettica, 1925, olio su tavola, cm 47 × 46, Macerata, Fondazione Cassa di Risparmio, Museo Palazzo Ricci

Fig. 8: Enrico Agostino Griffini ed Enrico Mezzanotte, Concorso per il Monumento al Fante sul Monte San Michele al Carso (Gorizia), 1920, prima versione

Fig. 9: Enrico Agostino Griffini, con Piero Bottoni ed Eugenio Giacomo Faludi (Jakab Floh), Colonia di case per vacanze: Casa per spiaggia marina, V Triennale di Milano, Parco Sempione, 1933

Fig. 10: Ludwig Mies van der Rohe, Case n. 1–4, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Am Weissenhof 14–20, fronte

Fig. 11: Ludwig Mies van der Rohe, Case n. 1–4, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Am Weissenhof 14–20, retro

Fig. 12: Le Corbusier – Pierre Jeanneret, Casa n. 14–15, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Rathenaustraße 1–3

Fig. 13: Le Corbusier – Pierre Jeanneret, Casa n. 13, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Bruckmannweg 2

Fig. 14: Richard Döcker, Casa n. 21, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Bruckmannweg 10

Fig. 15: Richard Döcker, Casa n. 22, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Rathenaustraße 9

Fig. 16: Max Taut, Casa n. 22, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Rathenaustraße 11, fronte

Fig. 17: Max Taut, Casa n. 22, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Rathenaustraße 11, retro

Fig. 18: Hans Scharoun, Casa n. 22, Weissenhof, Stoccarda, 1927, Hölzelweg 1

Fig. 19: Walter Gropius, Casa n. 16, Weissenhof, Stoccarda, 1927 (distrutta), Bruckmannweg 4

Fig. 20: Walter Gropius, Casa n. 17 in costruzione, Weissenhof, Stoccarda, 1927 (distrutta), Bruckmannweg 6

Fig. 21: Walter Gropius, Casa n. 17, Weissenhof, Stoccarda, 1927 (distrutta), Bruckmannweg 6

Fig. 22: Walter Gropius, Casa n. 17, Weissenhof, Stoccarda, 1927 (distrutta), Bruckmannweg 6, il soggiorno

  1. Ludwig Mies van der Rohe: «On Walter Gropius» (1953), in: Sigfried Giedion: Walter Gropius: Work and Reamwork, New York: Reinhold Publishing Corporation 1954, pp. 17–18, trad. it.: «Walter Gropius», in: Ludwig Mies van der Rohe: Gli scritti e le parole, a cura di Vittorio Pizzigoni, Torino: Giulio Einaudi editore 2010, pp. 149–151: 150. Ma si veda anche, più avanti: «Come ho già detto, era un’idea. E proprio perché era un’idea, penso, il Bauhaus ha avuto un’immensa influenza sulle scuole progressiste di tutto il mondo. Non si può fare una cosa simile né con l’organizzazione, né con la propaganda. Solo un’idea si diffonde così ampiamente», ibd. Concetto già espresso, non senza una certa malcelata ironia, nel famoso discorso dello studente Fritz Kuhr, all’annuncio delle dimissioni del direttore Walter Gropius: «Noi qui a Dessau abbiamo fatto la fame per un’idea», in: Hans M. Wingler: Das Bauhaus. 1919–1933, Bramsche: Rasch & co. 1962, trad. it. di Libero Sosio, Il Bauhaus: Weimar Dessau Berlino 1919–1933, prefazione di Francesco Dal Co, Milano: Feltrinelli 1972, p. 162. Per un curioso caso del destino, sia Gropius che Mies morirono nel 1969 a un mese circa di distanza l’uno dall’altro, nel cinquantesimo anniversario della fondazione del Bauhaus. Nell’elogio funebre che Mies gli fece (apparso sul Deutsche Bauzeitung, CIII, n. 12, August 1969, p. 597), egli definiva Gropius «uno degli architetti più importanti del nostro tempo e […] il suo più grande insegnante» e il Bauhaus «una delle concezioni educative più vitali della nostra epoca», ibd., p. 303. Per una critica a quest’affermazione miesiana, si veda Francesco Dal Co: «Gli effetti della ‹calendarietà culturale›. Bauhaus I», in: Casabella, LXXIV, n. 785, gennaio 2010, pp. 101–102: 101.
  2. Per la discussione di quest’altro stereotipo, si veda ibd.
  3. Manuel Franciscono: Walter Gropius and the creation of the Bauhaus in Weimar: The ideals and artistic theories of its founding years, Urbana – Chicago – London: University of Illinois Press 1971, trad. it. di Teresa Fiori e Amelia Pinna: Walter Gropius e le origini del Bauhaus, Roma: Officina 1975, p. 37. Ringrazio la Biblioteca Comunale di Russi (RA), per avermi permesso un prestito prolungato del volume.
  4. Citato ibd., p. 11. Da notare la perdurante influenza del femminile arganiano riferito al Bauhaus che ritorna in tutto il volume.
  5. Leipzig – Wien: Verlag Dr. Hans Epstein 1929.
  6. Walter Benjamin: «Il ritorno del flâneur», in: Id.: Ombre corte. Scritti 1928–1929, a cura di Giorgio Agamben, Torino: Giulio Einaudi editore 1993, pp. 468–473: 471.
  7. Cfr. Walter Benjamin: Das Passagenwerk, hrsg. v. Rolf Tiedemann, Frankfurt am Main: Suhrkamp 1982, trad. it. di Antonella Moscati in: Parigi, capitale del XIX secolo. I «passages» di Parigi, a cura di Rolf Tiedemann, Torino: Einaudi 1986, pp. 290–291: «Il difficile nella riflessione sull’abitare è che da una parte vi deve essere riconosciuto ciò che è remoto – forse eterno –, l’immagine del soggiorno dell’uomo nel grembo materno; e che d’altra parte, malgrado questo motivo protostorico, nell’abitare deve essere compresa, nella sua forma più estrema, una condizione di esistenza del xix secolo. La forma originaria di ogni abitare è il vivere non in una casa, ma in un guscio. Questo reca l’impronta del suo abitatore. L’abitazione finisce per diventare guscio. Il xix secolo è stato come nessun altro morbosamente legato alla casa. Ha concepito la casa come custodia dell’uomo e l’ha collocato lì dentro con tutto ciò che gli appartiene, così profondamente da far pensare all’interno di un astuccio per compassi in cui lo strumento è incastonato di solito in profonde scanalature di velluto viola con tutti i suoi accessori. È quasi impossibile trovare ancora qualcosa per cui il xix secolo non abbia inventato una custodia: orologi da tasca, pantofole, uova, termometri, carte da gioco. E, in mancanza di custodie, fodere, tappeti, rivestimenti e coperture. Il xx secolo con la sua porosità, la sua trasparenza e la sua inclinazione alla luce e all’aria aperta la fa finita con l’abitare nel vecchio senso della parola».
  8. In tal senso è da sottoscrivere la conclusione del capitolo dedicato al Bauhaus in Manfredo Tafuri, Francesco Dal Co: Architettura contemporanea, Milano: Electa 1976, p. 150: «L’opera di Gropius chiude definitivamente l’epoca del Werkbund: l’edificio del Bauhaus deve il proprio carattere eroico alla tradizione che in esso vive e che esso fissa. Nuova Künstlerkolonie, esso è espressione perfetta di una forma che tutto pacifica nell’equilibrio ‹comunitario› che il Werkbund aveva preconizzato. In tal senso, il progetto di mediazione che anima Gropius come direttore del Bauhaus trova piena esplicitazione nelle sue architetture: le tensioni dell’avanguardia si risolvono definitivamente in uno ‹stile›. Di esso, Gropius è il primo prigioniero, malgrado ogni sua dichiarazione contraria».
  9. Thomas Bernhard: Holzfällen. Eine Erregung, Frankfurt am Main: Suhrkamp Verlag 1984, trad. it. di Agnese Grieco e Renata Colorni, A colpi d’ascia. Una irritazione, Milano: Adelphi 1990, p. 169.
  10. Cfr. Gilbert Lupfer, Paul Sigel: Walter Gropius 1883–1969. Fautore di una nuova forma, edizione italiana a cura di Francesca Del Moro, traduzione di Silvia Savojni, Köln: Taschen 2005, p. 45. Ma, da non dimenticare, accanto a tale «modernità», nel Bauhaus convive un «culto per il primitivo e l’inattuale» (Francesco Dal Co: «Gli effetti della ‹calendarietà culturale›. Bauhaus II», in: Casabella, LXXIV, n. 788, aprile 2010, pp. 100–103: 102) rappresentato emblematicamente dalla sedia «africana» progettata da Marcel Breuer (cfr. F. Dal Co, gennaio 2010, p. 102).
  11. Prima edizione: Giulio Carlo Argan: Walter Gropius e la Bauhaus, Torino: Giulio Einaudi Editore 1951 [n. 2 della Collana storica d’architettura, diretta da Bruno Zevi, nell’elegantissima impaginazione di Franco Berlanda]; seconda edizione: Torino: Giulio Einaudi Editore 1957; prima edizione nei Saggi Einaudi: 1966; seconda edizione: 1970; prima edizione nei Reprints Einaudi: 1974 [fig. 2]; seconda edizione: 1979; terza edizione: 1982; prima edizione nella Piccola Biblioteca Einaudi: 1988 (con postfazione di Bruno Contardi); nuova edizione: 2010 (con una nuova introduzione di Marco Biraghi). Le traduzioni in lingua straniera sono: Walter Gropius y el Bauhaus, traduzione di Obdulio Giudici, Buenos Aires: Ediciones Nueva Visión 1957 [fig. 3]; Gropius und das Bauhaus, traduzione di Hertha Federmann, Reinbek: Rowohlt 1962; Walter Gropius și Bauhaus-ul, traduzione di Sanda Sora, București: Meridiane 1976; Walter Gropius et le Bauhaus. L’architecture dans notre société, Paris: Denoël/Gonthier 1979; Gropius und das Bauhaus, traduzione di Hertha Federmann, Braunschweig: F. Vieweg & Sohn 1983; Walter Gropius et le Bauhaus, Marseille: Éditions Parenthèse 2015. Può sorprendere la mancanza di un’edizione in lingua inglese del volume.
  12. Marco Biraghi, «Valore di un libro», introduzione a Giulio Carlo Argan: Walter Gropius e la Bauhaus, Torino: Einaudi 2010, pp. vii–xxv.
  13. Ibd. ix–x.
  14. In: Casabella, X, n. 112, aprile 1937, cit. ibd., p. x.
  15. Ibd.
  16. Ibd.
  17. Biraghi 2010.
  18. Ibd., p. xvii.
  19. Ibd., p. xxii.
  20. Ibd., p. xxiv.
  21. Mi riferisco ai celeberrimi saggi: Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico (Eduard Fuchs, der Sammler und der Historiker, 1937) e Sul concetto di storia (Über den Begriff der Geschichte, 1940).
  22. Ibd., pp. xxiv–xxv.
  23. Ibd., p. xxv.
  24. Maria Luisa Scalvini, Maria Grazia Sandri: L’immagine storiografica dell’architettura contemporanea da Platz a Giedion, Roma: Officina 1984.
  25. Si vedano, almeno: Socialismo, città, architettura. URSS 1917–1937. Il contributo degli architetti europei, scritti di Alberto Asor Rosa et alii, Roma: Officina 1971, 19763 e Jean-Louis Cohen, Marco De Michelis, Manfredo Tafuri: URSS 1917–1978. La ville, l’architecture, contributions de Christian Borngraeber et alii, Paris: L’Equerre – Roma: Officina 1979.
  26. Prefazione all’edizione italiana, pp. xi–xvi.
  27. Il libro di Wingler è costituito da un breve testo di presentazione [Origine e storia del Bauhaus, pp. 5–18] e da un apparato fondamentale di documenti [I documenti del Bauhaus, pp. 19–543], per la prima volta usciti dagli Archivi del Bauhaus.
  28. Franciscono, cit., 1975.
  29. Ibd., pp. 7–31.
  30. Hannes Meyer: Architettura o rivoluzione: Scritti 1921–1942, a cura di Francesco Dal Co, Venezia: Marsilio 1969, 19773.
  31. Cfr. F. Dal Co gennaio 2010 (recensione di Bauhaus. A Conceptual Model, Ostfildern: Hatje Cantz 2009) e Id.: «Gli effetti della ‹calendarietà culturale›. Bauhaus II», cit., pp. 100–103 (recensione di Bauhaus, 1919–1933. Workshops for Modernity, Edited by Barry Bergdoll and Leah Dickerman, New York: The Museum of Modern Art 2009).
  32. Milano: Mondadori 1976, giunta alla sedicesima edizione del 2012.
  33. Roma – Bari: Laterza 1976. Il libro decostruisce il racconto della storiografia tradizionale del «movimento moderno», in particolare da parte di Nikolaus Pevsner, che stabilisce un filo rosso che da William Morris giunge al Bauhaus. L’autore mostra invece il carattere «ideologico» del Manifesto del Bauhaus a firma di Gropius (Arte-Artigianato vs. Industria), smentito, a partire dal 1923, dal sempre più stretto contatto, voluto dallo stesso Gropius, fra il Bauhaus e il mondo industriale.
  34. Cambridge (Mass.): Harvard University Press 1968, trad. it. di Teresa Fiori: Architettura e politica in Germania 1918–1945, Roma: Officina 1973.
  35. Roma: Officina 1973.
  36. B. Miller-Lane 1973, cit., p. 71, nota 50. Evidentemente questo libro manca ancora oggi, se Dal Co ha scritto che, in occasione del novantesimo centenario della fondazione del Bauhaus, era lecito attendersi «l’arrivo negli scaffali delle biblioteche di un volume destinato a divenire un punto di riferimento irrinunciabile», F. Dal Co gennaio 2010, cit., p. 101. La stessa cosa pensava, limitatamente all’edificio del Bauhaus di Dessau, Christian Norberg-Schulz in: Bauhaus. Dessau, Roma: Officina 1980, 1986,2 p. 5 [nota s. n.]. Notiamo, en passant, che l’autore (o la traduttrice Anna Maria De Dominicis), utilizza sempre l’articolo davanti Bauhaus al femminile (del resto, l’unico testo citato da Norberg-Schulz è proprio, guarda caso, il libro di Argan).
  37. Edited by Herbert Bayer, Ise Gropius and Walter Gropius, Boston: Brandford 1952 (prima edizione: Boston: The Museum of Modern Art 1938), inedito in traduzione italiana.
  38. New York: Museum of Modern Art 1937 (prima edizione: translated from the German by P. Morton Shand, with an introduction by Frank Pick, London: Faber and Faber Limited 1935), che dovrà attendere il 2004 per la trad. it. di Alessandra Salvini, La nuova architettura e il Bauhaus, Milano: Abscondita.
  39. La Miller-Lane, nel capitolo III: «La polemica sul Bauhaus», individua «due successive ondate di pubblica ostilità durante i sei anni trascorsi momenti in Turingia. La prima, limitata soprattutto a Weimar, si polarizzava intorno al tentativo di Gropius di incorporare nel Bauhaus la vecchia accademia d’arte: nel 1920, non appena l’opposizione riuscì a garantire la restaurazione dell’accademia, la polemica si spense. È nel corso del primo attacco, che si presenta per la prima volta l’accusa che la scuola ospitasse attività politiche di sinistra. L’ostilità si rinnovò nel 1922, in risposta alla mostra Bauhaus di quell’anno. Da allora in poi sia la nuova forma architettonica che usciva dalla scuola, sia le idee degli insegnanti e degli studenti erano accusate di essere di sinistra e comuniste; accuse che venivano raccolte dai partiti politici di destra della Turingia come arma contro la sinistra, che sosteneva la scuola. Entro il 1925, data in cui il governo di destra riuscì ad espellere il Bauhaus dallo Stato, si era andato delineando un chiaro schieramento politico su problemi artistici, sia in Turingia, sia sulla stampa nazionale che riportava il dibattito», cit., pp. 75–76.
  40. Ibd., pp. 62–63 e p. 73, nota 64.
  41. Cacciari 1973, cit., quarta di copertina.
  42. Ottenendone, assai probabilmente, in cambio, l’eredità di direttore della Kunstgewerbeschule a Weimar.
  43. In Julius Posener: Anfänge des Funktionalismus, Berlin – Frankfurt am Main – Wien: 1964, p. 223, cit. in M. Cacciari 1973, cit., pp. 43–45. I testi di quel dibattito sono stati pubblicati in italiano da Francesco Dal Co: in Teorie del Moderno. Architettura Germania 1880/1920, Roma – Bari: Laterza 1982, pp. 163–239.
  44. M. Cacciari 1973, cit., p. 44. E l’autore cita direttamente le parole, dure come pietre per le orecchie di entrambe le posizioni ideologiche del Werkbund, di Naumann: «Questo Werkbund non può produrre di per sé un solo vaso, perché non possiede nessuna fabbrica di ceramiche. Questo Werkbund non può produrre un solo cucchiaino: se lo deve comprare», ibd.
  45. Cito qui le parole finali di Georg Simmel del suo fondamentale e magistrale saggio: «Die Großstädte und das Geistesleben», in: Karl Bücher et alii: Die Großstadt. Vorträge und Aufsätze zur Städteausstellung, Gehe-Stiftung zu Dresden, Winter 1902–1903, Jahrbuch der Gehe-Stiftung zu Dresden, herausgegeben von Thomas Petermann, Band IX, Dresden: Zahn und Jaensch 1903, pp. 185–206: 206, nella trad. it. di Danilo Giori, «Metropoli e personalità», in: Città e analisi sociologica. I classici della sociologia urbana, a cura di G. Martinotti, Padova: Marsilio Editori 1968, pp. 275–289: 289.
  46. «[…] strenua, forse ultima lotta condotta in nome dei diritti della rappresentazione, in un mondo dominato dalla precisione tecnica e dal quale nulla è più lontano della rappresentazione stessa: in estrema sintesi a questo si potrebbe ridurre la storia del Bauhaus», F. Dal Co aprile 2010, cit., p. 102.
  47. «Der Autor als Produzent», in: Id.: Versuche über Brecht, herausgegeben und mit einem Nachwort versehen von Rolf Tiedemann, Frankfurt am Main: Suhrkamp Verlag 1966, pp. 95–116, trad. it. di Anna Marietti, «L’autore come produttore», in: Id.: Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, nota introduttiva di Cesare Cases, Torino: Giulio Einaudi editore 1973, pp. 199–217: 201 (ora in: Id.: Scritti 1934–1937, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, edizione italiana a cura di Enrico Ganni con la collaborazione di Hellmut Riediger, Torino: Giulio Einaudi editore 2004, pp. 43–58: 45).
  48. Trieste, 24 agosto 1898 – Sežana (Slovenia), 22 gennaio 1985.
  49. Altro discorso è l’influsso del Bauhaus su un artista come Luigi Veronesi, che qui non possiamo trattare.
  50. Trieste: L’Asterisco 1988.
  51. Augusto Cernigoj (1898–1998): la poetica del mutamento [Catalogo della mostra: Civico museo Revoltella, Trieste, 19 dicembre 1998 – 28 febbraio 1999], a cura di Maria Masau Dan, Fiorenza De Vecchi, Trieste: LINT 1998.
  52. Si vedano: Marco Verdone: «Spettacolo politico e ‹18 BL›», in: Futurismo, cultura e politica, a cura di Renzo De Felice, scritti di G. L. Mosse et alii, Torino: Fondazione Giovanni Agnelli 1988, pp. 483–487: 486; Id., Diario parafuturista, Roma: Lucarini 1990, il cap. «Augusto Cernigoj: l’arte è uno scherzo serissimo», pp. 173–177.
  53. Avgust Cernigoj. Retrospektiva razstava del Avgusta Cernigoja / avtorja razstave Aleksander Bassin in Peter Krecic, oblikovanje kataloga, plakata in postavitev razstave Ramko Novak, odgovorni urednik Jurij Bavdaz, [Idria]: Mestni muzei Idrija 1978 e Peter Krečič, Avgust Černigoj, Trst: Založništvo tržaškega tiska 1980.
  54. «The New slovene Theatre and Italian Futurism: Delak, Černigoj and the Historical Avant-garde in Venezia Giulia», in: International Yearbook of Futurism Studies, XIV, Berlin – Boston: De Gruyter 2014, pp. 230–262, in particolare pp. 240–243.
  55. Cfr. M. Verdone 1990, cit., p. 173.
  56. Macerata, 28 agosto 1901 – 11 maggio 1981.
  57. Cfr. Fabio Benzi: Il Futurismo, Milano: Federico Motta Editore 2008, p. 275.
  58. Come si evince dalla voce redatta da Fabio Ionni nel Dizionario Biografico degli Italiani: «Nel 1932 frequentò il Bauhaus, restandovi per un semestre fino all’avvento di Hitler, e partecipò alla riunione di studenti e docenti per protestare contro la chiusura della scuola», s.v. «Pannaggi, Ivo», in: Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LXXX, Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani 2014, pp. 796–799: 798 (con bibliografia precedente). Fra l’altro, Pannaggi fu il primo a scrivere un breve profilo di Gropius su una rivista italiana: «Architetti europei: Walter Gropius», in: La Casa Bella, V, n. 50, febbraio 1932, pp. 10–15. La storia di come si concluse la vicenda del Bauhaus è stata raccontata da Mies van der Rohe in: The End of the Bauhaus, 1952, dattiloscritto, trad. it. La fine del Bauhaus, in: L. Mies van der Rohe 2010, cit., pp. 137–142.
  59. Karlsruhe, 21 dicembre 1905 – Peschici (FG), 20 dicembre 1995.
  60. Di lei si vedano: Gisela Barche: «Alfredo Bortoluzzi: ‹Al freddo› al Bauhaus», in: Bauhaus 1919–1933. Da Klee a Kandinsky, da Gropius a Mies van der Rohe, [catalogo della mostra: Milano, Fondazione Antonio Mazzotta, 19 ottobre 1996 – 9 febbraio 1997], a cura di Marco De Michelis e Agnes Kohlmeyer, Milano: Mazzotta 1996, pp. 217–224 (illustrazioni alle pp. 225–232; biografia a p. 399; in questo saggio l’autrice prometteva uno studio sui «rapporti tra il Bauhaus e l’Italia», ibd., p. 224, nota 3) e Alfredo Bortoluzzi. La lezione del Bauhaus, 7 aprile – 10 giugno 2001, Museo d’arte di Mendrisio [catalogo e mostra a cura di Gisela Barche, Mario Botta, Simone Soldini], Mendrisio: Museo d’arte 2001. Si veda inoltre lo spezzone di conferenza in: https://www.youtube.com/watch?v=TkGQy3WzqY0.
  61. Enrico Agostino Griffini. La casa, il monumento, la città, Napoli: Electa Napoli 2000.
  62. Enrico Agostino Griffini (1887–1952). Inventario analitico dell’archivio / Archivio progetti, a cura di Massimiliano Savorra, Padova: Il Poligrafo 2007, in particolare il saggio «La cultura dell’ingegnere, il sapere dell’architetto: la ‹costruzione razionale della casa›», pp. 11–46.
  63. Claudio Camponogara et alii: La casa modernissima. Enrico Agostino Griffini tra sperimentazione e divulgazione con una antologia degli scritti, Milano: L’ornitorinco 2012. Su Griffini si veda anche la voce di Rosalia Vittorini nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LIX, 2002, cit., pp. 364–367; ma si veda anche il capitolo 10: «L’attività teorica e progettuale di Enrico Agostino Griffini», in: Eleonora Trivellin: Storia della tecnica edilizia in Italia dall’Unità ad oggi, prefazione di Alfonso Acocella, Firenze: Alinea 1998, pp. 111–121.
  64. Cfr. R. Vittorini cit., 2002, p. 365.
  65. 1933, seconda edizione rifatta; 1939, terza edizione rifatta; 1946–1947, quarta edizione (in 2 voll.); 1948, quarta edizione, prima ristampa.
  66. Savorra 2007, cit., p. 11.
  67. Enrico Augusto Griffini: «Le case economiche dell’esposizione di Stoccarda», in: La Casa, VI, n. 7, luglio 1928, pp. 527–547.
  68. Savorra 2007, cit., pp. 11–12.
  69. Ibd., p. 13.
  70. Enrico Augusto Griffini: «Esempi stranieri modernissimi di case economiche», in: Domus, I, n. 3, marzo 1928, pp. 13–15.
  71. Savorra 2007, cit., p. 12.
  72. Ibd., p. 14.
  73. Ibd.
  74. Enrico Augusto Griffini: Le case del razionalismo moderno alla mostra di Stoccarda, in: Domus, I, n. 6, giugno 1928, pp. 17–19.
  75. Savorra 2007, cit., p. 12.
  76. Ibd., pp. 12–13.
  77. Mies van der Rohe 1953, p. 150. Contrariamente all’opinione pubblica e a quella degli stessi studenti del Bauhaus, che invece criticarono apertamente le due case del loro Maestro, preferendogli quelle di Le Corbusier. Cfr. Winfried Nerdinger: Walter Gropius. Der Architekt Walter Gropius. Zeichnungen, Pläne und Fotos aus dem Busch-Reisinger Museum der Harvard University Art Museums, Cambridge/Mass. und dem Bauhaus-Archiv, Berlin, mit einem ritischen Werkverzeichnis, Berlin: Gebr. Mann Verlag 1985, trad. it. di Sissy Rizzatto, Walter Gropius. Opera completa, Milano: Electa 1988, 1993, p. 118
  78. Cfr. ibd., pp. 116–118.