Paradigmi (artistici) in movimento fra Venezia e Kassel

· Riccardo Caldura ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0002-44A2-A

Accogliendo la cortese proposta dell’amico e collega Luca Farulli riguardante la relazione artistico culturale fra Italia e Germania, le loro reciproche influenze e diversità, e come tale relazione abbia influito nella concezione della funzione dell’artista, quanto dello stesso concetto di arte, provo a ripercorrere alcuni aspetti in particolare novecenteschi. Preliminarmente va osservato che lo sviluppo internazionale delle arti e dunque le influenze che interagiscono nella concezione dell’arte, rendono permeabili i confini nazionali, e le stesse identità o matrici artistiche. Un esempio fra tutti, quello di Marcel Duchamp, artista francese naturalizzato statunitense, i cui lavori hanno avuto una così profonda influenza sull’arte contemporanea, da rendere imprescindibile riferirsi a concetti come quello di ready-made, una sorta di passe-partout senza il quale sembra difficile poter accedere all’ambito della ricerca contemporanea. Ma è pur vero che la questione di una qualche declinazione in senso identitario/nazionale, cioè local, nella sfera sempre più globale dell’arte sembra comunque permanere. Se non si può prescindere dal concetto di ready made, è altrettanto vero che la più antica manifestazione internazionale d’arte contemporanea, continua a reggersi, e bene dato l’incremento delle presenze di visitatori nelle ultime edizioni, sulla rappresentatività per paesi. È un paradosso nel mondo dell’arte internazionale questa particolarissima distribuzione a padiglioni di una parte cospicua della mostra veneziana, mentre l’altra, quella effettivamente posta sotto la regia di un direttore artistico/curatore riguarda, come è noto, il padiglione internazionale, cioè l’ex-Padiglione Italia, e l’Arsenale, usato regolarmente, dall’edizione del 1999, allora sotto la direzione di Harald Szeeman, come l’altro elemento cardine della mostra. Anche in questo caso però, dall’iniziale impronta essenzialmente curatoriale che vocava a sé l’utilizzo dello spazio recuperato delle Corderie, l’insediarsi di nuovi padiglioni nazionali sta rappresentando, anche dal punto di vista del recupero ad utilizzo pubblico della vasta area, una chance importantissima per l’espansione della rappresentatività ben oltre il nucleo nazionalmente ‹archeologico› dei Giardini.

Su questo anacronismo ‹identitario› si è soffermato il saggio di Beat Wyss e Jorg Scheller, «Il Bazar di Venezia», pubblicato nel catalogo della 54. Biennale (2011) curata da Bice Curiger, chiedendosi se non sia proprio l’anacronismo identitario a costituire una sorta di contromossa che salvaguarda asimmetrie e ‹differenze ultime› rispetto al disegno onnicomprensivo di un curator cogitans, sopravvivenza nella crisi del moderno quanto del postmoderno, di un soggetto «il cui intento intellettuale si fa oggetto estetico»1, concretizzandosi nelle opere concepite come res exposta. In fondo era la stessa direttrice artistica a giocare provocatoriamente con il paradosso veneziano, intitolando (ed evidenziando con un gioco grafico) quella edizione ILLUMInazioni. Giovanni Carmine, riprendendo e commentando gli intenti della 54. edizione, scrive: «Nel titolo ILLUMInazioni viene elevato a concetto per la 54. Esposizione Internazionale d’Arte l’elemento che principalmente caratterizza La Biennale di Venezia ovvero le presenze nazionali con i loro padiglioni ufficiali». E continua osservando non essere certo una novità affermare che l’identità nazionale non rappresenta più una chiave di lettura adeguata «per capire le complesse strutture sociopolitiche del mondo odierno». Ma ciononostante, e senza alcuna indulgenza verso nazionalismi populisticamente intesi, forse «l’ideale di nazione» sembra essere in grado comunque «di creare movimenti estremamente immaginativi e propositivi»2. Si può o meno essere d’accordo con questa impostazione della Curiger3 e dei suoi collaboratori, ma è un dato oggettivo il costante incremento di richieste di partecipazioni nazionali alla kermesse veneziana. Nell’edizione a cui ci si riferisce (2011) erano ben 89, un record storico, – e cifra confermata alla 56. edizione (2015) – rispetto alle sparute presenze che si sono venute stabilmente organizzando nel periodo 1907–1914 (Belgio, Germania, Inghilterra, Ungheria, Francia, Olanda, Svezia, oltre all’Italia). Anche se va ricordato che già il comitato patrocinatore era composto di rappresentanti di undici nazioni europee (vi erano anche l’Austria-Ungheria, la Russia, la Danimarca). Dunque il modello espositivo veneziano, apparentemente anacronistico, tiene nel tempo, pur se influenzato (in particolare per il ruolo di grande rilievo assunto dal direttore artistico/curatore) dall’altro modello per eccellenza, cioè la documenta di Kassel, e, anzi, sembra confermare una sua capacità di appeal che probabilmente non è dovuta alle caratteristiche, certo non facilmente eguagliabili, della città che ospita la Biennale, rispetto alla decorosità relativamente più anonima di una città tedesca ricostruita dopo le devastazioni della seconda guerra mondiale. Non è (solo) la grande cornice storica e ambientale che favorisce il mantenersi di un modello espositivo d’antan, quanto la sua relativa flessibilità, permeabilità alle variazioni local, e dunque una capacità di rilevamento dei mutamenti in atto non affidata esclusivamente ad una figura di riferimento, il curatore. La Biennale di Venezia si basa non (solo) su una possibile grande narrazione concettuale e visiva, ma su una grande varietà di altre narrazioni, non meno concettualmente dense quanto visivamente stimolanti. Paradossalmente il modello biennalistico, proprio perché anacronistico, sembra destrutturare, per così dire, dall’interno della concezione dell’evento contemporaneo il molto più aggiornato modello tedesco, nato consapevolmente per distinguersi dal suo precedente lagunare.

Nel 1955 documenta I viene a costituirsi come l’alternativa di una manifestazione considerata, già allora, inattuale. Per Arnold Bode lo scopo fondamentale della manifestazione da lui concepita, cioè l’essere modello della più alta qualità e veramente in grado di dar conto di quanto di più attuale vi era nell’ambito artistico, non era più raggiungibile con le modalità espositive tradizionali, cioè risalenti alla tipologia delle grandi fiere internazionali ottocentesche: «panorami e confronti soffrono dell’esposizione in padiglioni nazionali che non riescono a mostrare chiaramente affinità e continuità»4.

Almeno una condizione, iniziale, accomuna però le due manifestazioni: l’origine indubbiamente locale, e non tanto nazionale, quanto urbana, di entrambe. È una riflessione che forse non è inutile avviare: due fra le più importanti manifestazioni internazionali d’arte contemporanea, se non le più importanti, si radicano in contesti molto specifici. La più antica è stata voluta dall’allora sindaco di Venezia, Riccardo Selvatico, appoggiato da diverse figure di spicco dell’ambiente culturale veneziano. In particolare della locale Accademia di Belle Arti:

L’elemento decisivo da valutare è relativo al peso che gli artisti veneziani, docenti all’Accademia o comunque ruotanti intorno alla Società Promotrice e al Circolo Artistico, hanno avuto nell’organizzazione e poi nella gestione della nuova esposizione. Per avere un’idea di quanto abbia contato l’ambiente accademico, basti pensare che Riccardo Selvatico insegnava italiano all’Accademia di Venezia, e che Pompeo Molmenti ne era Presidente, che artisti come Ciardi, Sezanne, Tito, Dal Zotto, Marsili, Nono sono tutti professori nel medesimo istituto.5

Circa sessant’anni dopo, la situazione di fondo non cambiava. L’iniziatore di documenta è Arnold Bode – architetto, designer, pittore – originario di Kassel, dove ha studiato pittura e grafica alla locale Kunstakademie. Che verrà chiusa all’inizio degli anni 30 e l’originario edificio distrutto durante i bombardamenti inglesi del 1943. Riaprirà solo nel 1947, anche grazie all’impulso dello stesso Bode che vi svolse attività di docente dal 1948 al 1961. Arnold Bode in un’intervista del 1977 riassume questi anni:

Was tun in dem zerstörten Kassel? So am ‹Untergang› mußten wir neu beginnen! Wir dachten an unsere Kunstakademie, die von 32 von Brüning geschlossen worden war. Wir haben die ‹Neugründung› der Akademie ab 47 hinbekommen! 55 kam die Bundesgartenschau, ein großer Erfolg! Wir planten mit meinen Freuden Mettel, Haftmann, Grohmann und Martin eine Kunstausstellung. Wir wollten nach den Jahren der Nazizeit die Kunst der 20er Jahre zeigen – vor allem: Die Künstler aus Frankreich.6

La rilevanza delle condizioni contestuali, anche in queste rapide osservazioni, emerge con chiarezza, al punto di rendere problematico definire, ora, un concetto di artista o di arte che sia completamente autonomo dalle condizioni della formazione e della comunicazione. In particolare per l’arte contemporanea sembra difficile enucleare una riflessione sull’opera e sull’operare, prescindendo dalla complessa messa a punto delle modalità non solo di creazione, ma anche di esposizione, avvenga quest’ultima in contesti musealmente definiti, oppure, come nel caso specifico delle due manifestazioni, nella cornice di istituzioni il cui scopo è la produzione di proposte culturali a carattere temporaneo. Non solo, soprattutto per la comprensione delle iniziali motivazioni di fondo di documenta, la riflessione sulla storia (artistica) locale è di grande rilevanza, non meno di quel che avveniva in città nel periodo della concezione della prima mostra. Non si tratta qui di un problema di mera ricostruzione filologica, quanto di un orizzonte di riferimento che, in anni ben distanti dalle attività di Bode, continua ad emergere come una sorta di linea concettuale che tiene insieme le fasi più attuali della manifestazione con le sue origini nel periodo della ricostruzione tedesca ed europea.

L’attività artistica negli anni 20 a Kassel, era molto intensa, ed è nelle serie di esposizioni realizzate all’Orangeria che si può cogliere l’allargarsi delle manifestazioni dalla dimensione cittadina a quella regionale, e nazionale. A tutte le quattro manifestazioni tenutesi (1922, 1925, 1927, 1929) Bode partecipò come pittore. Per l’edizione del 1929 Bode fece parte anche della Commissione di selezione per il settore dell’arte attuale; l’organizzazione di queste esposizioni ha visto due istituzioni cittadine, la Kunstakademie e il Kunstverein, lavorare insieme. La struttura di queste esposizioni, come ricostruisce con puntualità Dirk Schwarze7, avrebbe rappresentato un riferimento diretto per l’organizzazione della prima documenta, anche per quel che riguarda l’allargamento progressivo del raggio di interesse della grande mostra del secondo dopoguerra. L’edizione del 1927 era stata organizzata per il giubileo dei 150 anni di storia della Kunstakademie, nel catalogo è presente un testo che illustra le quattro sessioni di cui era composta la mostra, e in cui è chiarissimo l’intento di ricognizione culturale: dopo il settore a carattere retrospettivo («Rückschauende Abteilung»), seguono quello di ambito cittadino («Heutige Akademie»), di ambito regionale («Hessische Kunst der Gegenwart»), e infine «Deutsche Kunst der Gegenwart». Osservando le partecipazioni artistiche dell’esposizione del 1927 e del 1929, in particolare riguardanti le due ultime sessioni nominate, vi si ritrova un nucleo consistente di grandi artisti tedeschi o di area culturale tedesca che saranno poi esposti alla prima edizione di documenta: Albers, Baumeister, Feininger, Gilles, Heckel, Hofer, Kandinsky, Klee, Lehmann, Marcks, Mataré, Mueller, Nay, Pechstein, Purrmann, Rohlfs, Schlemmer, nonché Dix, de Fiori, Kokoschka, Schmidt-Rotluff. Non solo, anche la concezione di una sessione espositiva ‹retrospettica› trova il suo senso nel confronto con la ricerca più attuale: anche in questo caso una traccia che riemerge nel 1955.

Nelle discussioni avvenute negli anni immediatamente precedenti la prima documenta, si era pensato di rendere più fruibile la mostra d’arte contemporanea sfruttando l’afflusso di visitatori per la prevista edizione della più importante fiera nazionale del vivaismo (BUGA) locata appunto a Kassel nel 1955, e fra le soluzioni espositive possibili per ospitare la manifestazione artistica, uno dei collaboratori di Bode, il prof. Hermann Mattern, importante architetto del paesaggio, – anch’egli fra i promotori della riapertura dell’Accademia di Kassel, nonché docente della medesima –, aveva assunto nel 1951 l’incarico di organizzare le strutture per ospitare la Bundesgartenschau, nel grande parco urbano (la Karlsaue), i cui edifici erano però gravemente danneggiati. In quell’occasione, anche per evidenziare la relazione fra la manifestazione vivaistica e l’esposizione d’arte contemporanea, Mattern aveva proposto di ospitare quest’ultima in un grande padiglione costruito ad hoc. Non venne adottata questa soluzione; come è noto venne riutilizzato, invece, senza volutamente restaurarlo integralmente, così che i segni del secondo conflitto mondiale fossero ancora evidenti, il Fridericianum. Primo museo pubblico dell’Europa continentale, concepito sotto l’influsso delle teorie illuministiche, voluto da Federico II della casa di Assia-Kassel, progettato dall’architetto di origine ugonotta Simon Louis du Ry, e aperto nel 1779 pochi anni prima della Rivoluzione francese. Questa fitta trama di rimandi al passato, lontano e relativamente recente, è stata riproposta da Roger M. Buergel nella dodicesima edizione di documenta, nel testo di apertura del Magazine/Reader, pubblicazione principale per l’edizione 2007. Il testo di Buergel, dal titolo assai significativo, Der Ursprung / The Origins, riprendeva puntualmente le vicende del 1955, fra cui l’ipotesi di ospitare la mostra nel luogo proposto e progettato da Mattern. Così che l’arte contemporanea avesse una sorta di cornice catastrofico-pastorale, da paesaggio con rovine, o meglio: «rose dalle macerie»8. Non andò così, come si è già detto, la scelta cadde sul Fridericianum, proprio, secondo Buergel, per la valenza simbolica che quell’edificio neoclassico aveva: la sua condizione di rovina corrispondeva all’idea illuministica, anch’essa ridotta nient’altro che ad un cumulo di rovine, edificio ed emblema di una catastrofe culturale tedesca nel cuore dell’Europa, in una Germania ormai divisa in due. L’idea di Mattern a suo tempo abbandonata, è stata invece ripresa da Buergel, che ha organizzato una parte rilevante della documenta XII in serre ad uso espositivo (Aue-Pavillon), appositamente progettate e collocate nell’ampia spianata verde del parco urbano.

Gli artisti invitati alla prima edizione erano 148 provenienti da sei paesi.9 L’organizzazione era bipartita fra Bode, responsabile in particolare dell’allestimento, un allestimento di rara efficacia, e Werner Haftmann, con Bode responsabile della selezione degli artisti, secondo un taglio che privilegiava una sorta di linea di continuità fra le forme dell’astrattismo pre-seconda guerra mondiale e la ripresa astratto-informale dopo il conflitto. L’intento era quello di individuare una linea di sviluppo e di continuità, una vera e propria genealogia del presente, attraverso in particolare le ascendenze avanguardistiche rappresentate dall’Espressionismo, dal Futurismo, dall’Astrattismo, dal Costruttivismo e da grandi figure meno collocabili entro precisi ‹ismi› quali Klee, De Chirico, o Matisse. La connessione con la ricerca attuale tedesca, nutrita come si è già detto la rappresentanza storica, era, ad esempio, rappresentata da un artista quale Fritz Winter, considerato uno dei padri dell’astrattismo informale, e docente alla Kunstakademie di Kassel, in mostra con un grande dipinto prodotto per l’occasione: Komposition vor Blau und Gelb. Winter stesso rappresentava nel suo percorso l’elemento di connessione fra la nuova tendenza dell’astrattismo post-bellico e l’insegnamento di artisti quali Albers, Kandinsky e Klee, dei quali Winter era stato allievo, esemplificando bene gli intenti di Bode, cioè l’individuazione delle radici della produzione artistica più recente: «die Wurzeln des gegenwärtigen Kunstschaffens auf allen Gebieten sichtbar zu machen». Individuare una linea di sviluppo ha implicato comunque, per quanto ad ampia ricognizione fosse la proposta culturale, non considerare la produzione di artisti quali Duchamp o Magritte, nonché le posizioni più radicali del dada (Heartfield, Grosz)10. L’approfondimento in chiave astratto-informale della ‹genealogia del presente›, iniziato con la prima edizione, diventa più evidente in occasione della seconda edizione, quella del 1959, sempre condotta da Bode, con la collaborazione di Haftmann. Particolarmente indovinato il logo della manifestazione: una d minuscola, in rosso e blu, l’indicazione della seconda edizione sintetizzata da doppie lineette in giallo, una sorta di risposta alla grafica del terrore rappresentata dalla svastica. La tendenza realistica dell’arte, di fatto, viene bandita, ed è cosa comprensibile se si considera che il realismo figurativo, declinato nelle varie forme di un recupero classicistico, aveva caratterizzato l’estetica nazista nella importante mostra del 1937 all’Haus der Kunst, coeva alla mostra dell’Entartete Kunst, e continuava a caratterizzare l’estetica dei nuovi regimi est europei, fra cui la vicina DDR, il cui confine correva a poche decine di chilometri da Kassel. L’informale rappresentava dunque lo stile di tendenza a livello internazionale, una linea di continuità con l’astrazione anteguerra, e soprattutto una ritrovata sintonia fra le due sponde dell’Atlantico, considerando la rilevanza data al lavoro di Jackson Pollock e della scuola di New York. Per Haftmann, come egli ha scritto nel catalogo, nell’astrazione sfociavano tutte le distinte linee portanti dell’arte dopo la seconda guerra mondiale, con un anno apicale rappresentato dal 1950. Non era esattamente così, vi erano altre tendenze in atto, ma ciò nondimeno la posizione di Haftmann11, molto discussa anche allora, rappresentava una visione della funzione dell’artista e una particolare concezione dell’arte, con riscontri, a livello internazionale che comprendevano l’action painting, il tachisme, l’art autre o l’art informel, la pittura materica, e che coinvolgevano anche la situazione italiana. A Kassel nel 1959 era ben rappresentata una parte cospicua dell’arte italiana riportabile all’astrazione e all’informale, da Alberto Viani a Burri, da Birolli a Afro e Mirko Basaldella, da Capogrossi a Dorazio e a Lucio Fontana, solo per citare alcuni degli artisti presenti, dando così seguito alla qualificata presenza italiana già nella prima edizione.12 Non è qui riproponibile una riflessione sulla natura complessa dell’informale, definizione sotto cui vengono compresi percorsi artistici molto diversi, ma è pur vero che sono individuabili elementi in comune, una sorta di artistica Weltsprache, nella gestualità, nella matericità, nella estrema concentrazione sul fare arte a partire da una negazione del valore descrittivo/rappresentativo dell’immagine, trasformando quel fare medesimo in una processualità aperta ed immersiva, mediante cui può ancora addensarsi una qualche soggettività residuale, e ineliminabile, considerando l’irripetibilità del gesto/segno. Una soggettività pensata come elemento catalizzatore di un processo di disintegrazione e ricomposizione che non può risolversi nella razionalità di un progetto ‹costruttivista›. Se l’Informale sia da considerare come una ‹retroguardia›, una regressione, a livello esistenziale quanto formale, una caduta da qualsivoglia progettualità illuministicamente intesa, oppure il frutto di una (tutto sommato) efficace resa alla dimensione meramente individuale, cioè senza illusioni ‹collettive›, in una fase di crescita esponenziale dell’economia di mercato, è cosa che compete alla interpretazione di allora come di oggi. Haftmann nel testo di presentazione della mostra, e in un importante articolo per la Frankfurter Allgemeine Zeitung (15 luglio 1959), la concepiva come una manifestazione di ciò che contraddistingueva una tendenza generale dell’arte, posta sotto il segno, irrinunciabile, della libertà come relazione dell’uomo verso se stesso e verso l’ambiente in cui vive. Così da poter elaborare un’arte in grado di liberarsi anche da ciò che di extra-artistico potesse condizionarla.

La terza edizione di Documenta che si realizza nel 1964 (e non come originariamente previsto nel 1963)13, è ancor dovuta alla stretta relazione fra il curatore, Arnold Bode e Werner Haftmann. Mentre il primo darà, ancora una volta, un contributo decisivo all’evoluzione della mostra, ora non solo con un altro grande saggio allestitivo, ma anche concependola come un «museo di 100 giorni» (della vitalità di questa impostazione è testimonianza la sua ripresa nella programmazione della documenta X, curata da Catherine David nel 1997), Haftmann si mantiene sostanzialmente nel solco della sua interpretazione: l’arte è ciò che dipende innanzitutto dalle personalità creatrici, non ha carattere di progetto o modello, la sua dimensione esorbita dal mero consumo contemporaneo, ed è sostanzialmente l’esercizio di una libertà non condizionata da fattori esterni, semmai rivolta alla propria storia, alla sua rilettura così da trasformare in contemporaneo anche ciò che non ha a che fare con la stretta attualità. Prevalgono dunque

le tendenze astratte degli artisti contemporanei: da Pollock a Rauschenberg, e poi il Gruppo Cobra, Fontana e gli italiani del Fronte Nuovo, ma anche i più giovani scultori Consagra e Pomodoro, e Vedova che espone i Plurimi di Berlino, installati nelle posizioni più diverse, appesi, stesi o appoggiati alle pareti.14

Meriterebbe un approfondimento a parte quest’ultimo riferimento alla forza dell’Absurdes Berliner Tagebuch, una delle opere più coinvolgenti di quella edizione, ed emersione di un intenso lavoro, che già da alcuni anni si veniva facendo anche a Venezia intorno all’Informale (un paio di esempi: Vitalità dell’arte realizzata da Paolo Marinotti al Centro Internazionale per l’Arte Contemporanea di Palazzo Grassi nel 1959, e lo stesso Vedova che ottiene nel 1960 il Gran Premio per la Pittura alla Biennale).

Il richiamo alla presenza di Rauschenberg nella documenta III non deve però ingannare; sarà la Biennale, e in quel medesimo anno, a cogliere la scossa new dada, che viene anticipando la pop art, e il definitivo mutare di una concezione dell’operare artistico, dove non è più la grande lezione astratta a far tendenza, ma semmai il distacco da essa. Come è il caso di Rauschenberg (e Johns), ben più influenzati dal dada, da Duchamp (via John Cage), che non da Josef Albers, il quale insegnava al Black Mountain College, e verso cui l’artista americano dichiarò di aver semmai fatto il contrario di quanto gli veniva impartito dal ex-docente del Bauhaus. A Venezia Rauschenberg vincerà, per la prima volta dato ad un americano, il Gran Premio della Pittura. Il passo iniziale di Francesco Bonami per il testo di «Pittura/Painting – Da Rauschenberg a Murakami 1964–2003», compreso nel catalogo della 50esima Esposizione Internazionale d’Arte (2003), merita di esser riportato integralmente per le due citazioni con cui il curatore italiano apre le sue pagine. La prima citazione è dello stesso Rauschenberg: «La pittura è in rapporto sia con l’arte che con la vita. Nessuna delle due può essere costruita. Io tento di operare nello spazio che c’è tra le due». La seconda è tratta dal commento uscito a suo tempo nel New York Times:

Un incredibile temporale si è abbattuto su Venezia venerdì notte, mentre i sette membri della giuria internazionale, compreso l’americano Sam Hunter, erano sul punto di raggiungere la decisione finale. In quel momento il gotha dell’arte internazionale stava discutendo animatamente la voce già confermata secondo cui Rauschenberg aveva vinto il principale premio di pittura.

Commenta Bonami: «Il trentanovenne Robert Rauschenberg aveva conquistato la sonnolenta e autoindulgente scena artistica europea»15 A Kassel le cose cambieranno, la lunga stagione di Haftmann si è conclusa (e, sia pur più lentamente, anche quella di Bode si avvia alla conclusione). Per la quarta edizione di documenta, quella del fatidico 1968, sarà la Pop Art a conquistare la scena. E a Venezia? L’urto del 1968 si concretizza in proteste e manifestazioni che mettono in discussione l’intero assetto istituzionale della mostra. Anche la Biennale dovrà rinnovarsi.

 

 

Bibliografia/fonti

Bonami, F.: «Pittura/Painting – Da Rauschenberg a Murakami 1964–2003», in: Sogni e Conflitti. La dittatura dello spettatore, Venezia: Marsilio Editori 2003 (50esima Esposizione Internazionale d’Arte).

Buergel, R.: «Der Ursprung / The Origins», in: Documenta Magazine, Nr. 1–3, Reader, tomo I: «Modernity?» Köln: Taschen GmbH 2007.

Carmine, G.: «Dov’è Ai Weiwei?», in: Illuminazioni Biennale Arte 2011, Venezia: Marsilio Editori 2011 (ed. Italiana).

Cestelli Guidi, A.: La ‹documenta› di Kassel – Percorsi dell’arte contemporanea, Milano: Costa & Nolan 1997.

Curiger, B.: «ILLUMInazioni», in: Illuminazioni Biennale Arte 2011, Venezia: Marsilio Editori 2011 (ed. Italiana).

Holler, W.: «Dynamisierung des Kunstbegriffs: Italien 1940–1960», in: Mythos Italien – Wintermärchen Deutschland. Die Italienische Moderne und ihr Dialog mit Deutschland, hrsg. von Carla Schulz-Hoffmann, München: Prestel Verlag 1988.

Schulz-Hoffmann, C.: «Nach 45: Realismus oder Abstraktion», in: Mythos Italien – Wintermärchen Deutschland. Die Italienische Moderne und ihr Dialog mit Deutschland, hrsg. von Carla Schulz-Hoffmann, München: Prestel Verlag 1988.

Schwarze, D.: «Arnold Bode und der Impuls zur documenta», in: Arnold Bode (1900–1977) Leben und Werk, hrsg. von Marianne Heinz, Wolfratshausen: Edition Minverva 2000.

Stringa, N.: «La Biennale di Venezia, tracce per un secolo di storia», in: La Pittura nel Veneto – Il Novecento, tomo II, Milano: Electa 2008.

Wyss, B./Scheller, J.: «Il Bazar di Venezia», in: Illuminazioni Biennale Arte 2011, Venezia: Marsilio Editori 2011 (ed. Italiana).

http://www.documenta.de/de/retrospective/documenta#.

  1. Wyss, B. / Scheller, J.: «Il Bazar di Venezia», in: Illuminazioni Biennale Arte 2011, Venezia: Marsilio Editori 2011 (ed. Italiana), p. 117.
  2. Carmine, G.: «Dov’è Ai Weiwei?», in: Illuminazioni Biennale Arte 2011, Venezia: Marsilio Editori 2011 (ed. Italiana), p. 60–62.
  3. «La più importante, vasta e antica ‹inter-nazionale› di tutte le biennali d’arte è a tutt’oggi improntata a uno slancio di salvaguardia delle frontiere nazionali in un periodo in cui anche gli artisti sono diventati migranti e turisti culturali attenti e diversificati. Nell’arte odierna, le questioni dell’identità e del retaggio culturale costituiscono da anni un tema di rilievo cruciale e potrebbero ampliarsi e approfondirsi ulteriormente. Lontana dalla definizione conservatrice del concetto di ‹nazione›, l’arte ha il potenziale di sperimentare nuove forme di ‹comunità›, di negoziare differenze e affinità in maniera esemplare per il futuro». Curiger, B.: «ILLUMInazioni», in: Illuminazioni Biennale Arte 2011, Venezia: Marsilio Editori 2011 (ed. Italiana), p. 43.
  4. Cestelli Guidi, A.: La ‹documenta› di Kassel – Percorsi dell’arte contemporanea, Milano: Costa & Nolan 1997, p. 26. Il volume prende in esame solo le prime nove edizioni dell’esposizione.
  5. Stringa, N.: «La Biennale di Venezia, tracce per un secolo di storia», in: La Pittura nel Veneto – Il Novecento, tomo II, Milano: Electa 2008, p. 655. A questa origine della Biennale si richiama anche la Curiger 2011: «Ma la Biennale fu fondata nel 1895 come istituzione civica e artistica» (p. 43).
  6. Schwarze, D.: «Arnold Bode und der Impuls zur documenta», in: Arnold Bode (1900–1977) Leben und Werk, hrsg. von Marianne Heinz, Wolfratshausen: Edition Minverva 2000, S. 24.
  7. Cfr. ibd., pp. 24–29
  8. «… zugespitzt gesagt wuchsen die Rosen auf den Trümmerhalden». Buergel, R.: «Der Ursprung / The Origins», in: Documenta Magazine, Nr. 1–3, Reader, Köln: Taschen GmbH 2007, p. 27. Si rimanda comunque all’intero testo di Buergel (pp. 25–39), anche per la puntualità della rilettura dell’allestimento di Bode, nonché dell’atmosfera a Kassel negli anni 20. Il testo di Buergel apre il primo dei tomi tematici, dal titolo assai significativo: «Modernity?»
  9. L’edizione del 2012, con un numero relativamente più alto di artisti (194), ha visto invece la partecipazione di 55 paesi, dato questo che è difficile non mettere in relazione con l’incremento dei paesi partecipanti (e dunque con il valore rappresentativo) dei padiglioni nazionali alla Biennale di Venezia.
  10. Cfr. http://www.documenta.de/de/retrospective/documenta#, anno 1955.
  11. Cfr. http://www.documenta.de/de/retrospective/documenta#, anno 1959.
  12. Per uno sguardo d’insieme sulle variazioni del concetto di arte in Italia in questi anni si rimanda al saggio, fra i molti possibili, di Wolfgang Holler, «Dynamisierung des Kunstbegriffs: Italien 1940–1960». Nel saggio viene individuato un arco che va da Guttuso a Manzoni, e quest’ultimo nome indica chiaramente come già alla fine degli anni 50 e i primissimi anni 60 la questione, in Italia, non riguardava più la sola tendenza informale. Lo stesso Fronte Nuovo delle Arti, si forma nel 1946, e nel 1948, considerando le posizioni formalmente non assimilabili di Guttuso e Vedova si scioglierà: «Die Gruppe zerbrach jedoch bald wieder (1948), weil man sich nicht verständigen konnte, welche der beiden Richtungen, Realismus oder Abstaktion, ‹wahrhafter› im Sinne des freiheitlichen Fortschrittes arbeitete», p. 79. Si veda anche, per un sintetico raffronto fra Italia e Germania su questa medesima querelle, con attenzione al Parallelentwicklung in Deutschland, il testo di Carla Schulz-Hoffmann, «Nach 45: Realismus oder Abstraktion» (p. 224). Entrambi i testi citati sono compresi nella pubblicazione Mythos Italien – Wintermärchen Deutschland. Die Italienische Moderne und ihr Dialog mit Deutschland, hrsg. von Carla Schulz-Hoffmann, München: Prestel Verlag, editata in occasione della omonima mostra, tenutasi all’Haus der Kunst di Monaco di Baviera dal 24 marzo al 29 maggio 1988.
  13. La mostra, pensata originariamente come una periodicità quadriennale fino al 1968, di cui è eccezione la terza edizione, avrà poi cadenza quinquennale.
  14. Cestelli Guidi 1997, p. 35.
  15. Bonami, F.: «Pittura/Painting – Da Rauschenberg a Murakami 1964–2003», in: Sogni e Conflitti. La dittatura dello spettatore, Venezia: Marsilio Editori 2003 (50esima Esposizione Internazionale d’Arte), p. 423.