Ulm e il gruppo T

· Giovanni Anceschi ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0002-44A4-8

Titelbild

 

Guten Abend!

Zuerst ein Paar Prämissen:

Ich bedanke mich sehr für die Einladung der Universität Stuttgart.

Es ist für mich eine große Ehre in einem solchen wichtigen und berühmten Haus zu sprechen. 

Aber muss man auch unterstreichen, daß die Bindungen zwischen meiner Schule (der HfG Ulm) und der UNI Stuttgart sehr stark sind. Stuttgart hat zum Beispiel seinerzeit, nämlich in der Periode, in der die HfG geschlossen wurde, Obdach meiner Schule gewährt. Und Obdach ist der richtige Wort, weil es sich wirklich um ein Kalvarien gehandelt hat: Das Institut für Umweltplanung, HfG Ulm, wurde damals in Stuttgart gegründet.

Aber vielleicht noch wichtiger ist, daß die UNI Stuttgart, der endgültige Lehrsitz von Max Bense, der vorher Dozent in Ulm war, gewesen ist. Bense ist eine der markantesten Figuren der Anfänge der informationstheoretischen Studien überhaupt. Wir könnten vielleicht einen kleinen Beitrag zu dem Thema unserer Konferenz (nämlich die Frage nach dem kulturellen Austausch zwischen Deutschland und Italien) sofort geben, indem wir daran erinnern, dass ich die Ehre hatte, die Übersetzung in die italienische Sprache der vier Bände der grundlegenden Aesthetica von Max Bense, herzustellen.

Unbedingt aber muß ich mich auch den Kuratoren dieser wissenschaftlichen Veranstaltung (den Professoren Sabrina Krone und Barbara Potthast, und, meinem Freund, dem Prof. Luca Farulli), bedanken.

Es ist eine authentische Ehre für diesen Bildchenspezialist, dass er diesen Abend für Euch spricht.

Schließlich muss ich mich aus einem letzten Grund bedanken. Ich hatte einen ziemlich pompösen Titel für meinen Vortrag vorgeschlagen, etwa: Gestaltungspädagogik in Ulm und Italien, oder so was. Aber meine lieben Kollegen haben einen klaren und expliziten Titel für mich ausgewählt: Ulm und die Gruppe T. Ein Titel der, irgendwie, auf die gleiche Ebene meine deutsche Schule und meine italienische Künstlergruppe setzt. Dies macht natürlich den alten Schüler außerordentlich stolz.  

Außerdem muß ich sagen, daß ich mein Vortrag auf Italienisch halten werde. In Ulm habe ich fünf Jahre lang Deutsch gesprochen, und meine Diplomarbeit auf Deutsch geschrieben, aber das ist mehr als fünfzig Jahre her gewesen. Ich bitte um Entschuldigung. In der letzten Phase der Fragen und der Diskussion werde ich natürlich auf Deutsch antworten. 

 

E adesso passiamo all’Italiano!

La domanda è: come è successo che sono arrivato a Ulm? È successo che un critico d’arte ed estetologo Italiano, che si chiama Gillo Dorfles (adesso ha 105 anni), che era molto amico di famiglia ecc. ha detto a mio padre: «Guarda Luciano che in Germania c’è una scuola diretta da un mio amico sudamericano (e intendeva Tomás Maldonado). Mandaci Giovanni – di cui conosco le prove artistiche Miriorama – che sicuramente si troverà bene.»

E allora io sono partito per Ulm, e quindi per me personalmente Gruppo T e Ulm sono strettamente in connessione. Il gruppo T è stato un’iniziativa artistica che avevo messo in moto assieme a un gruppo di amici e colleghi che avevano più o meno la mia stessa età, e cioè vent’anni. T fra l’altro è l’iniziale della parola Tempo. Gruppo Tempo. Non Spazio, forse Spaziotempo… ma dove la novità è il Tempo. La dimensione temporale nella nostra epoca è fondamentale.

Miriorama Gruppo T

Fig. 1

Questa foto (1) mi diverte molto mostrarla perché fa vedere chi eravamo: cinque giovanotti, se non addirittura ragazzotti, molto vintage, si direbbe adesso. Da sinistra Gianni Colombo, il sottoscritto, Grazia Varisco, Davide Boriani e Gabriele Devecchi.

Fig. 2
Fig. 2

Questo (2) è il Manifesto del Gruppo T: la dichiarazione Miriorama 1. Ed era un manifesto che tendeva a concentrare la propria attenzione sul fatto che il mondo è dinamico, mutevole, trasformabile. E quindi l’arte, secondo la nostra prospettiva (una sorta di teoria del rispecchiamento avrebbe potuto dire Giörgy Lukács) essa doveva muoversi in parallelo a questa variabilità e mutevolezza, e come conseguenza tecnica – avrebbero detto i futuristi – nell’opera d’arte doveva essere inserito il movimento, accanto a mezzi quali colore, forma, luce, ecc.

Fig. 3
Fig. 3

E questo è il Grande Oggetto Pneumatico (3), esposto a Miriorama 1; ma in realtà il titolo originario era Ambiente a volume variabile. L’opera, che è stata battezzata Grande Oggetto

Pneumatico da Bruno Munari, era un ambiente percorso da sette grandi tubi in politene sottile che, gonfiandosi, avevano la particolarità di scacciare gli spettatori, come ebbe modo di constatare con stupore e scandalo un critico d’arte di allora, Giorgio Kaisserlian. Era un dispositivo decisamente interattivo, parola che noi allora non usavamo, e non era possibile, ma che oggi possiamo usare per spiegare che cosa succedeva. Si trattava di un’interazione somatica e non elettronica, ovviamente.

Queste sono opere rappresentative, una per ciascuno dei membri del Gruppo T.

Fig. 4
Fig. 4

Se il GOP è stato esposto nella mostra Miriorama 1, la Superficie magnetica (4) di Davide Boriani, ottenuta muovendo magneti sotto un piano cosparso di polvere di ferro, è stata esposta in Miriorama 2. L’oggetto, intitolato misteriosamente (5) da Gabriele Devecchi, è stato esposto in Miriorama 3.

Fig. 5
Fig. 5

È il risultato dell’interferenza fra un lamierino forato e il raster generato dall’ombra portata dal lamierino stesso su una superficie sottostante in gomma che si muove. Esposta in Mirorama 4 l’opera di Gianni Colombo è costituita da piccoli parallelepipedi in multoprene, animati a mano, e inaugura la serie delle Superfici pulsanti (6).

Fig. 6
Fig. 6
Fig. 7
Fig. 7

Con il titolo Tavole idriche, che poi diventerà Tavola di possibilità liquide (7), la mia opera, esposta in Miriorama 5, è costituita da una busta in plastica trasparente contenente olio colorato che capovolta cola. Come si vede sono lavori molto particolari. In qualche modo, più tardi la critica (soprattutto Giulio Carlo Argan secondo una sua prospettiva ideologica), tenderà a collocarci in una linea neo-costruttivista. Cosa, a mio avviso, non proprio corretta: la nostra è una partenza che nasce dal cuore dell’informale. Un informale portato alle sue estreme conseguenze, un informale cinetico, che anima i materiali (polveri, liquidi, ecc.), sfruttando le loro proprietà materiche.

Fig. 8
Fig. 8

Questa è infine un’opera di Grazia Varisco, subito aggregatasi al gruppo, e che si intitola, Sferisterio (8). Si tratta di piccole semisfere dotate di un piccolo magnete, che si possono spostare su una lamiera forata.

Kunst und Anti-Kunst

Dunque io arrivo ad Ulm dall’arte, ma lì si verifica quasi un malinteso: io ci ero andato, credendo che il fatto di essere l’erede del Bauhaus comportasse ereditare anche quella fertile commistione fra arte e design che aveva caratterizzato il Bauhaus. Arte e design mescolati, per così dire. E invece che cosa incontro a Ulm? Incontro un’ideologia disciplinare decisamente anti-arte (e anche, in fondo, anti-Bauhaus). A dire il vero ci sono delle giustificazioni del fatto che una scuola, che nasce negli anni Cinquanta dell’altro secolo, abbia assunto una simile posizione. C’è, in primo luogo, l’esigenza di affermare l’autonomia della nuova disciplina del design, che ha bisogno di recidere le proprie radici. E questo vuol dire «parlare male» della propria matrice culturale. Cioè criticare radicalmente il Bauhaus. C’è, poi, il serpeggiare nella cultura del tempo di richiami a un «nuovo idealismo», come afferma un movimento artistico coevo come il gruppo Zero. Da qualche parte, sullo sfondo, si colloca infatti la previsione di una morte dell’arte di Hegel o l’idea di un’arte che si scioglie nella vita, proposta da De Stijl, che aveva promosso e praticato l’impiego degli stessi principi di semplificazione formale estrema a coinvolgere la configurazione sia delle opere d’arte che degli oggetti d’uso.

A Ulm fra i più estremi anti-artisti possiamo contare due ex-artisti come Otl Aicher e Walter Zeischegg. L’atmosfera è quella di un divieto di parlare d’arte, quasi quella di una caccia alle streghe. Diverso è il caso di Maldonado, che assume una posizione più sfumata: l’arte e il design sono certamente fenomeni diversi, ma senza che ci sia bisogno di emanare nessun decreto di morte dell’arte. Ma c’erano anche proprio gli eretici più o meno espliciti, come il sottoscritto – per esempio – o come Karl-H. Remi, o Peter von Kornatzki, o Tomas Nittner, che all’arte restavano legati.

Fig. 9
Fig. 9

Infatti io pubblico un testo sulla rivista degli studenti «output», (Questa è la copertina (9)) dedicato alla Grande mostra delle Nuove Tendenze 2, tenutasi a Zagabria nel 1963. Va notato che Zagabria, nella allora Jugoslavia, era un centro di cultura vivacissimo, nell’area dei paesi non allineati, dove si incontravano e si fertilizzavano reciprocamente spinte ideologiche differenti. Nel mio saggio io presentavo, fra l’altro, una sorta di tipologia articolata degli operatori presenti nel movimento delle Nuove Tendenze. E indicavo:

a) il nuovo artista sperimentale. Gli autori pubblicano le proprie sperimentazioni innovative nei canali tradizionali, gallerie d’arte e musei. La novità sta nel «che cosa».

b) il designer dell’arte. Nel frattempo si era andata affermando la nuova forma di pubblicazione e distribuzione dell’arte: l’arte moltiplicata. C’erano state le editions MAT, inventate da Daniel Spoerri, con opere prodotte in serie di Arman, Paul Bury, Marcel Duchamp, Karl Gerstner, Heinz Mack, Dieter Roth, Man Ray, Jesus R. Soto, Jean Tinguely, Victor Vasarely. E poi, fra gli italiani, Bruno Munari, Enzo Mari, Davide Boriani. Questa immagine (10) illustra la produzione di Design dell’arte del Gruppo T.

Fig. 10
Fig. 10

Multipli in dieci copie realizzati presso Danese, e rieditati oggi in cento copie presso Alessi.

c) la terza e ultima possibilità implicita nella cultura in cui navigavano le Nuove Tendenze è rappresentata da quello che, di nuovo con Hegel, potremmo chiamare lo scienziato dell’arte. C’è il caso di François e Vera Molnar che provengono dal gruppo Motus, poi GRAV, cioè Groupe de Recherche d’Art Visuel. E poi, provenendo dal Gruppo N di Padova, c’è il caso di Manfredo Massironi. Come si vede il ruolo dei gruppi e del lavoro comunitario che si svolgeva in essi, è rilevante nel quadro di una transizione dalla pratica soggettivista dell’artista alla pratica di una ricerca di saperi oggettivi o per lo meno condivisi. Massironi imboccherà con decisione la via istituzionale della scienza diventando un percettologo e uno psicologo cognitivista universitario accademicamente accreditato.

Ma, soprattutto interessante per il tema di questo nostro convegno (che riguarda gli intrecci Italia – Germania), è il caso di Anceschi e Boriani, che realizzano nel quadro della terza edizione delle Nuove Tendenze, un lavoro dal titolo significativo: Ambiente per un test di estetica sperimentale. (11) (12) (13)

Fig. 11
Fig. 11
Fig. 12
Fig. 12
Fig. 13
Fig. 13

Indubbiamente è una ricerca che ha come sfondo le riflessioni di due studiosi fondatori dell’estetica informazionale come Max Bense, docente a Ulm, e Abraham A. Moles, poi erede della cattedra di Bense a Ulm. Per quanto riguarda poi l’aspetto di ricerca sperimentale, va aggiunto anche Dolf Zillman, anch’egli docente a Ulm, e specializzato invece in teoria della propaganda.

L’idea è quella di una misurazione del valore estetico, inteso come originalità o informazione estetica, realizzata dentro il concreto presente percettivo di un ambiente cinetico. L’intuizione più brillante di questa congettura scientifica è quella di considerare il tempo di permanenza dello spettatore nell’ambiente come indicatore del suo gradimento. Si noti bene: se François e Vera Molnar e Manfredo Massironi hanno sviluppato una ricerca di percettologia e di estetica della percezione, Anceschi e Boriani si muovono in una prospettiva che potremmo chiamare oggi di Estetica della preferenza. Si sviluppa, insomma, un’indagine proairetica, come la definirà poi Dorfles, ma la nostra sarà una proairetica sperimentale imparentata, attraverso appunto Dolf Zillman, con alcuni aspetti e tecniche di misurazione propri della teoria della propaganda: Teoria semantica degli aspetti1, in concorrenza con il differenziale semantico di Osgood, Suci, Tannenbaum2.

[A questo punto devo aprire una parentesi e fare un’osservazione di metodo. Già poco più sopra mi sono definito come una figura di mezzo, un ibrido: artista, designer, ma anche saggista e didatta/pedagogo, ecc. Ne consegue che, in questa mia esposizione, difficilmente potrò sviluppare un percorso lineare monodisciplinare, e teleologicamente ben strutturato. Sarò continuamente costretto ad andare avanti e indietro nel tempo e trasversalmente nei vari confini disciplinari. Magari, spiegando il passato a partire da concettualizzazioni nate nel presente, o, viceversa, spiegando il presente con le sue origini radicate nel passato.]

Riprendiamo dunque il filo:

A Ulm – comunque – malgrado i critici e gli oppositori – c’è, in effetti, in tutto questo ambito, una poderosa linea di continuità con il Bauhaus: la questione e l’attenzione per le pratiche pedagogiche. E questo, complessivamente, ma soprattutto in coerenza con un modello concettuale pedagogico radicalmente propedeutico.

Designpädagogik

Il Grundkurs si chiamerà poi Grundlehre a Ulm. Ci sono i due ingredienti teorico/ideologici in contrapposizione dialettica: c’è la damnatio del Bauhaus e dell’arte, ma c’è anche la prosecuzione del baricentrico interesse per la questione pedagogica. In altre parole, al Bauhaus il Grundkurs era il luogo concreto, ma anche concettuale, dove sbarcavano tutti gli studenti del primo anno, che poi, alla sua conclusione, si sarebbero suddivisi nei vari Atelier (Ceramica, Scultura, Arredamento, Tessitura, Grafica). A Ulm questo ambito disciplinare si chiama Grundlehre a significare che si tratta di un fascio di attività didattiche, che comprende le esercitazioni fondative, ma anche un insieme di propedeutiche tecniche e strumentali (disegno, tipografia, fotografia o Metallwerkstatt, Gips, ecc).

Ma a raffigurare il peso davvero notevole attribuito a Ulm al momento propedeutico c’è un famoso schemino (14) che rappresenta i quattro anni del corso di studi. Non mi è riuscito, preparando questo intervento, di trovare una versione ufficiale dello schema, per cui ho dovuto ricorrere a un piccolo disegno trovato fra i miei appunti.

Fig. 14
Fig. 14

Mentre l’Abteilungsarbeit cresce, la Grundlehre e l’insieme delle discipline fondative decrescono, proseguendo negli anni, ma restano anche nell’ultimo anno, quello della stesura della tesi. Il Basic Design è davvero centrale presso l’HfG.

A proposito: va data un’altra indicazione di metodo. Io uso e userò abbastanza indifferentemente le espressioni tedesche (Grunkdurs e Grundlehre) e questa espressione «Basic Design», che è stata coniata ai tempi in cui molta parte della comunità dei designer tedeschi era emigrata negli Stati Uniti. È al Bauhaus di Chicago che il Grundkurs ha assunto il nome di Basic Design.

La sostanza di questo ambito della education disciplinare, e cioè il Basic Design, rappresenta l’essenza o meglio il cuore della disciplina: promette, infatti, di insegnare quello che nessun’altra istituzione dell’insegnamento è in grado di promettere. Dice cioè al discente: «Se tu seguirai il programma di esercitazioni del Basic Design, imparerai a fare quello che deve saper fare il designer: cioè a dar forma, o meglio, a configurare, oggetti e comunicati, artefatti d’uso e artefatti comunicativi».

In tedesco – fortunati voi – avete quella parola fondamentale che è il termine Gestaltung, che ormai in italiano traduciamo con ‹configurazione›. Per lungo tempo si è pensato che Gestaltung fosse intraducibile in italiano, ma più di recente ‹configurazione› si è imposto, in quanto designa un’operazione, un’attività, un processo. Non si tratta di Gestalt, ma di Gestaltung, non si tratta di forma, ma appunto di configurazione. E la parola ‹configurazione› si è soprattutto imposta anche sul troppo generico ‹progettazione›. Progettano anche gli ingegneri e i tecnologi, non solo i designer, i grafici e gli architetti. Sono i designer ecc. che fanno qualcosa in più, appunto configurano. Si occupano, cioè, di quel sottoinsieme del progetto che elabora anche aspetti qualitativi (e persino estetici).

Il Basic Design intreccia propedeutica (l’insegnare a fare) e fondazione disciplinare (la comprensione delle articolazioni teoriche e concettuali implicate). In altre parole, il programma di esercitazioni, che il Basic Design mette insieme, rappresenta anche la scomposizione, o meglio, l’articolazione dell’attività progettuale nei suoi segmenti essenziali. Nel Basic Design, insomma, è la didattica (e lo stesso training del saper fare) che veicola e contemporaneamente genera il corpus delle conoscenze. E, parallelamente, il corpus delle conoscenze si distilla nelle esercitazioni. Le esercitazioni sono letteralmente paradigmatiche, esemplari. Sono esempi semplificati, cioè consapevolmente ridotti, delle situazioni effettive di progetto. E sono scelte, quelle e non altre, proprio perché sono rappresentative di punti chiave del processo complessivo. In altre parole, si prende l’intero processo di design, se ne isola un segmento che si concentra su un determinato aspetto o questione, lo si riduce all’essenziale e lo si trasforma in una esercitazione.

Grundkurs / Grundlehre / Basic Design

È venuto, insomma, il momento di ripercorrere e ricapitolare brevemente questo percorso di una propedeutica intrecciata alla fondazione disciplinare: È utile fare riferimento a coloro che sono stati i primi fondatori dentro al Bauhaus, che è stata la prima scuola. Il direttore del Bauhaus a Weimar alla fine degli anni Dieci, era Walter Gropius e possiamo immaginarci come siano andate le cose: Gropius ha l’idea di un Grundkurs preliminare, ma si domanda chi vi può insegnare. Chi è che sulla scena attuale sta compiendo un lavoro fondativo? E gli si presentano due figure, due giovani artisti che si chiamano nientemeno che Wassily Kandinsky e Paul Klee. E, infatti, entrambi si impegnano seriamente nell’assolvimento di questo compito ad un tempo pedagogico, ma soprattutto fondativo. Entrambi pubblicano un libro nella collana dei Bauhausbücher.

Bauhaus: Wassily Kandinsky

Kandinsky scrive Punkt Linie zur Fläche. (15)

Fig. 15
Fig. 15

Dove compaiono il punto e la linea e poi una versione a colori del passaggio alla superficie (16).

Fig. 16
Fig. 16

Fra l’altro questo straordinario lavoro è precedente al periodo Bauhaus e dimostra la formidabile inclinazione per la dimensione basico/fondativa di Kandinsky.

Bauhaus: Paul Klee

E poi abbiamo Klee, che pubblica anche lui un Bauhausbuch dal titolo molto esplicito: Pädagogisches Skizzenbuch, che sottolinea quindi il secondo versante costitutivo del Basic Design e cioè – accanto alla fondazione – la pedagogia. La cosa assolutamente unica e straordinaria che ci succede quando perseguiamo questi sviluppi iniziali è che, soprattutto in Klee, assistiamo, per così dire «in diretta», allo sforzo del trasformarsi di una poetica artistica individuale, autoriale, in un insieme di saperi che tendono ad oggettivarsi. All’epoca, gli artisti del Bauhaus accarezzavano la speranza – diciamo così – positiva di pervenire a risultati compiutamente oggettivi. Siamo noi che siamo diventati più prudenti e parliamo di oggettivazione. Comunque, non sono saperi esclusivi, non sono i segreti del mestiere dell’artista. Sono saperi che si propongono di essere accettati e condivisi da altri.

Queste è la copertina (17) e una pagina (18) dello Skizzenbuch.

Fig. 17
Fig. 17
Fig. 18
Fig. 18

Bauhaus: Johannes Itten

Ai due fondatori ne va accostato un terzo: Johannes Itten. Questo (19) è un esempio molto significativo delle proposte pedagogiche di Itten.

Fig. 19
Fig. 19

Il pensiero di Itten, come quello di altri artisti del momento, era stato molto influenzato dall’irrompere delle informazioni sulle culture orientali e esotiche con i loro risvolti esoterici. Era, come Kandinsky, un frequentatore delle sedute mistiche della Medium Helena Petrovna Blawatski, ed era influenzato da Rudolf Steiner. Itten si occupa, dunque, di quel momento preliminare che precede l’attività, come avviene nelle pratiche che precedono l’azione della pittura orientale: lasciare scorrere i pensieri, sciogliere le tensioni del corpo, assumere una corretta postura, e respirazione. Nel Sumi-e, prima di realizzare in una fulminea, spontanea e precisissima sequenza di colpi di pennello l’immagine di un uccellino appollaiato su una canna di bambù, il pittore giapponese teneva per molti giorni la mano destra in riposo, teneva insomma il braccio al collo.

Fig. 20
Fig. 20

Questa, che porta il titolo Scioltezza gestuale (20), è infatti un’esercitazione proposta nei corsi introdotti da Itten. Si tratta del lavoro di un giovane studente italiano a Ulm – sì, sono io – e ha un certo significato mostrarlo, in quanto documenta il fatto che io ho avuto una straordinaria fortuna: ho avuto queste pratiche esercitative da Herbert Lindniger, che era stato allievo diretto di Itten. Diciamo che le ho avute quasi direttamente dopo due soli passaggi di mano. Ci muoviamo, qui, in un ambito ancora intermedio fra arte e design. Non si tratta ancora dell’emulazione semplificata del processo progettuale. E, quest’ultima, (21) a testimonianza degli interessi di Itten per il colore e per i suoi valori simbolici, è l’esercitazione intitolata Il nero come colore.

Fig. 21
Fig. 21

E consiste – e qui siamo invece in una situazione più prossima alla concretezza del design – in una sorta di brief di progetto. La formulazione dice all’incirca: «Tu hai a disposizione 5 tessere quadrate nere, da disporre su una scacchiera di 5 × 5 tessere. Disponi le tessere nere come vuoi e riempi di colori le 20 restanti. Ma devi fare in modo, scegliendo la posizione di tutte le tessere e il cromatismo delle 20 restanti, che le nere non siano percepite come corpi estranei, come buchi, ma che siano colore fra i colori.».

Bauhaus / New Bauhaus: Lazlo Moholy-Nagy

In questa storia sommaria del Basic Design trova posto anche Laszlo Moholy-Nagy (chiedo di nuovo scusa per questo mio fare una sorta piccolo «ripasso»; ma è necessario, perché queste figure sono coloro che hanno saputo avviare il processo). Peraltro, qui non siamo più dentro al Bauhaus, ma al New Bauhaus fondato a Chicago proprio da Moholy-Nagy. E qui si lavora con la molteplicità dei registri sensoriali.

Fig. 22
Fig. 22

Questo esempio (22) è molto importante dal punto di vista tematico perché è un’elaborazione della multisensorialità: questo risultato doveva essere valutato al buio, o con gli occhi bendati. Sono, cioè, artefatti aptici. Si tratta di design della tattilità. E così il ventaglio delle possibilità si apre ulteriormente. E questa (23), invece, è un’esercitazione che io mostro perché Moholy-Nagy aveva anche introdotto un interesse nuovo, quello per le tecniche e tecnologie avanzate: come noi usiamo il computer, qui ci si serve del medium filmico.

Fig. 23
Fig. 23

HfG Ulm: Max Bill, Tomás Maldonado

Ecco, avendo richiamato e raccolto queste informazioni di fondo e avendo queste conoscenze e questi strumenti in mano, possiamo passare ad occuparci di Ulm. E a Ulm, con Maldonado, si ha una svolta pedagogica radicale. Abbiamo visto la trasformazione affacciarsi con Itten. Per Itten, dopo quella prima fase dedicata ai preliminari somatici, alla scioltezza del gesto, ecc., si perviene – col colore – alla esplicita formulazione di quello che, in pratica, è un’emulazione del brief di progetto, che prescrive allo studente di raggiungere un obiettivo, o meglio un effetto preciso. Questa è la prima svolta: si abbandona una pedagogia che potremmo definire artistoide, o che comunque è sostanzialmente in comune con quella praticata nelle scuole d’arte e nelle accademie di belle arti. Si abbandona, cioè, la pratica in cui arriva il Maestro/Professore che dice: «Questo è il tema. Voi provate e liberamente sperimentate». E la si sostituisce con un’altra pratica, cioè con la richiesta di ottenere un goal determinato.

Un cambiamento davvero radicale: questo (24) è un esempio del Basic Design di Max Bill.

Fig. 24
Fig. 24

Lo studente è Almir Mavignier, che diventerà poi, più che un designer, un artista molto importante dell’Optical Art. E questo (25) è, invece, Tomás Maldonado, con in mano un modellino di Basic Design tridimensionale.

Fig. 25
Fig. 25

La sua svolta pedagogica si articola in due punti. Al Bauhaus il Basic Design era una disciplina unitaria che corrispondeva all’unico Grundkurs iniziale, mentre a Ulm ci sono le diverse Abteilungen, cioè i diversi corsi di studio: Visuelle Kommunikation, Produkt Gestaltung, Industrialisiertes Bauen, e in una prima fase anche Information. Ci sono dunque diverse discipline e, allora, con Maldonado, viene proposto di sviluppare dei corsi di base differenziati: uno strutturista per Architettura, uno plastico per Prodotto, e uno grafico-percettivo per Comunicazione.

Fig. 26
Fig. 26

Questa immagine (26) potrebbe sembrare decisamente bauhausiana, ma invece è stata prodotta per il Basic Design di Industrialisiertes Bauen a Ulm.

Ma basta analizzare questi pochi esempi per notare che anche qualcos’altro è radicalmente cambiato. Nelle formulazioni e nelle costruzioni si ha una profonda variazione dell’impostazione teorica e metodologica: l’introduzione di terminologie e di saperi scientifici rigorosi (topologia, simmetria, percettologia, ecc.). Questi risultati, di Produkt Gestaltung, (27) ad esempio, si collocano nel discorso topologico.

Fig. 27
Fig. 27

Prendiamo queste due specie di colonne rastremate. A un estremo, in basso, la sezione è un triangolo arrotondato convesso, mentre in alto la sezione è un triangolo arrotondato concavo. Quello che viene richiesto è di interpolare in sequenza le sezioni, in modo che ci sia una transizione continua. Ai nostri giorni, nei programmi di disegno dei computer è inclusa una funzione che genera frames intermedi o transizionali fra due keyframes dati, e che si chiama inbetweening. Ma, mentre la ragione informatica darebbe per assodato che la forma della transizione è una (quella, in termini logici più semplice), qui nel contesto del design ci si offrono due colonne, due transizioni. Si ha, cioè, l’opportunità di scegliere la soluzione (formalmente, esteticamente?) più accettabile.

Questa è invece una esercitazione di Tomás Maldonado. Nota bene: nel Basic Design le esercitazioni non sono anonime, sono significativamente firmate. Questa di Maldonado ha un titolo bellissimo: Antiprimadonna.

La cosa divertente è che, se al mondo c’è un uomo che merita l’attributo di «primadonna», questo è proprio Maldonado: una personalità marcante, un protagonista nato. È perfino alto due metri!

L’Antiprimadonna è davvero paradigmatica per il Basic Design, che è un pezzo della disciplina del design, il cui corpus non è rappresentato, come nelle discipline scientifiche classiche, da una robusta componente verbale e testuale, ma consiste sostanzialmente proprio nella collezione od antologia delle esercitazioni. Anche le formulazioni diventeranno ad un certo punto rilevanti, ma la vera sostanza sono i risultati, che compaiono sulle tavole prodotte dagli allievi. Per capire fino in fondo è necessario avere il testo preciso della formulazione, l’autentico brief. E questa è la formulazione proposta agli allievi del Corso di Basic Design dell’IUAV di Venezia.

«Antiprimadonna di Tomás Maldonado

Su un foglio formato A3 posizionare nel centro ottico una fascia orizzontale di cm 35 × 10
e suddividerla in 7 bande verticali di larghezza variabile; a cinque di esse attribuire un diverso colore (tinta piatta), e alle due restanti una diversa trama in bianco e nero. Per la definizione delle bande colorate sono ammessi tutti i colori; per quelle in bianco e nero tutte le trame (purché ad andamento isometrico); per entrambi i tipi sono ammesse tutte le larghezze. L’obiettivo dell’esercitazione consiste nel far sì che nessuna delle sette bande, e in generale nessuna parte della configurazione, giuochi il ruolo di primadonna. Tecnica: collage di carte colorate e retini.»

Non solo nessuna banda in quanto tale, ma anche nessun accostamento o, comunque, nessuna parte della figura deve emergere, nessuna deve attirare su di sé l’attenzione. In un certo senso, uno dei compiti generali del design è quello di creare gerarchie (ad es. titolo e testo). Questa esercitazione si può dire che alleni a escludere una gerarchizzazione degli elementi. La prospettiva pedagogica è: se so impedire il formarsi di gerarchie formali, figuriamoci se non saprò instaurarle e favorirle quando servono.

Fig. 28
Fig. 28

Anche in questo caso (28) ho presentato – e mi scuso – il risultato prodotto nel corso di Basic Design di Maldonado in persona, da un giovane allievo italiano, cioè me stesso, ma l’ho fatto per poter fermamente giudicare questo risultato. Il giovane Anceschi, infatti, non ha prodotto un grande risultato. Osservando la striscia si vede che non ha risolto l’esercitazione. E se c’è, dov’è dunque la primadonna? La primadonna è il confine fra la banda nera e quella a piccoli rombi diagonali. Vibra in modo irritativo e attrae brutalmente l’attenzione di chi guarda.

Fig. 29
Fig. 29

Queste (29) sono invece due soluzioni realizzate presso i miei corsi di Basic design a Venezia, e pubblicate sulla copertina del numero della rivista «il verri», dedicato al New Basic Design3. Come si vede, sono molto colorate e contrastate. In entrambi i casi lo studente ha scelto una via di attacco coraggiosa, rischiosa: forti contrasti che si è stati in grado di forzare dentro a un sostanziale equilibrio.

Bauhaus / Black Mountain / Yale / Ulm: Josef Albers

Se l’intervento di Maldonado ha rappresentato una svolta didattico-concettuale, Albers – nel corso della sua lunga carriera che comincia come studente al Bauhaus, ma poi subito come docente del Grundkurs, e poi, emigrato negli Stati Uniti, prima docente al Black Mountain College, poi all’università di Yale, e come visiting professor a Ulm – è il protagonista di un’evoluzione radicale dell’impostazione epistemologico-pedagogica. Se nel caso di Klee e Kandinsky avevamo assistito in tempo reale al trasformarsi di una poetica artistica soggettiva in un tentativo di disciplina oggettiva, con Albers, la prospettiva si evolve e sul piano conoscitivo, cioè epistemologico, si assiste al presentarsi della dialettica attuale/fattuale.

Fig. 30
Fig. 30

[Colgo qui l’occasione (30) per mostrare insieme ad Albers, sul grande terrazzo dell’HfG, un’altra fondamentale protagonista: Inge Scholl, l’ultima dei fratelli Scholl, giovani martiri della Resistenza, decapitati dai nazisti perché attivisti del movimento «Die weiße Rose». Inge Scholl era la più piccola dei fratelli Scholl e si salvò, e nel dopoguerra fu fra i promotori dell’HfG.]

Questi (31) sono lavori strutturisti del Grundkurs di Albers al Bauhaus (dai quali deriveranno le ricerche che abbiamo viste per il Basic Design di Industrialisiertes Bauen).

Fig. 31
Fig. 31

Sia come artista in questo progetto che lo impegnerà tutta la vita e che si intitolerà Omaggio al quadrato, sia come pedagogo del design, Albers si concentrerà sulla questione del colore. Pubblicherà a Yale Interaction of color, che raccoglie la riproduzione in serigrafia in scala1:1 dei brillantissimi lavori degli studenti e include due quaderni, uno con tutte le formulazioni delle esercitazioni, e uno con l’elaborazione – a posteriori – teorica e scientifica dei fenomeni cromatici.

Fig. 32
Fig. 32

E qui (32) mi dovete credere: i due quadrati marroni che noi vediamo, il superiore marrone scuro e l’inferiore terra di Siena, sono del medesimo colore fisico, cioè fattuale come dice Albers: un solo colore fisico che diventa due diversi colori percepiti, cioè attuali.

Qui veniamo confrontati con un questione filosofica, cioè epistemologica fondamentale, in generale, ma soprattutto per le prospettive di chi opera come Gestalter. E cioè la constatazione della differenza fra ciò che è (fattuale) e ciò che appare (attuale). E si noti bene che Albers si rifiuta di parlare di realtà e illusione, ma parla di due condizioni che sono entrambe reali: realtà fattuale e realtà attuale (33).

Fig. 33
Fig. 33

Ma a chi spetta giudicare se l’effetto attuale richiesto nel brief sia stato raggiunto o no? Invece di riferirsi a una realtà supposta come oggettiva, Albers introduce l’idea di una verità intersoggettiva, cioè il giudizio espresso dalla comunità di senso più ampia, rappresentata dalla classe dei partecipanti al corso. Un giudizio, dunque, intersoggettivo, se non addirittura dialogico: sembra che Albers sia pervenuto a considerazioni prossime a quelle di Edmund Husserl o di Martin Buber.

Il caso italiano

Avevamo promesso all’inizio di occuparci delle relazioni e delle influenze fra un fenomeno culturale italiano, come il Gruppo T, di arte cinetica e programmata e la Hochschule für Gestaltung di Ulm. In Italia, praticamente non ci sono Scuole di design. E, quindi, tantomeno una tradizione del Basic Design. In Italia il sistema scolastico e universitario ha cominciato ad accogliere il Design solo alla fine degli anni 90 del secolo scorso. Vi sono, in precedenza, alcuni esempi e tentativi nobilissimi nel contesto della Scuola d’Arte di Monza e degli ISIA, dove spicca una figura che si riferisce esplicitamente ai corsi fondamentali del Bauhaus e di Ulm: ma il suo Basic design è la testimonianza dello sforzo di far diventare il Basic Design un documento disciplinare testuale fortemente concettualizzato. La Teoria del campo4non si pone nel solco della tradizione sostanzialmente non verbale di questa disciplina. Non c’è il Basic Design in azione.

Ma la domanda diventa allora: che cosa c’è in Italia al posto del Basic Design?

Sulla scena italiana ci sono i cosiddetti Maestri del Design (Castiglioni/ Zanuso/ Magistretti/Albini, ecc,), ma ciascuno aveva le sue fonti e nessuno ha fatto Basic Design e nessuno se n’è occupato.

In Italia che cosa prende il posto di una disciplina delle fondazioni per coloro che fanno design? Insomma chi fa supplenza di Basic Design? La risposta, in realtà, è facile: ad esercitare questo ruolo teorico/pedagogico sarà quella figura versatile di artista, designer, ecc., che è Bruno Munari (a cui si assocerà più tardi il movimento dell’arte cinetica e programmata).

Fig. 34
Fig. 34

Questa (34) è un opera che si intitola Aconà Biconbì (A-mit-a Be-mit-be). L’elemento base è un disco in cartoncino. Allo spettatore viene fornita una busta che contiene un certo numero di dischi. Tre piegature, fustellate secondo il triangolo inscritto, determinano tre alette, che associate alle alette di altri dischi, generano una struttura tridimensionale.

Forse oggi non più, in quanto i corsi di laurea in Design ormai ci sono, e in quanto si è ormai diffusa anche in Italia la nozione di Basic Design, ma se si domandava ai designer Italiani delle passate generazioni dove si sono formati, tutti, o quasi tutti, avrebbero risposto un solo nome: Munari. È Munari il supplente italiano del Basic design. In quanto Munari possedeva un’altra competenza cruciale: era un pubblicista e uno straordinario divulgatore, che ha tenuto rubriche sui periodici e pubblicato un certo numero di libri, ad esempio Arte come Mestiere, Design e comunicazione visiva, Il codice ovvio, Da cosa nasce cosa5.

Fig. 35
Fig. 35

Ma i più basic fra i contributi al Basic Design di Bruno Munari sono invece questi (35). Straordinariamente fondativi sono: La scoperta del cerchio, La scoperta del quadrato, La scoperta del triangolo6. Questa (36) è una doppia pagina de La scoperta del cerchio, che ci dà l’idea di fondazione disciplinare secondo Munari, e cioè la raccolta di una molteplicità di casi e di circostanze riconducibili alla semplificazione della forma geometrica elementare: in questo caso il cerchio. La seconda (37) è una pagina singola de La scoperta del quadrato. Si tratta di una meravigliosa macchina inutile, nella quale l’effetto artistico è rappresentato dai volumi virtuali cilindrici generati dalla rotazione, mentre il contributo di design è rappresentato, invece, dalla modularità dei listelli di alluminio tutti ricavati da un’unica lastra.

Fig. 36
Fig. 36
Fig. 37
Fig. 37

Infine, (38) una doppia pagina de La scoperta del triangolo, dove viene mostrato già un frattale, in un epoca dove le ricerche di Mandelbrot non erano affatto conosciute. Dunque, Munari era attentissimo alle prospettive e alle possibilità offerte dal futuro.

Fig. 38
Fig. 38

Qui invece ci troviamo in un’altra circostanza dove si manifesta l’influenza della cultura tedesca sulla produzione artistica italiana, e precisamente un caso in cui i saperi in circolazione ad Ulm sono stati rielaborati dai protagonisti dell’arte cinetica e programmata: sulla copertina della rivista «ulm» n.7 del giugno 1963, compare un lavoro di Walter Zeischegg (39).

Fig. 39
Fig. 39

Zeischegg sviluppa programmi molto sofisticati di ricerca morfologica, che sono la versione individuale del Basic Design. Un Basic Design – in altre parole – non sviluppato come prodotto collaterale del lavoro pedagogico. Il modello porta il titolo: Konosphäre, cioè sfera fatta di coni. Infatti, la serie di lavori di cui fa parte la Konosphäre parte dal presupposto di realizzare modelli geometrici tridimensionali tutti ricavati da molteplici interventi conici di tornitura a partire da un massello di metallo.

Fig. 40
Fig. 40

Questa (40) è, invece, un’opera di Munari e si intitola Tetracono, (cioè «quattro coni») 1965, e non ci sarebbe bisogno della mia testimonianza per dire che questo risultato italiano è legato a una ricerca nata nella scuola tedesca. Io, però, la mia testimonianza la posso aggiungere: sono io che ho portato la rivista a Munari. Del resto Munari ha pubblicato la Konosphäre, su La scoperta del cerchio, nel 1964. Anche il più rigoroso degli storici o dei filologi dell’arte dovrebbe ammettere che la cosa è effettivamente avvenuta. Il Tetracono è un’opera molto interessante, alla quale Munari ha conferito il carattere dell’interattività. I quattro coni, dipinti di rosso e di verde, sono imperniati per la base dentro alla cornice, e possono ruotare al tocco dello spettatore/interattore. Ma la storia non finisce qui. All’Istituto Svizzero di Milano, il 6 marzo 2015, si è inaugurata una mostra intitolata arte ri-programmata un manifesto aperto/re-programmed art an open manifesto 7 (41).

Fig. 41
Fig. 41

Un’operazione nella quale le opere degli artisti del gruppo T sono state affidate ciascuna a un giovane artista dell’attualità internazionale che ne sviluppasse la tematica. A dire il vero, il progetto, realizzato da Davide Fornari, Azalea Seratoni e Serena Cangiano,  nel quadro dell’Università SUPSI di Lugano, è stato concepito in due fasi: l’affidamento agli artisti attuali è stato preceduto dalla richiesta fatta ai membri del gruppo T di individuare un’opera concepita negli anni canonici, che però allo stato della tecnologia di allora non si era potuta realizzare, e di realizzarla ora nel quadro tecnologico attuale dei laboratori dei Maker, attrezzati con stampanti laser e caratterizzati dall’impiego di Arduino e Processing. Tutti i membri hanno aderito volentieri all’operazione del passaggio del testimone della programmazione agli operatori artistici attuali, ma l’unico dei membri del gruppo T che ha risposto all’appello del re-enacting è stato Giovanni Anceschi.

Il caso di Anceschi è stato quello di indicare un’opera intitolata Esacono (cioè «sei coni»). L’esistenza di questo progetto è documentata dal fatto che sul n. 22 dell’ottobre 1966 della rivista «il verri» dedicato all’arte programmata, compare un testo che descrive un’opera intitolata Strutturazione cilindrica virtuale (42).

Fig. 42
Fig. 42

La descrizione scientifica delle opere è, peraltro, un rilevante contributo teorico del gruppo T alla letteratura artistica. La cosa, per noi, qui rilevante è che in tutto il testo compare ovviamente svariate volte l’espressione Strutturazione cilindrica virtuale, ma in un certo punto compare invece il titolo Esacono. Questo errore di stampa è il documento che colloca temporalmente, con precisione, il titolo. Il progetto consisteva in una piccola scatola cubica centrale che contiene sei piccoli motori il cui perno, che spunta al centro di ciascuna faccia del cubo, regge due bacchette bianco-nere inclinate. In sostanza, si producono sei tronchi di cono virtuali generati dalla rotazione veloce, convergenti verso il centro. Il progetto di re-enactement, realizzato poi concretamente da Fornari e Cangiano (43), ha conferito esistenza ad un’opera che altrimenti non sarebbe esistita.

Fig. 43
Fig. 43

Ci sono altri casi di somiglianza fra i risultati del Basic design e le opere del gruppo T? Una esercitazione di Maldonado che si intitola Concavo, convesso, ambiguo e piano (44), lavora intorno alla produzione di spazialità illusorie attraverso l’impiego di raster non isometrici, ma singenometrici, cioè ad andamento in progressione scalare.

Fig. 44
Fig. 44
Fig. 45
Fig. 45

Essa possiede una innegabile parentela formale con l’opera Strutturazione tricroma (45) di Giovanni Anceschi, la quale, essendo basata sul principio della mescolanza additiva della luce colorata ed essendo cinetica, lavora invece intorno ad effetti di condensazione e diluizione temporale.

Verrebbe da osservare che il ritardo di quello che abbiamo voluto definire il Basic design italiano, rappresenta in qualche modo una sorta di vantaggio, nel senso che favorisce l’adattabilità di questi che noi intendiamo come fondamenti generativi. In altre parole, qui ‹fondamenti› ha un significato simile a quello di quando si dice ‹fondamenti di matematica›, ma non identico. Sono fondamenti non definitivi e stabili, ma che si devono adattare alle circostanze culturali, sociali e soprattutto tecnologiche che si presentano via via. Spostandosi avanti nel tempo, essi devono cambiare il proprio orizzonte. In un mondo come il nostro, tutto intriso di dinamismo, interazione e spazialità abitata, il Basic Design deve includere fondamenti e temi morfologici adeguati: di natura cinetico-programmata e, in generale, che si dispieghino in una dimensione anche temporale, oltre che spaziale, e che siano caratterizzati, inoltre, da un approccio progettuale di tipo registico, necessario per gestire realtà comunicative poliglotte, multimediali e multimodali. In questo senso il ritardo è forse un vantaggio, e cioè per il fatto che la ricerca del gruppo T contiene già questi caratteri metamorfici, che sono attuali oggi. Il lavoro di Colombo, Interattività (46), contiene aspetti se pure molto elementari di interattività.

Fig. 46
Fig. 46

Il GOP (47), e in generale gli l’ambienti, ad esempio, l’Ambiente a shock luminosi di Anceschi (48), potrebbero funzionare come un Basic Design immersivo e interattivo.

Fig. 47
Fig. 47
Fig. 48
Fig. 48

[Un’ultima osservazione metodologica: questo mio contributo ha dovuto espandersi oltremisura perché la maggior parte delle tematiche e delle nozioni impiegate non sono di impiego comune. Ogni elemento terminologico ha dovuto essere esplicitato, spiegato e giustificato. Ad esempio, l’impiego del termine ‹programmato›, in arte, possiede tutta una sua storia teorica. Nell’Almanacco Bompiani Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze umane e alla letteratura, curato da Umberto Eco nel 1962 (49), nel testo compare l’espressione «Grafiche programmate» a designare i contributi del Gruppo T (50), ma è nell’indice che compare per la prima volta l’espressione «Arte programmata». Ma anche qui ci troviamo probabilmente di fronte a un caso di influenza della cultura tedesca, in quanto nel 1960 Max Bense aveva scritto un libro intitolato Programmierung des Schönen.8]

Fig. 49
Fig. 49
Fig. 50
Fig. 50

Insomma, venendo avanti verso la nostra attualità, dopo un periodo di oblio causato dal breve dilagare dell’ideologia postmoderna che si basava su una sorta di enfatizzazione del Talento individuale a scapito della possibilità di saperi condivisi, si sta verificando un ritorno di interesse per la elementarità e la programmazione (vedi tutta l’attività di John Maeda presso l’MIT, e il linguaggio di programmazione Processing del suo allievo Red Burns che potrebbe essere considerato l’attrezzo informatico per il Basic Design). Ma, anche in Italia, nel periodo in cui io divento direttore del Dottorato di ricerca in Scienze del Design a Venezia presso la Facoltà di Design e Arte, si è formato un centro di studi che si richiama a espressioni come New Basic Design (51), ma anche Hyper Basic Design (52).

Fig. 51
Fig. 51
Fig. 52
Fig. 52

Come sempre – lo diceva spesso Max Bense –, la teoria implicita nell’attività artistica dimostra di avere delle lunghe antenne e deve aspettare che le condizioni circostanti siano mature per diventare condivisa.

  1. Dolf Zillmann e altri, 1965, Test der Validität der semantischen Aspektanalyse, Ulm – Zürich, Abteilung Visuelle Kommunikation / Institut für Kommunikationsforschung.
  2. Charles E. Osgood, George J. Suci, Percy H. Tannenbaum, The measurement of meaning. Urbana, IL: University of Illinois Press, 1957; James G. Snider, and Charles E. Osgood, Semantic Differential Technique: A Sourcebook. Chicago, Aldine, 1969.
  3. «il verri», n. 43, giugno 2006.
  4. Attilio Marcolli, Teoria del campo 1 e 2, ed. Sansoni, Firenze 1971, 1978; A. Marcolli, L’Immagine – azione, in 3 volumi, ed. Sansoni, Firenze 1981, 1982, 1983.
  5. Bruno Munari, Arte come mestiere, Editori Laterza, Roma – Bari, 1966, B. Munari , Design e comunicazione visiva, Editori Laterza, Roma – Bari, 1968; B. Munari, Il codice ovvio, Einaudi, Torino, 1971; B. Munari , Da cosa nasce cosa, Editori Laterza, Roma – Bari, 1981.
  6. Bruno Munari, La scoperta del quadrato, Scheiwiller, Milano, 1960; B. Munari, La scoperta del cerchio, Scheiwiller, Milano, 1969; B. Munari, La scoperta del triangolo, Zanichelli, Bologna, 1976
  7. Serena Cangiano, Davide Fornari, Azalea Seratoni, Arte ri-programmata Un manifesto aperto, Johan & Levi, Milano, 2015.
  8. Max Bense, Aesthetica (IV). Programmierung des Schönen. Allgemeine Texttheorie und Textästhetik, Agis, Krefeld/Baden-Baden, 1960.