Dispersione

· Marco Granata ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-C2D0-2

Chiudo gli occhi e dal buio appaiono immagini di tronchi spezzati, di rocce ricoperte da muschi, di ciuffi d’erba tenera. Sulle coste toraciche batte un vento freddo che scen­de dalle cime dei monti lungo una valle scavata nella roccia e sa di terra e resina. Sto correndo, come se fossi inseguito, ma se mi volto indietro non vedo nessuno. Ansimo e sposto le fronde lungo un sentiero che mi sembra di aver percorso infinite volte, un reticolo antico e razionale di massi, foglie e altro materiale organico che da questo mo­mento, ne sono certo, non calpesterò mai più.

I giorni precedenti l’orale della maturità studiavo in camera dal mattino presto fino al tardo pomeriggio. Lo studio intensivo mi portava a considerare quello che mi stava attorno e che pensavo di conoscere da sempre secondo nuove categorie analitiche, come se persone, azioni e cose avessero le loro ascisse e le loro ordinate. Di solito, dopo aver cenato con mia madre e Dario, prendevo la macchina e andavo in un posto di cui avevo scoperto l’esistenza qualche giorno prima, tornando dalla festa di compleanno di un amico: stavo ripensando con intensità insolita ad alcuni particolari della serata appena trascorsa e ho imboccato l’uscita sbagliata di una rotonda. Pochi secondi più tardi mi sono trovato nel parcheggio del cimitero monumentale; i pochi lampioni illuminavano i due filari di cespugli di bosso che conducevano all’entrata, e dal cancel­lo chiuso, incastonato tra le mura grigie, si intravedevano alcune candele accese e le cripte familiari che si affacciavano sul vialetto interno. Sono sceso dalla macchina per fumarmi una sigaretta e mentre cercavo d’accenderla il mio sguardo si è posato su una scalinata che conduceva alla sommità di una collinetta alla sinistra del cimitero. Dal momento che non avevo alcuna voglia di tornare a casa ho iniziato a salire la scalinata semibuia. Lì sopra c’era un parco giochi – uno scivolo, due altalene e tre o quattro dondoli, ricoperti quasi interamente da scritte e piegati dal peso di generazioni di bam­bini, poi diventati adolescenti e infine uomini, mossi dalla medesima volontà anima­le di distruggere ciò che erano, quell’immagine così disturbante di se stessi felici e senza preoccupazioni. Un vialetto in pietra portava a una fontana: la sorgente era nel mezzo di una vasca circolare e sparava in aria pinnacoli cristallini che ricadendo sul getto ne limitavano per qualche attimo la gittata. Dopo essermi seduto su una panchina mi sono acceso la sigaretta. Sulla mia sinistra vedevo una piazzetta con al centro un tasso di quattro metri circondato da una cinquantina di tombe. Lasciavo che il fumo uscisse len­tamente fuori dai polmoni e osservavo i pinnacoli perdersi nell’aria tiepida, come se una parte di me che ancora non conoscevo salisse verso il cielo stellato. Ripensavo agli sguardi complici che io e Sara ci eravamo scambiati poco prima, eppure ogni tentativo di analizzare cosa ci fosse stato fra di noi e immaginare i possibili sviluppi era interrotto da pensieri indefiniti, stridenti, ben lontani dall’ansia per l’esame di maturità.

Da allora sono tornato al parco giochi molte volte, soprattutto di notte, sempre da solo; anche quando, dopo gli esami, ho ripreso a vedermi con Francesco e Simone. Sta­vamo fino alle due o alle tre al bar di Gino, in centro, e poi me ne andavo senza di loro al parco giochi. Una sera d’agosto, quando sia Francesco che Simone erano in vacanza, ci sono andato subito dopo cena. Avevo nelle orecchie le voci di Dario e di mia madre, che si erano sovrapposte e si erano schiantate contro le pareti per tutto il pomeriggio. Ho lasciato la macchina al parcheggio del cimitero. Ho sentito l’annuncio che in pochi minuti il cimitero avrebbe chiuso, e dai cancelli uscivano gruppi di uomini e donne, perlopiù anziani, che si dirigevano a passi lenti verso le macchine e verso la fermata de­gli autobus. Ho aspettato che la maggior parte delle persone se ne fosse andata. Fuggivo i loro sguardi come se potessero studiarmi e dirmi quello che ancora non ero pronto a sentirmi dire. Quindi ho raggiunto il parco giochi, che ho trovato deserto come le altre volte. Mi sono seduto sulla panchina e mi sono acceso una sigaretta. Il sole stava preci­pitando dietro le montagne, attaccandosi tramite le fibre luminose dei suoi ultimi raggi ad alberi centenari, prati e rocce disseminati sulla collina. L’aria era così trasparente che sono riuscito a vedere in lontananza le luci della statale che si accendevano sulle pendici della collina, la cui sagoma scura sembrava una voragine che si preparava a in­ghiottire la città. D’un tratto, su di essa, in quello che allora avrei potuto definire senza dubbio il punto più buio, si è accesa una luce. Sono rimasto immobile, come se quella luce fosse una minaccia reale, e la sigaretta si è consumata da sola, lasciando sulla pan­china un’architettura cilindrica di cenere che in pochi secondi è collassata su se stessa. Il punto luminoso che si era materializzato a chilometri di distanza da me si muoveva verso l’alto, deformandosi, scomparendo e riaccendendosi. Io fumavo una sigaretta do­po l’altra in silenzio, e allora, avendo intuito che si trattava di un escursionista munito di una frontale, immaginavo la sua luce deviata dai tronchi e dalle foglie lanceolate attra­versare l’aria estiva fino alla mia retina.

Mezz’ora più tardi, quando il sole si è spento ed è comparsa l’intera volta stellata, l’escursionista ha raggiunto la cima della collina e per un attimo è diventato una delle tante stelle che illuminavano il cielo, per poi sparire nell’altro versante. Mi sono vol­tato verso il cimitero e ho fissato per qualche minuto i rami più alti del tasso, forse cre­dendo che la luce sarebbe riapparsa e avrebbe incendiato l’albero.

Il giorno seguente sono partito di buon’ora e senza particolari difficoltà ho raggiunto il sentiero che percorreva l’escursionista. Appena lasciata la tangenziale si procede sulla statale fino a una strada secondaria, dalla quale diparte a sua volta una strada sterrata che porta a uno spiazzo di fronte a una faggeta. Il sentiero serpeggia nel bosco, segnala­to da colate di vernice blu su rocce metamorfiche. Mi sono inoltrato nella faggeta sen­za esitazioni. Non sapevo perché lo spettacolo della sera precedente mi avesse colpito a tal punto, tantomeno perché mi trovassi a seguire idealmente la traccia luminosa la­sciata dall’escursionista. Pochi metri dopo lo spiazzo il sentiero si dirama e io ho conti­nuato a camminare lungo la traccia più segnata, nonostante la vernice indicasse di proseguire nell’altra direzione. Dopo una decina di minuti di salita, sulla mia sinistra è comparso un faggio centenario che affondava le radici in una lettiera di terra scura e morbida. Mi sono seduto su un masso sul suo fianco e guardando a valle ho potuto scorgere la cappa di smog violacea che soffocava in silenzio la città.

Corro in un campo di granturco, lungo un corridoio tra le file regolari di piante verde brillante alte un paio di metri. Nel cielo le nuvole sono trascinate dal vento freddo che precede i temporali. Alcuni corvi volano in direzione opposta alla mia. Lungo il margine del campo un filare di pioppi, le cui foglie argentate tremano nell’aria gelida. Uno sparo di fucile. Il rimbombo nell’aria e le urla dei corvi. Corro più veloce. Ai limiti del campo coltivato supero un canale artificiale e mi ritrovo sul ciglio di una strada secondaria. L’asfalto è chiaro e consunto. Sul sedile passeggero di un pick-up un uomo di mezz’età con una camicia di flanella pulisce un fucile. Non mi vede.

«Mi ha detto che di notte dalla sua camera si vedono gli aerei volare bassissimo. Mi ha detto che guardare gli aerei che scompaiono nel buio siderale la fa sentire al sicuro». Tenevo gli occhi fissi sulle mie mani sudate che si intrecciavano sul tavolo, rendendo manifesto l’imbarazzo che provavo a nascondere.

«Ti giuro che non mi ero accorto di nulla alla festa», ha detto Francesco. Ho alzato lo sguardo. Simone aveva un’espressione che non gli avevo mai visto. I suoi occhi brilla­vano. «Neanche io», ha detto.

L’aria tiepida nel dehors del bar teneva in sospensione il fumo delle sigarette e i nostri discorsi. «Perché se mai un giorno trovasse il coraggio di andarsene» mi ha det­to, e intanto guardava la vetrina del ristorante, «e basterebbe seguire la traccia che lasciano gli aerei e i loro passeggeri, come i marinai seguivano le stelle». Un tuono in lontananza mi ha costretto a fissare nuovamente le mie mani. «C’è stato un momen­to. Voi fumavate in balcone. Pochi centimetri di contatto. I miei jeans con il suo vestito. Stavamo immobili. I nostri respiri sincronizzati. Basta».

Simone sorrideva, Francesco continuava a guardarmi negli occhi come avrebbe fatto un fratello maggiore. Notavo che entrambi si comportavano in modo strano, ed ero certo che avevano parlato di me, prima che arrivassi: immaginavo sotto la luce stanca di un lampione il viso asciutto di Francesco mentre guardava con aria grave Simone, che invece era più sereno e si limitava a muovere il capo in segno di assenso.

«Questa l’accendi tu, te la meriti», ha detto Simone strizzando l’occhio e passandomi la canna che aveva girato pochi minuti prima.

«Cazzo, Simo», ha detto Francesco, «per una volta che ha una storia con una e ce ne vuole parlare».

«Ho finito, non c’è altro», ho sorriso e l’ho accesa. Per quanto fossi allo stesso tempo indignato e grato per il loro atteggiamento, non riuscivo a fare a meno di pensare a Sa­ra. Volevo ancora raccontare loro dei suoi occhi umidi e comprensivi, dei capelli biondi che catturavano la luce di tutte le lampade della casa, delle sue gambe sottili, del suo modo di ridere, portandosi una mano davanti alla bocca per coprire l’apparecchio. Ma ormai ero al secondo tiro, e Simone e Francesco avevano iniziato a parlare di altro. Simone ha detto che doveva andare a casa di una ragazza che aveva conosciuto qualche sera prima in un locale. Pochi minuti dopo si è alzato; per salutarmi mi ha dato una pacca sulla spalla.

Appena l’abbiamo visto salire in macchina e allontanarsi lungo il corso, Francesco mi ha detto: «Scusalo. È solo contento per questa storia, lo sai». Si è acceso una sigaret­ta. «Comunque Fede dice che è veramente a posto. È fatta per te».

Ho osservato per un secondo le evoluzioni del fumo che Francesco espirava. «È assurdo, Fra. Ho iniziato a parlarle di tutti i miei cazzo di problemi. Le ho detto di mia madre, di Dario, di tutto. Mentre parlavo avevo paura di essere insopportabile. Ma lei mi ascoltava. Mi capiva. Quando mi ha detto quella cosa sugli aerei le ho detto che da casa mia non si vedono gli aerei o le stelle, ma solo le insegne dei negozi cinesi e i fanali delle macchine e le luci di Natale del balcone accanto che restano accese tutto l’anno. Lei sorrideva e mi sembrava sincera. Nei suoi occhi cercavo una scusa, un pretesto, la cosa più idiota a cui aggrapparmi». Stavo per dirgli che le avevo raccontato pure della collinetta dietro al cimitero, dell’ascensione dell’escursionista fino a diven­tare una stella. Ma lui non poteva saperlo. Non gliene avevo parlato.

«Come sta Dario?», mi ha chiesto.

«Ma che ne so», ho detto. «Bene, credo. A scuola va bene, lo sai. Con la ragazza pure. Litiga con mia madre tutto il giorno. Le solite cose». Ho guardato attraverso il vetro appannato e sporco del dehors le poche macchine parcheggiate nel corso. «Tra di noi si è rotto qualcosa. Nei suoi occhi vedo i pensieri di un estraneo. È diventato un nemico, come in fin dei conti sono tutti i maschi tra loro, no?». Francesco mi ha sorriso. «Fede­rica?», gli ho chiesto, cercando di cambiare argomento.

«Studia. Settimana prossima ha il test d’ingresso. Dopo passa a prendermi». Fran­cesco si è abbandonato sullo schienale della sedia. «Tu invece?», mi ha chiesto, serio.

Le foglie asimmetriche dei tigli ai lati del corso vibravano nell’aria; quelle che il temporale avrebbe risparmiato si sarebbero seccate a breve, sarebbero cadute per stra­da e sui marciapiedi, e sarebbero state calpestate e ridotte in polvere dagli studenti di ritorno dalle vacanze estive e dai passanti distratti.

«Non lo so. Cerco di non pensarci da troppo tempo. Una volta eravamo insieme, al­meno. Noi tre, alle quattro del mattino, per le strade, quando ci mancava il respiro. Ora sono solo. Tu a medicina, Simo a economia. Fede entra di sicuro a psicologia. C’è mia madre che mi parla di alcune facoltà. Di provare perlomeno. I soldi per l’università ci sono. Per l’università ci sono sempre. O di trovarmi un lavoro. Qualsiasi cosa. Ma so che non durerei da nessuna parte. Sono stanco. Ci sono momenti in cui mi convinco che l’unica cosa che vorrei fare è non fare assolutamente nulla, non fare nessuna scelta».

Se prima Francesco sembrava comprensivo, attento, ora i suoi occhi erano rivolti al piano del tavolo, la bocca serrata per evitare che ne uscisse qualcosa. Siamo rimasti in silenzio per un po’, io aspettavo una sua risposta e pregavo perché arrivasse; poi mi ha chiesto se mi andava di fare una partita a calcetto la settimana dopo, con dei suoi amici. Non potevo credere che la mia richiesta di aiuto era stata ignorata, soprattutto alla luce di quanto pensavo stesse accadendo intorno a me. Non riuscivo a staccare gli occhi dal tavolo e sentivo Francesco sospirare rumorosamente. Poco dopo Federica ha parcheggiato davanti al dehors, mi ha salutato con la mano esile dal finestrino. Francesco mi ha messo una mano sulla spalla, mi ha guardato negli occhi e ha detto: «Mi raccomando, dai». È salito in macchina e ha baciato Federica. Dopo aver salutato Gino, che stava dietro al bancone, sono andato alla macchina. Il parabrezza era in­crostato di polline. Le nuvole erano nere.

Mi muovo verso est. Le grandi arterie della città sono vuote. Nessuno mi vede. Passo in silenzio sotto i portici, vicino ai senzatetto che dormono sotto coperte di cartone, tra i binari di un tram che passerà almeno cinque ore più tardi, di fianco a manifesti elettorali ormai scoloriti e ricoperti di polvere. Attraverso la città in uno stato di confusione. Tre aerei di linea volano in silenzio tra le nuvole. Ogni tanto sento delle risate in lontananza. Ombre affusolate si allungano sui muri sporchi. Cerco tracce nel cemento, nell’acciaio, nel vetro.

Sono bastati pochi secondi per realizzare che ero solo. Il corpo dell’animale era diste­so nel centro esatto dell’incrocio, a pochi metri dalla macchina. I fanali anteriori illumi­navano il pelo scuro; le orecchie erano rivolte all’indietro e la coda, che allora mi sem­brò tremendamente corta, era orizzontale al corpo. Alcuni ciuffi più chiari sporgevano dal profilo nettamente definito dell’animale, e sembravano dettagli di un quadro fiammingo. Il muso, il ventre e le zampe erano nascosti dal cono d’ombra formato dalla porzione dorsale del corpo. Sono rimasto immobile per più di un minuto, cercando di capire cosa stesse succedendo, non tanto per la frenata, lo schianto e il volo avvenuti sotto i miei occhi, quanto per il corpo dell’animale, un cane, disteso di fronte alla macchina, probabilmente morto. Sono sceso brandendo la torcia che tenevo nel vano portaoggetti, convinto che mi sarebbe stata utile se l’animale avesse ripreso i sensi. Intorno a me non c’era nessuno. I tuoni scandivano il fruscio monotono delle scariche elettriche dei tralicci. L’asfalto era illuminato dalla luce artificiale dei lampioni a led ai lati della strada. Con la macchina ancora accesa alle mie spalle ho girato attorno all’animale, rimanendo a qualche metro di distanza. Ho acceso la torcia e subito l’ho puntata sul muso: non era un cane, ma un lupo. Gli occhi stretti e allungati erano chiusi, da un lato della bocca semiaperta fuoriusciva la punta della lingua che toccava l’asfalto, e il labbro superiore era stato sollevato dallo schianto come appendice di un’infinita serie di conseguenze meccaniche ben più rilevanti. I denti bianchi riflette­vano la luce della torcia.

Quattro enormi palazzi sorgevano intorno all’incrocio, appena prima dell’entrata nella tangenziale, ma le uniche luci accese erano quelle che corrispondevano alle colon­ne di scale. Nessuno ad aiutarmi, a correggermi, a dirmi fatti più in là e prendere in mano la situazione. Quante volte ero passato per quell’incrocio e quante volte ho guar­dato le luci degli appartamenti e ho immaginato i residenti, soprattutto anziani, fissare la strada e sbirciare nell’abitacolo delle macchine; quante volte ho riflettuto sulla mi­seria delle loro vite, mediocri, e quante volte mi sono rimproverato dei miei pensieri. In quel momento mi rendevo conto di essere sempre stato solo, o quantomeno di esser­lo diventato. Ho cercato una luce accesa, una traccia di quella umanità che tanto mi ero impegnato a fuggire. Ma ero solo, e dovevo fare qualcosa. Ricordo che fissando un’ul­tima volta il muso del lupo ho pensato: «Devo portarlo via di qui». Ho spostato il fascio di luce lungo gli arti sottili e muscolosi, con i tendini che sembravano pronti allo scatto, e le unghie e i cuscinetti plantari ancora sporchi di terra. Poi l’ho puntato sul ventre e solo allora mi sono reso conto della sua deformazione mortale: il manto era un conteni­tore pressoché intatto del complesso sistema di sacche e fluidi che era collassato, cau­sando un rigonfiamento all’altezza dell’intestino. Sono tornato alla macchina, ho posato la torcia sul sedile del passeggero, ho aperto il bagagliaio e sono tornato dal lupo; mi sono inginocchiato in corrispondenza del suo dorso e ho infilato le mani tra il pelo e l’asfalto: quando ho sentito di avere una buona presa l’ho sollevato senza particolare fatica, nonostante potesse pesare trenta chili, e ho camminato verso la macchina come in equilibrio su una fune, temendo che qualsiasi cambiamento della pressione che le mie mani esercitavano sul suo manto potesse accentuare il fluire dei liquidi corporei sbagliati nelle sacche sbagliate, e che così l’intero corpo potesse sfaldarsi tra le mie mani e venire risucchiato dalle crepe nell’asfalto. L’ho sistemato con cura nel bagagliaio e solo dopo averlo chiuso mi sono reso conto del pericolo che avevo corso. Non avevo fatto nulla per verificare che fosse morto per davvero. Un brivido freddo mi ha percorso la spina dorsale, dalla cervicale fino a perdersi lungo le vertebre toraciche e irradiarsi alla punta delle dita.

Continuo a tenere gli occhi chiusi. Il lupo è nel bagagliaio e io sul sedile del guidatore. Dai canini ancora aguzzi, dal pelo folto, dai cuscinetti plantari morbidi, dalla musco­latura perfetta non ancora consumata dalla vita selvaggia ho subito capito che si tratta­va di un lupo giovane, probabilmente in dispersione: ha lasciato le sue montagne e il suo branco; ha attraversato valli sempre più grandi, fiumi dal letto sempre più largo. Poi è entrato nel mondo degli uomini: strade, cavalcavia, piccoli centri urbani, e infi­ne la città.

Pochi metri più avanti ho imboccato la tangenziale. Mentre sorpassavo una Panda nera, ho guardato all’interno dell’abitacolo: al volante c’era un uomo sulla trentina, che indossava la maglietta di un gruppo rock, al suo fianco una donna, anche lei sulla tren­tina, in uno stato di dormiveglia, e sul sedile posteriore una bambina sui sei anni, rannicchiata tra i bagagli, che dormiva a bocca aperta, con in mano una bambola. Mi sono tornate in mente le vacanze estive che quasi dieci anni fa abbiamo passato nella baita di un amico di mia madre, in Svizzera, e che qualche anno dopo, alla fine delle scuole medie, incalzato dalla domanda di un’amica, mi ero trovato a definire il periodo più felice della mia vita. Io e Dario passavamo le giornate a giocare intorno a un piccolo laghetto: le sue acque placide e trasparenti riflettevano la sagoma delle montagne, delle conifere ad alto fusto, delle nuvole bianche che passavano velocissime nel cielo estivo, e il volo degli odonati, che rasentava il filo dell’acqua, per poi salire in alto e dopo delle evoluzioni straordinarie scendere di nuovo in picchiata. Spesso ci assegnavamo dei ruoli da interpretare e il più delle volte erano giochi di guerra, così che se io ero un indiano dal nome impronunciabile, Dario era un cowboy cinico e senza paura. Capitava che interpretassimo i medesimi ruoli per più giorni di fila, soprattutto perché nessuno dei due voleva darsi per vinto, tanto che era quasi sempre mamma a dirci di farla finita. Era in questi brevi periodi di tregua che decidevamo di esplorare i boschi circostanti. Ricordo un lariceto che sorgeva su un pendio particolarmente dol­ce; salivamo senza tregua, facendo scorte di piccole pigne e rami ricoperti da licheni e resina. Proprio in quel lariceto, uno degli ultimi giorni, trovammo il corpo smembra­to di un cervo: le ossa e i visceri erano sparsi intorno al corpo. Gli occhi grigi guardava­no fisso un punto indefinito alle nostre spalle.

Si era diffuso nell’intero abitacolo un lezzo simile a quello delle uova marce. Ho ab­bassato il finestrino e ho sporto fuori il braccio: la mia mano è stata risucchiata dall’oscurità. Intorno c’erano capannoni industriali e grandi magazzini, le cui luci al neon rosse e blu elettrico davano l’idea di un immenso parco divertimenti deserto, cre­sciuto nel mezzo del nulla come un fungo. Pochi minuti dopo ho lasciato la tangen­ziale e mi sono immesso nella statale. Il cielo era sempre più scuro e i lampi si spostava­no dalle valli verso la città. Sono passato di fronte a una discarica, sopra la quale, incuranti della tempesta imminente, volavano gabbiani reali e cornacchie. Di fronte c’era un allevamento intensivo di bovini: lì nostro padre si era fermato a pisciare nell’ultimo viaggio di ritorno dalla clinica.

Papà se n’è andato poco prima che nascessi. Per questa ragione fino alle scuole ele­mentari io e Dario non abbiamo sentito la sua mancanza: c’era nostra madre, il fratello di mio padre e i nostri nonni. Solo quando ci siamo specchiati negli altri bambini ci siamo accorti del vuoto alle nostre spalle, della mancanza che popolava ogni nostro atti­mo, della voragine che in ogni fotografia sembrava inghiottirci. Mamma conserva un album di fotografie: molte sono di papà. Spesso quando nonna ci veniva a prendere a scuola e mamma non era ancora a casa, ci fiondavamo in camera per sfogliarlo insie­me. C’è una fotografia in particolare che ci ha sempre affascinato: nostro padre in divisa, su un carrarmato, lo sguardo fiero di chi non può essere sconfitto. Bastava guar­darla un attimo per percepire come nostro qualcosa che di fatto non avevamo mai avuto, e per sentirci più forti. Due anni fa, quando iniziavamo lentamente ad allonta­nar­ci, Dario mi ha chiamato, in lacrime. Era l’una di notte, entrambi avevamo una festa di compleanno, io in un locale in centro, lui in una discoteca poco fuori dalla città. Mi sono fatto prestare il motorino da Simone e sono andato da lui, nonostante sapes­si che da lì a poco mamma sarebbe passata a prenderlo. L’ho trovato sul marciapiede di fronte alla discoteca, di fianco a un paio di trentenni che sorreggevano un loro amico ubriaco. Dario si copriva il volto con le mani. Sentivo i suoi singhiozzi. Ho pronunciato sottovoce il suo nome. Ha tolto le mani dalla faccia e gli ho visto l’occhio viola e il sangue che ancora gli colava dal naso. Da allora io e Dario abbiamo avuto vite parallele, ma lontane.

Dal finestrino iniziava a entrare un’aria gelida; intorno c’erano villette, condomini e qualche campo da calcio. Nel buio speravo di intravedere il parco giochi accanto al cimitero, ma quando ci ho pensato l’avevo già superato da un pezzo. Di fronte a me, intanto, si espandeva la sagoma buia della collina. Quel pomeriggio ero uscito di casa sbattendo la porta così forte che il muro era tremato. Mia madre e Dario litigavano dalla mattina. Avevo lasciato il condominio, ero salito in macchina e mi ero fermato a osservare il nostro balcone attraverso il vetro sporco del parabrezza. Mi dicevo che non ci sarei tornato mai più: avevo scritto a Sara, chiedendole se volesse uscire con me quella sera, e a Francesco, dicendogli che non avevo nulla da fare dopo cena, e di dire a Simone di portare l’erba. Più tardi avrei chiesto a Francesco se potevo fermarmi a stare da lui per un po’, e se non avessi potuto avrei dormito in macchina, com’era suc­ces­so già altre volte. Mai avrei pensato che poche ore dopo mi sarebbe presa d’un tratto la voglia disperata di tornare a casa, di svegliare mia madre, di abbracciarla e di pian­gere sulla sua spalla. Solo in quel momento ho capito che presto avrei lasciato la casa in cui avevo sempre vissuto. L’avrei lasciata, e forse sarebbe stato per un buon motivo. Avrei lasciato la mia camera, con i muri che portavano ancora i segni di un’infanzia feli­ce, e la geometria perfetta del nostro appartamento, di cui conoscevo a memoria ogni centimetro. Avrei lasciato il mio letto sfatto, i poster appesi all’armadio, i nostri calzini appallottolati sotto il divano, il frigo vuoto, la macchia di olio sulla parete di fronte all’ingresso, l’albero di Natale in plastica che teniamo sempre pronto in cantina, gli occhiali sporchi di Dario e il suo cellulare sempre acceso, le cene di mia madre e il letto troppo grande per il suo corpo e per i suoi sogni, la foto di mio padre sul comodino e quella da militare nell’album. Avrei lasciato mia madre e Dario e con loro quasi vent’an­ni della mia vita, un’infanzia che non sarebbe tornata. Li avrei lasciati e sarebbe stato per sempre, perché anche quando fossi tornato sarebbe stato tutto diverso, sommerso dalle piogge e ricoperto dalla polvere.

Dalla statale ho imboccato una strada secondaria, debolmente illuminata da alti lampioni disposti solo da un lato. Poco dopo sulla mia destra ho riconosciuto la stradi­na sterrata che portava allo spiazzo di fianco alla faggeta. Ho parcheggiato e sono rimasto immobile per qualche minuto. Nella mia testa si è materializzata l’immagine di Francesco e Federica, nel letto tiepido di lei, abbracciati.

Riapro gli occhi. Devo fare qualcosa. Afferro la torcia e scendo dall’abitacolo. Sono in­vestito da un vento gelido. Sopra la mia testa le convulsioni intestine delle nuvole, il corpo centrale del temporale, i fulmini che colpiscono terra e i bagliori interminabili dei lampi. Apro il bagagliaio e trovo il corpo dell’animale, più scomposto di quanto ricor­davo: la mia ultima speranza che fosse tutto un incubo svanisce. Prendo il lupo tra le braccia e lo trascino lungo il sentiero; in pochi secondi il suo peso diventa insosteni­bile, le sue membra tendono verso la terra e nel loro moto in caduta mi sbattono contro i sassi e la polvere. Mi rialzo. Afferro i suoi calcagni – il pelo corto e morbido –, con le unghie stringo i tendini, e lo trascino dietro di me lungo il sentiero in salita. Arrivo al faggio centenario allo stremo. Inciampo e mi trovo per la seconda volta a terra, la torcia accesa al mio fianco. Le ferite sulle ginocchia e sui gomiti bruciano. Al buio mi metto in ginocchio e con quanta forza ho in corpo inizio a scavare a mani nude tra le radici, per fare una fossa. La terra è umida e viene via come sabbia. Presto iniziano a emerge­re dalla terra pietre e radici. Sento le unghie che si spezzano sotto terra, il dolore e il piccolo piacere della terra fresca sulla carne viva. Poi inizia a piovere, e in pochi secondi diluvia: l’acqua si accumula nel piccolo spazio vuoto che ho scavato. I fulmini si schian­tano sulla parte più alta della collina. Guardo il corpo del lupo al mio fianco. Mi tra­volgono tutti gli attimi che ho vissuto, come portati dalla corrente torbida di un fiume in piena. C’è una frattura insanabile, un crepaccio profondo chilometri che mi separa dalla mia vita. Un orrido che non può essere attraversato in nessun modo, una gola che risplende della lava incandescente al suo fondo. Mi alzo. Le nuvole scure incombono sulle luci tremolanti della città che ancora dorme. Guardo un’ultima volta il lupo. Gocce di sangue cadono a terra dai miei polpastrelli, lasciando la mia traccia sulla terra scura. La torcia è puntata verso la faggeta e illumina i tronchi grigi e lisci dei primi alberi. Mi incammino in quella direzione fino a coprire la luce della torcia, fino a non vedere più nulla di definito di fronte a me, fino a toccare la superficie liscia della corteccia, fino a perdermi nel fitto della vegetazione.