Due

· Valentina Maini ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-C2CF-5

La presentatrice avverte che sono in strada armati, io e Thomas restiamo in casa, tele­visione accesa. Il buio è uno dei metodi preventivi più efficaci, ci ripetono da anni, e niente tragitti ingiustificati, uscite superflue. Siamo andati a comprare qualcosa da mangiare ieri mattina, poi abbiamo preso strade diverse per andare a lavoro, c’era un fiore nuovo, quando sono tornata a casa, un fiore scuro che copriva in parte il viso di Thomas. Gli ho dato un bacio leggero sulla guancia, ho detto «grazie», Thomas ha inclinato la testa, malgrado stesse sorridendo ho pensato che in lui non ci fosse nulla di allegro.

«Mi hai preso un fiore», ho sussurrato.

Non sapevamo sarebbero tornati, speravamo avrebbero scelto altre strade, altri pae­si. Restano qui. Fuori. Le nostre mura sembrano di cartapesta, anche se la polizia ci ha confermato che la casa che abitiamo è al sicuro. «Al sicuro», provo a recuperare un significato, una sensazione di fiducia verso il cemento che mi separa dalle altre vite, fiducia verso l’uomo in divisa che ha bussato alla porta ordinandoci di non uscire. Mi chiedo se sarebbe capace di uccidermi, nel caso decidessi di avventurarmi in strada a correre, a passeggiare. Il suo viso è serio e bianco, sembra che stia trattenendo un’offe­sa. O forse quello sforzo è mio. Noi siamo sul divano in silenzio, passano le tre di notte, fuori solo ambulanze, qualche grida e silenzio, il vento tira forte e fa vibrare i vetri, ondeggiare la biancheria che ho steso ieri sul balcone e non oso raccogliere, nonostan­te avremmo bisogno di mutande pulite, di una coperta. La nostra casa è esposta. Dà sulla via maggiore, la via in cui abbiamo scelto di abitare e che da tempo ha deciso di mostrarci la sua ombra. Le abitazioni simili alla nostra sono giudicate ad alto rischio e necessitano di misure di prevenzione più accurate. Non vediamo niente di quello che succede, possiamo intuire i movimenti a partire dai rumori, i visi a partire dalle voci di chi urla o piange. Abbiamo fatto questo gioco varie volte, ci siamo immaginati i linea­menti di chi si dimenava in strada, di chi moriva. Ci somiglia? La distanza che ci separa è una questione di posizione, un semplice intervallo in linea d’aria. Nessuna differenza sostanziale. La presentatrice ripete che potrebbero sparare alle finestre, raccomanda di non affacciarsi, di non sbirciare dalle tende. Hanno bruciato il palazzo di fronte a noi qualche ora fa e sparato colpi, questo è il solo elemento chiaro, confermato. Qualcuno è morto, ma non si hanno cifre precise, continuano a crescere, ma c’è bisogno di più tem­po. Tra qualche ora avremo misure esatte e inutili. Thomas mi mette una mano sulla testa, io provo a litigare con lui per liberarmi da una specie di rabbia che non ha niente a che fare con ciò che è successo qualche ora fa, con ciò che succede in città da circa sei anni, ma scaturisce da un tempo più antico, da una dimensione ignota che ha trova­to nell’incendio una forma di manifestazione adatta. Thomas non si arrabbia, mi parla appena. Si sente solo la voce della donna mora in televisione, visibilmente scossa, inter­vallata dalle solite immagini di fumo e vesti bruciate. Dovremmo esserci abituati. Io scaldo una tazza d’acqua al microonde, immergo una bustina di camomilla nel liquido bollente per cercare di dormire, poi dico a Thomas che il pane è finito, che domani dovremo alzarci per comprare il pane.

*

Restiamo a letto svegli per più di mezz’ora, io traffico col cellulare, Thomas ascolta un suono che io non sento. Quando si avvicina a me, spingo il telefono contro il suo orecchio, mi sbilancio verso di lui, cerco di costruire un territorio comune. La voce del presentatore è il nostro continente d’azione, uno spazio condiviso in cui proviamo la stessa paura, per quanto in superficie le nostre reazioni appaiano diverse.

«Provo a uscire», mi dice mettendosi seduto, io lo imito e gli suggerisco di aspettare.

«Aspettare cosa?», chiede.

Non so reagire a questo interrogativo, resto zitta e mi alzo, scosto la tenda della fine­stra che mi svela una tapparella chiusa, giro la maniglia e apro un’anta di vetro, provo a sbirciare da una minuscola fessura bianca di luce. Non posso vedere oltre la tapparel­la, continuo a immaginare che cosa stia accadendo fuori, ma i rumori sono quasi in­esistenti adesso, a parte il suono delle sirene che riecheggia nelle mie orecchie vago, simile a una fantasia, un ricordo.

«Le senti anche tu?»

Thomas fa di sì con la testa, infila il cappotto ed esce. Io conto i secondi con le dita, mi dico che non c’è nessun pericolo oggettivo, che non può succedere niente a un uomo che esce di casa per comprare il pane. Accendo la televisione e il computer, cerco di capire cosa sta accadendo nel mio paese, il numero di morti è salito a un centinaio, a quanto pare nella notte ci sono stati altri attacchi nella via parallela alla nostra. Io e Thomas non figuriamo nell’elenco dei morti. Mi accorgo di aver avuto paura solo quan­do sento il giro di chiave nella serratura, Thomas regge una confezione di bottiglie d’acqua insieme al sacchetto con il pane.

«Potrebbero avere contaminato i condotti.»

Provo un senso di nausea acuto al pensiero dell’acqua che abbiamo ingurgitato in queste ore. Nella mia immaginazione è un blocco trasparente che crepa il mio stomaco di graffi neri. Strappo la plastica e ripongo una ad una le bottiglie nel frigorifero obbli­gando il mio respiro a un ritmo che reputo naturale. Thomas mi versa un po’ d’acqua e io mi sforzo di avere ancora sete.

*

Facciamo l’amore tre volte, rimaniamo nel letto a fumare. Le finestre sono ancora chiuse. Io sento il rumore delle ambulanze. Guardo Thomas disteso sulla coperta, il suo corpo magro e bianco somiglia a quello di un malato. Mi guarda e so che pensa la stessa cosa.

*

Centosei morti e una settantina di feriti, decimo attacco terroristico del mese, nessuna rivendicazione. Io e Thomas abbiamo smesso di andare a lavoro, siamo esentati da qualsiasi attività che preveda un’esposizione diretta all’ambiente esterno. Questo non ci consola. Nemmeno la pattuglia che controlla il nostro palazzo, proprio fuori dal can­cello, riesce a mitigare la nostra frustrazione, al contrario l’accende. La televisione ri­pe­te che il nostro paese è il meno sicuro, che il nostro quartiere è il meno sicuro. Io co­mincio a sperare che accada qualcosa da un’altra parte, qualche disgrazia in una zona del mondo lontana che non abbia niente a che fare con questa via, questa casa, con me e Thomas. Cerco a fatica di reprimere questo pensiero. Continuo a immaginare qualcu­no che soffre più di noi.

*

«Ti ricordi com’era prima?»

*

Stamattina abbiamo fatto un giro nel quartiere con la scusa della spesa. I palazzi intor­no a noi ci sono sembrati enormi, gli odori alterati dal fumo che ancora aleggia nell’aria. Conosciamo queste sensazioni. Sopportiamo. Non abbiamo incontrato nessu­no. Ho detto a Thomas: «Stanotte ho fatto un sogno». Lui non mi ha risposto, ha continuato a fissare rabbioso i suoi piedi veloci sull’asfalto.

«Io e te eravamo seduti sul molo, davanti a noi l’oceano. Tante persone nuotavano. Solo noi due non riuscivamo a buttarci in mare.»

Ho cercato di spiegargli quanto questo sogno mi rendesse triste.

«Dovremmo imparare a godere di quello che abbiamo. Anche adesso, anche se è poco.»

Lui ha continuato a guardare davanti a sé, impassibile. Abbiamo superato il piccolo negozio di chincaglierie, il proprietario non ci ha salutato per quanto ci conosca bene da anni. Forse somigliamo a fantasmi, a schizzi appena abbozzati di esseri umani. Mentre imboccavamo la nostra via per tornare, Thomas mi ha parlato della morte, ha ripetuto che nei sogni il mare è un simbolo di morte.

*

«Abbiamo troppa paura. Ci stiamo trasformando in due persone cattive.»

*

Fa molto freddo, mi sto ammalando. Avrei bisogno di medicine, ma non voglio che Thomas esca senza di me. Da qualche giorno immagino di morire insieme a lui, in un incendio, in una sparatoria. I nostri corpi restano abbracciati mentre intorno a noi qualcuno corre, urla, cerca la vita. Immagino le onde dell’oceano che si infrangono con­tro i nostri corpi chiusi, riversati l’uno sull’altro. La carezza del mare è una sensazione piacevole.

*

A quanto pare nel nostro palazzo abita un ricercato, la polizia inizia le irruzioni dome­stiche a notte fonda. Entrano nel nostro appartamento verso le cinque, abitiamo al sesto piano, piazzati agli ultimi posti della lista. Probabilmente le nostre dichiarazioni suonano innocue, o gli agenti hanno già trovato il loro uomo senza bisogno di ulterio­ri accertamenti. Sbrigano l’interrogatorio in appena mezzora. Noi cominciamo a pensa­re a chi potrebbe essere, recuperiamo i visi dei nostri vicini, stiliamo un elenco mentale di presunti colpevoli. Colleghiamo visi a caratteri, espressioni più o meno inaffidabili a gesti omicidi, applichiamo pregiudizi comuni a casi specifici, persone che conosciamo di vista, che abbiamo incontrato quasi ogni giorno. Ancora non ci vergogniamo dei nostri pensieri.

*

Hanno arrestato un’intera famiglia, padre, madre, due ragazzini, nonno. Lo ha comuni­cato un agente con altoparlante verso mezzogiorno. Avrebbero presto organizzato un attentato ai danni del nostro palazzo. Io e Thomas non saremmo sopravvissuti.

*

Ci hanno autorizzato ad aprire le finestre. Non le apriamo. Hanno disinfestato la nostra zona da tutti i soggetti pericolosi. Non usciamo. Io sono ancora malata, presto attac­cherò il virus anche a Thomas e allora potremo lasciarci andare insieme, uno sull’altra, come nella mia immaginazione. Non ci saranno incendi, nessuno correrà intorno ai nostri corpi, nella speranza di salvarsi la vita. Saremo solo io e Thomas. Lo osservo camminare avanti e indietro per la casa senza aprire bocca, provo a dirgli qualcosa, ma il suono delle mie parole è attutito, come proveniente da un altro mondo, diverso, lontano. C’è una tenda spessa davanti alla finestra, Thomas la scosta meccanicamente, controllando che sia sempre ben chiusa. C’è sempre più freddo, i nostri corpi sono gelati. In televisione hanno detto che in città ha cominciato a nevicare.