E il pagliaccio gira

· Lidia Tacito ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-C2CD-7

Dopo un lungo silenzio Anna dice: «Senti, usciamo». Dice: «Andiamo a fare un giro, non pensiamoci troppo». Guido, seduto al tavolo bianco della linda cucina grigia, è occupato solo a guardare il muro e allora risponde: «Andiamo». Vanno, e come sempre Anna evita l’ascensore, li dirige entrambi verso le scale. Stringe tra le mani un maglio­ne leggero. Il marito le sfiora il gomito: «Non avrai freddo?», dice, e intanto pensa che forse avrebbe fatto meglio a prendere una felpa anche lui perché è ancora maggio, è sera e non si sa mai, ma fuori si sta bene, i locali sono pieni di gente che si riversa sulla strada, formando nugoli di chiacchiere e fumo e drink.

Marito e moglie avanzano nella folla, entrambi alti e scuri e nodosi, entrambi un po’ curvi: si assomigliano vagamente, come i fratelli sposi della civiltà egizia. Cercano di evitare la gente ma ogni tanto sono costretti a invadere un cerchio di parole e sorrisi, ta­gliandolo a metà come falci. Stanno attenti a non urtare i cocktail o le bottiglie di birra. Qualcuno ride forte.

«Hanno già voglia di vacanze», dice Anna.

E Guido, muovendo appena le labbra: «Poi ci sono quelli di noi che d’ora in avanti staranno sempre come in vacanza».

E ancora Anna: «Non ci pensare».

Ci pensano. Vanno avanti.

Il luna park brilla come un falò nella notte. È una visione nel bel mezzo del grande pra­to dietro la stazione, altrimenti vuoto esclusi gli scarni alberelli che sembrano fiammife­ri bruciati nella semioscurità della notte cittadina. Stanno all’ingresso, marito e moglie, e hanno le facce illuminate da colori intermittenti: tutti quei rossi e blu e gialli. Anna prende sottobraccio Guido per attirare la sua attenzione, sorride senza far vedere i den­ti. Dice: «Dai, andiamo a farci un paio di giostre».

Non hanno altri programmi e allora vanno.

Ci sono i calcinculo e la ruota panoramica, la galleria degli specchi e le montagne russe. Bambini a bordo di cavallucci barocchi, bambini dentro tazze giganti, bambini su mac­chine da corsa in miniatura, bambini a bordo di un bruco con i denti sporgenti. Una giostra fa girare adolescenti urlanti, si chiama Hollywood Planet ed è decorata con un mélange di facce famose (ecco Marilyn Monroe, ecco James Dean, ecco Humphrey Bogart). I ritratti vorrebbero essere realistici ma c’è qualcosa di grottesco nel sorriso fumante di James Dean, storto e tumefatto, e negli occhi di Marilyn, che sono blu Gatorade. Bionda e inossidabile, la Monroe indossa un vestito rosa zucchero filato (la gonna gonfia di aria) e ha le labbra rosse come la mela candita che Anna addenta, così anche la sua bocca si fa vermiglia e vampiresca. Marilyn ride perché deve tratte­nere la gonna con le mani, Anna ride perché la sua mela è appiccicosa. Anna ride perché nessuno parla. Si dà da fare: paga gli snack, paga il biglietto per la ruota pano­ramica. Guido sta a qualche passo dalla biglietteria, dando le spalle alla faccia ruvida dietro il vetro mentre la moglie si adopera con il suo portafoglio di pelle nera, dove ogni carta di credito ha la sua taschina e le banconote restano lisce, divise secondo il taglio. Guido guarda Marilyn.

Salgono sulla giostra.

Quando sono in cima, al punto più alto, e la ruota si ferma per far notare il panora­ma, Anna appoggia la mano su quella del marito. Ha dita come rami di un vecchio al­bero e guardandole Guido vede la loro vita: intrise di crema idratante, rapite tra le righe di un romanzo, immerse nel lavello, attente con gli aghi, caute attorno alle provette e indaffarate tra i materassi da rivoltare, i chilometri di lenzuola bianche. Pensa che le mani di Anna sono ruvide, i suoi occhi gonfi ma belli. Si ricorda di quando, appena diventata infermiera, faceva spesso il turno di notte e tornava stanca, con le mani un po’ tremanti. Allora la baciava. Ora chiede: «Non adori il tuo lavoro? Non ci staresti di merda a essere mandata via a calci nel culo?»

«Certo. Non ti sto dicendo di dormirci su. Sto dicendo, si risolve. Magari puoi fare qualcos’altro, potrebbe essere un’opportunità.»

La ruota non riparte e loro oscillano là, in alto.

«Ho venduto polizze per vent’anni, che vuoi che mi metta a fare? Ci vuole una vita per costruirsi un minimo di professionalità, anche se poi, vabbè.» Tacciono entrambi e per un lungo momento si fanno cullare dall’aria e dalle luci, sono lontani. Poi Guido: «Tipo, tu sei brava in quello che fai, cerchi di farlo per gli altri, per i pazienti, e se do­mani ti dicessero arrivederci, non penseresti che alla fine potevi anche, non so, ammaz­zare qualcuno e il risultato sarebbe stato lo stesso?»

«Ma chi posso ammazzare? Io faccio parte di una squadra. E comunque, è vero, cer­co di lavorare bene, ma perché mi piace. La sai una cosa? Soprattutto all’inizio, quando stare in corsia era una novità, mi ritrovavo a pensare: speriamo che succeda qualcosa. Vedevo tutta quella gente in placida attesa, i monitor che bippavano regolari e mi dice­vo: che scatti l’allarme, che qualcuno cada in preda alle convulsioni, che ci sia un’emergenza di qualche tipo. Volevo vedere il peggio. A volte, nelle cose, devi pren­derti anche la merda, mi spiego?»

Guido non dice nulla, toglie piano la mano e Anna la ritrova.

«Andrà tutto meglio», dice ancora. «Ce ne sono tanti di lavori.»

«Non così tanti.»

«Hai un sacco di esperienza.»

«Sì.»

«E per ora siamo tranquilli, c’è il mio di lavoro. Posso fare qualche turno in più. Posso dare una mano io.»

Lo abbraccia, si attorciglia intorno al suo corpo come può, bloccata dalla sbarra di ferro, mentre lui resta immobile finché la ruota non si rimette a girare.

A terra gli sembra che tutto oscilli, soprattutto la faccia di Anna, sorridente e illumi­nata. Camminano ancora, si fermano a vedere la gente che tira a segno. Si sono appena rimessi in moto quando due donne vestite da clown vengono loro incontro. Hanno i visi dipinti di blu e rosso ma a forza di sorridere e parlare lo spesso strato di colore si è crepato, cosicché le loro facce sembrano sul punto di sgretolarsi. Ridono sguaiate e raggiungono marito e moglie, le braccia spalancate. Lui cerca di aggirarle, ma lei, Anna, va dritta ad abbracciare la prima, ridendo anche lei, e la seconda bacia Guido, che ne avverte l’odore e sa che ora ha le guance sporche di blu-rosso, sente la pelle rigida e contaminata.

«Ok, andiamo ora» dice, stringendo il braccio di Anna, ma le due donne hanno tirato fuori palline colorate e hanno iniziato a lanciarle in aria e a passarsele tra di loro, in un complesso intreccio di giocoliera. Mentre Anna applaude, Guido nota che dai costu­mi colorati spuntano sporche scarpe da ginnastica Adidas.

Ora una delle due si avvicina e chiede una banconota da 10 €. «Tranquilli, restituia­mo!», dice, con il suo sorriso crepato. Guido scuote la testa ma Anna prontamente consegna i soldi. Lui le afferra il polso, scuote ancora la testa e allora Anna sbuffa, ti­rando fuori una penna dalla borsa. Firma con precisione un lato della banconota, mentre le due artiste di strada guardano quiete, le identiche facce stilizzate piegate di lato. Non hanno fretta, non sono offese, è ciò che fanno ogni giorno. Professionalità, pensa Guido e Anna consegna i soldi a una delle due.

«Perché gliel’hai data?», sussurra lui, forte da farsi sentire. Aggiunge: «Queste ti fre­gano, non lo sai? Non ti tornerà indietro, stai a vedere. E se ti torna indietro potrebbe essere falsa.»

«È solo un trucco, l’ho anche firmata, che vuoi che succeda?»

La donna non smette di sorridere, alza la banconota, la passa di mano in mano, la passa dietro la schiena e poi, improvvisamente, la strappa, lanciandone in aria i pezzi come coriandoli monocolore.

Fa un passo indietro appena Guido ne fa uno in avanti e indica la compagna, che rovista in un borsellino e tira fuori una banconota arrotolata.

«È questa! È la mia!», ride Anna, guardando le donne e Guido e ancora le donne e persino i passanti, come a coinvolgerli nella meraviglia. Le due si inchinano, sorridono e allungano il borsellino, poi soddisfatte spariscono nella folla, alla ricerca dei prossimi clienti.

«Guardala bene, secondo me è finta. Io sono uno che queste cose le capisce. Non cre­de­re che non le vada a denunciare.»

«Ti dico che è questa, c’è la mia firma, vedi?»

Continuano a camminare e improvvisamente lui: «Anch’io ti ho dato una mano.»

«Come?»

«Anch’io ti ho dato una mano. Prima. Quando stavi finendo di studiare e io già lavo­ravo.»

«Infatti. Certo. È vero.»

«È andata proprio così.»

«È giusto. Si sta insieme per questo, no? Ci si supporta a vicenda.»

«Sì.»

«Faremo così anche stavolta.»

«Tanto altro non si può fare.»

«Non pensiamoci adesso. Siamo qui, è una bella serata. Andiamo a vedere cosa c’è là in fondo, poi torniamo a casa.»

Vanno.

La vedono entrambi, ma è Guido che continua a guardarla anche quando Anna si volta e cerca di tirarlo altrove. «Non ci credo,» dice. «Una casa stregata.» Anna resta di profilo rispetto alla facciata che tenta con scarso successo di riprodurre una stamberga a due piani, un richiamo alle case coloniali della vecchia New Orleans.

«Oddio, sì. Odio quella giostra.»

E lui: «Da piccolo la adoravo. Mia sorella era sempre terrorizzata».

«Aveva ragione. Sai cosa mi è capitato l’unica volta che ci sono salita?»

«Andiamoci,» dice Guido e inizia a incamminarsi verso le aspre luci artificiali, la pit­tura blu elettrico e grigia e nera. Va incontro ai pipistrelli, ai mostri che spuntano da finte crepe, alle finestre rotte. Sulla facciata sono dipinti fantasmi dagli occhi vuoti e c’è un manichino: una giovane donna, in piedi sul terrazzo del secondo piano, vesti bian­che, carne bianca, parrucca sintetica nera che cade dritta sulle braccia rigide tra le quali sgocciola una testa mozzata. Davanti alla facciata corrono i binari e i vagoni entrano a sinistra ed escono a destra, uno dopo l’altro.

«Torniamo verso casa?» dice Anna, mentre dall’interno della giostra arrivano lo stri­dere dei vagoni, botti, urla, risate.

«Facciamo un giro.»

«Non so se mi va. Magari un altro giro sulla ruota?»

«No dai, andiamoci,» sorride Guido.

Anna non dice niente, guarda la casa, immobile.

Stanno seduti vicini nel minuscolo vagone a forma di bara, trattenuti dalla barra di ferro, ma non si toccano. Anna tiene le braccia incrociate, la schiena dritta, lo sguardo in avanti, verso l’entrata del tunnel che ha la faccia di un pagliaccio dal trucco slab­brato. Ecco lo scatto, la partenza, Anna è spinta in avanti, tocca la barra con la pancia e abbassa subito le mani, si regge. Guido ride. La bocca del clown si apre e si richiude, mangia la luce: sono dentro ora, in un buio diverso da quello che c’è fuori e non si vede niente. Nel buio appare una piccola luce sospesa che svolazza sopra le loro teste, quasi delicata, e poi: luce artificiale viola, fumo rotolante che entra nel vagone, nei polmoni, e si accorgono di essere in un cimitero. Si sentono ululati, ma gli effetti sonori sono sca­denti, gli altoparlanti gracchiano e frusciano nell’aria calda e fumosa. Guido si ritrova a sorridere e ha le parole di Anna dentro la testa, urlate da altoparlanti di seconda mano: andrà tutto meglio. Continuano la corsa. Vento artificiale caldo e asciutto viene spa­rato sulle loro facce e Guido sente Anna che cerca di tirare fiato, ma resta zitta. «Che kitscheria,» dice allora a voce alta, e non ottiene risposta. Ai lati del loro vagone sono apparsi scheletri che danzano mano nella mano e da un angolo spunta una donna coperta da un lungo velo. Fa qualche metro verso il vagone, ma cade in avanti di colpo, con un botto, procedendo quindi a novanta, il velo sporco e strisciante a terra.

«Ma dai!», ride ancora Guido e la sua voce rimbomba nel silenzio. Si volta a guarda­re la moglie, vede il suo profilo immobile nella penombra, gli occhi sgranati. Per un attimo è solo un altro manichino. Il caldo aumenta, Guido sente le macchie di sudore che si allargano sotto le ascelle. Proseguono ed è il momento di una prigione con manichini allagogna e impiccati che svolazzano come stendardi. A uno degli impiccati è caduta la parrucca, all’altro manca un piede. Non ci sono neppure più gli effetti sonori, solo catene di cartapesta e lo stridore del vagone sui binari. Guido: «Dovremmo essere terrorizzati?», e Anna: niente. Si apre una tenda nera e si richiude alle loro spalle, sono nuovamente al buio.

«Ancora non usciamo? Forse ora usciamo,» dice Anna e Guido la sente ma non la vede, le sfiora la spalla ma lei si ritrae. Si accende un cono di luce rossa e nel bel mezzo pedala un piccolo clown su un piccolo triciclo. Le sopracciglia sono arcuate come fine­stre gotiche e gli occhi stelle nere. Metà della sua faccia è bocca, ghignante, rossa, enor­me. Gira e gira e gira, ridendo ridendo ridendo. Il vagone è fermo. Guido guarda di nuovo Anna, che ora è illuminata di rosso, con il sudore che le scende sulle palpebre si­gillate.

La sua voce è debole quando dice: «Oddio, usciamo. Ti prego, usciamo.»

«Come facciamo a uscire?»

«Usciamo e basta. Il percorso è uno, abbandoniamo il vagone e tiriamo dritto».

«Ma che dici? Non si può, dai. Ci siamo quasi. L’hai visto da fuori, saranno sì e no cinque minuti di giostra. Anzi, mi sembra di vedere della luce là in fondo. Ancora un minuto ed è finita.»

«Parlo sul serio. Devo uscire adesso.»

«Datti una calmata. Non è niente. Non lo vedi che è tutto finto?»

«Non ne posso più del chiuso, del buio, ‘sto caldo.»

«Due minuti e siamo fuori. Che c’è, non ti fidi? Ci sono qui io, che vuoi che succe­da?»

La risatina del clown rimbomba tutt’intorno e la voce di Anna, alla sua sinistra: «Oddio».

Il vagone sussulta e riparte, comincia a prendere velocità. Corrono lungo il binario e un altro vagone viene loro incontro, lo vedono in lontananza, sempre più vicino. Anna urla, e poi entrambi i vagoni si fermano di scatto, l’uno di fronte all’altro. Marito e moglie si accorgono che sono loro, sono solo loro, slavati nella luce, mostruosi, riflessi in uno specchio ondulato. Anna ha la bocca spalancata e gli occhi chiusi. Guido sorride. Quando la parete specchiata si alza, escono all’aria, sotto le stelle, nel buio che cono­scono bene.

Stanno in piedi sul selciato e il parco gli piroetta intorno, volteggiano le luci, la gente, i rumori. Gira la ruota, fila lo zucchero appiccicoso. Nel mezzo, Anna tace e Guido sorride, dice ancora: «Madonna, quanto mi piaceva questa giostra da piccolo». E poi, prendendo sua moglie per mano, aggiunge: «Dai, torniamocene a casa».