Giorgio Agamben, La vita delle forme. A cura di A. Lucci e L. Viglialoro. Genova: Il Nuovo Melangolo 2016
ISBN 978-88-70-18988-9, pp. 297, Euro 20,00

· Valerio Timpanaro ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-C2DB-7

Nell’«avvertenza», situata all’inizio dell’ultimo volume di Homo Sacer, L’uso dei corpi, Giorgio Agamben specifica che il suo progetto non può essere portato a compimento, ma piuttosto abbandonato e continuato da altri. All’interno di questa soglia d’indistin­zione tra pars destruens e pars construens possono essere annoverati i saggi che compongono la costellazione critica del volume Giorgio Agamben. La vita delle forme. La varietà dei contributi è certamente il punto di forza della raccolta di saggi, frutto della meticolosa selezione dei curatori – Antonio Lucci e Luca Viglialoro – la cui inten­zione non è tanto di riorganizzare le istanze principali del pensiero agambeniano, quanto di interpretare esso stesso come «forma-di-vita» (p. 9). Solo «dopo e assieme» (ivi) ad Agamben, la sua filosofia può essere considerata nella sua (in)attualità.

La prima parte del volume («Dopo Homo Sacer. Archeologia di un progetto filo­so­fico») presenta diversi tentativi di lettura trasversale dell’opera di Agamben. Gli autori dei diversi contributi sono accomunati dal desiderio di delineare una «forma» in ten­sione con un particolare momento dell’opera agambeniana. Tali momenti costituiscono una sorta di centro di massa, intorno al quale i diversi elementi della ricerca si concen­trano, assumendo un particolare equilibrio. In questo senso, il saggio di Elettra Stimilli riorganizza in maniera – forse troppo canonica – il materiale agambeniano intorno al concetto di «potenza-di-non», presente in quasi tutti i volumi di Homo Sacer nonché nel commento agambeniano del Bartleby di Melville. Carlo Salzani prende invece in esame il capitolo di Homo Sacer IV.2 su «L’Inappropriabile», scorporandone gli ele­menti in una maniera già vista e apprezzata in altri suoi saggi sul filosofo romano. Egli procede in maniera archeologica nello studio del materiale agambeniano, mettendo in luce le diverse sfumature del concetto di «proprietà» e «possesso» in Benjamin e di «proprio» e «improprio» in Heidegger. Dalla dialettica di questi elementi emerge il problema politico della privacy, in relazione all’ethos e all’uso come elementi fonda­mentali del pensiero di Agamben. Dario Gentili approfondisce il concetto di «potenza destituente», punto di arrivo de L’Uso dei Corpi, il quale viene riletto alla luce del «dispositivo della crisi» (p. 51), inteso al contempo come decisione e come separazione nell’ambito degli strumenti di governo. L’analisi dell’autore fornisce uno spunto parti­colarmente interessante nella delucidazione del concetto di «soglia», intendendo quest’ultima come un vacuum che permette il contatto senza relazione, rendendo in-operativi (evacuari – katargein) i termini in esso catturati.

Gli ultimi tre contributi all’interno di questa prima parte elaborano più dettaglia­ta­mente la tensione interna di particolari elementi all’interno della filosofia di Agamben, esponendone chiaramente i punti in cui l’equilibrio sembra spezzarsi e, quindi, in cui una critica appare essere non solo più teoreticamente fondata, ma persino neces­saria. Antonio Lucci individua nella nozione di «forma-di-vita» il vero punto focale delle ricerche di Agamben, delineandone una breve storia all’interno della sua stessa opera. L’autore fornisce in questo modo una chiave interpretativa chiara dei diversi momenti del pensiero del filosofo romano e circoscrive la tensione principale del pro­gramma agambeniano in quella tra vita e opera (p. 80), la quale si costituisce in un sempre rinnovato sforzo per non ridurre l’inoperosità all’immobilità, solamente però in una dimensione individuale anziché comunitaria. Nel saggio di Luca Viglialoro la tensione argomentativa percorre la prima opera estetica di Agamben L’uomo senza contenuto, si estende in modo più o meno implicito alla sua intera opera e si confronta in maniera diretta con Signatura Rerum e con il concetto di paradigma. Viglialoro non si limita però al discorso metodologico, ma interpreta l’intero pensiero di Agamben alla luce di questo concetto, sviluppandone le potenzialità anche nel campo estetico; in questo senso, il procedere analogico di Agamben permette di «pensare l’arte come un’archeologia o una paradigmatologia» (p. 106). Il saggio di Vittoria Borsò instaura infine un approfondito dialogo tra Agamben e alcuni pensatori francesi, tra cui Bataille e Deleuze, le cui idee di soggetto cozzano con quella agambeniana di «soggetto autar­chico»; d’altro canto è proprio da un soggetto inestinguibile che scaturiscono le poten­zialità del kairos messianico come momento emancipativo del soggetto stesso.

Nella seconda parte della raccolta («Il corpo glorioso e i suoi usi») i curatori hanno deciso di dare spazio a riflessioni di più ampio respiro, in cui le tematiche abbandonano lo spinoso campo della serrata critica teoretica per incentrarsi invece su singoli appro­fondimenti di carattere più storico-culturale e teorico-culturale. Tale operazione non limita, ma amplia coerentemente lo spettro d’indagine di Agamben, il quale – lettore di Aby Warburg e Furio Jesi – incontra una florida ricezione nell’ambito della cosiddet­ta Kulturwissenschaft germanofona, i cui tratti sono l’interdisciplinarità, l’accuratezza storica e l’inclinazione genealogica della ricerca, qualità ritrovabili anche all’interno dei saggi contenuti in questa seconda parte.

Thomas Macho, autore del primo saggio – nella sua prima traduzione italiana – ed esponente di spicco della Berliner Kulturwissenschaft, nel cui ambito lo stesso Lucci ricerca da molti anni, traccia una breve storia culturale della separazione tra forme reli­giose civile-razionali e individualistico-private, all’interno della quale Agamben viene annoverato come esponente del cosiddetto «rinascimento paolino». Nella ricerca di Macho, Agamben costituisce una voce inattuale: essa assume le forme di una critica del presente, ma si mostra al contempo nel suo anacronismo, nella misura in cui il filosofo sembra trascurare che la religione non è solo l’esperienza individuale di un soggetto, ma si costituisce piuttosto in «connesse rappresentazioni simboliche della sintesi socia­le» (p. 140).

Gli altri tre saggi che compongono la seconda parte del volume orbitano più chiara­mente intorno a tematiche agambeniane; nella fattispecie essi muovono i propri passi dal lavoro archeologico de Il regno e la gloria per approfondirne specifici aspetti. I «ri­scontri visuali» (p. 146), evocati da Gabriele Guerra, nello spazio della comparazione tra l’altare di Isenheim e i dispositivi teologico-politici di Agamben, presentano degli spunti proficui per la comprensione del suo pensiero. Coerentemente con lo stile agam­beniano, le suggestioni estetiche potrebbero fornire un punto d’accesso privilegiato nella comprensione delle intuizioni del filosofo romano. L’approfondimento sulla lettu­ra agambeniana dell’angelologia medievale abbandona però completamente le sugge­stioni estetiche per dedicarsi ad un confronto più marcatamente filosofico nel saggio di Simone Guidi. L’autore critica l’inclinazione di Agamben a interpretare l’angelologia solamente nel suo significato allegorico, mentre la «perfetta compenetrazione di gover­no, razionalità e natura» della filosofia tomista suggerisce non solo un paradigma politico ma anche uno teoretico, entro cui si forma un «governo non solo glorioso, ma gloriosamente razionale» (p. 169); tale movimento storico apre la strada al raziona­lismo moderno, pagando però il prezzo dell’abolizione dell’escatologia. Infine, il contri­buto di Thomas Skowronek rappresenta un valido approfondimento metodologico sul pensiero di Agamben, spesso accusato di scarso rigore metodologico da esperti delle singole discipline. Skowronek, paragonando Agamben ad un’ape laboriosa che «pre­digerisce i problemi discorsivi e permette la loro digeribilità ricettiva» (p. 192), lo difen­de di fatto da quelle che sembrerebbero accuse di cherry picking, interpretando il suo metodo piuttosto come una «licenza d’astuzia» (ivi), ovvero una maniera economica – e con questo, specifica Skowronek, anche retorica e poetologica – di maneggiare la gene­alogia.

La terza e ultima parte del volume offre una prospettiva più critica, in cui vengono indagati i difficili rapporti di Agamben con la contemporaneità; essi si costituiscono alla soglia tra la necessità di un lavoro storico-archeologico e l’apparente oblio della sto­ricità degli eventi, i quali, nelle ricerche del filosofo, sembrano perdersi nella loro para­digmaticità. In questo senso, il momento più instabile ed esposto a critiche della filosofia agambeniana risulta essere il suo concetto di biopolitica, comune denomina­tore dei quattro saggi che compongono questa parte finale.

Timothy Campbell sottolinea allora – alla luce delle differenze tra Foucault, Deleuze e Agamben – come la biopolitica di Agamben assuma i chiari tratti di una tanatopoli­tica e si chiede quindi in che modo sia possibile armonizzare la prima, eminente dispo­si­tivo neoliberale, con la seconda, il cui esempio più lampante, ma anche più ovvio, è il nazismo. L’autore tenta di rispondere a questa domanda ma ritorna di fatto sul semi­nato agambeniano, in un ambito in cui bio- e tanatopolitica si co-appartengono e in cui Il regno e la gloria risulta – agli occhi dell’autore – come una «personalissima versione della Nascita della biopolitica di Foucault» (p. 227). Federico Luisetti approfondisce invece la funzione biopolitica dello «stato di natura» considerato da Agamben un di­spositivo biopolitico della modernità. L’autore si chiede – e ha tutte le ragioni per farlo – se il pensiero agambeniano non sia più simile ad una «mistagogia rivolta alla can­cellazione dell’orizzonte categoriale della modernità occidentale» che ad un «rischiara­mento del rimosso storico» (p. 235). Luisetti mette quindi in luce come Agamben proponga una reinterpretazione onto-teologica del pensiero di Foucalt, rispetto al quale egli assume i tratti di una «destra foucaultiana» (p. 242). Ad avviso di Judith Revel, invece, non solo Agamben non è semplicemente una versione «di destra» di Foucault ma, come specifica a più riprese nel suo contributo al volume, ne stravolge totalmente i contenuti, destoricizzandoli e quindi privandoli del loro valore specifico. Revel indi­vidua abilmente le differenze tra Agamben e Foucault – l’uno attento ad un continuum ontologico, l’altro alle discontinuità de «L’archeologia del sapere» – ma non sembra riconoscere alcun valore teoretico alle ricerche del filosofo romano, preferendo piut­to­sto accusarlo di revisionismo e appiattendo la critica filosofica su categorie politiche, in cui essa perde parte della sua complessità teoretica. Il saggio di Matias Saidel sembra quasi essere una possibile risposta al saggio di Judith Revel, sebbene esso non ne ri­produca il timbro di serrato confronto. Egli applica le nozioni agambeniane di biopoliti­ca e stato di eccezione allo specifico caso della dittatura argentina. Saidel fornisce da un lato un esempio concreto di come l’utilizzo di paradigmi, e con essi una buona dose di destoricizzazione, possa aiutare a comprendere da una parte le analogie tra due totalitarismi solo apparentemente diversi; dall’altro fornisce l’anello mancante tra le analisi biopolitiche di Agamben e Foucault, vale a dire la maniera con cui la tanato­politica fornisce le condizioni di possibilità per la futura biopolitica neoliberale. Infine il contributo di Silvia Mazzini propone un commento della posizione agambeniana sul concetto kojevano di Impero Latino – ovvero un’idea di Europa alternativa a quella pro­posta nel secondo dopoguerra – e, allo stesso tempo, una possibile base critica per analizzare la sovranità europea.

Al di là delle posizioni e del valore critico dei singoli contributi, il volume Giorgio Agamben. La vita delle forme rappresenta certamente un progresso nell’ambito della formazione di un campo di studi agambeniani, sia in Italia, in cui la ricezione del filosofo sembra necessitare un certo rinvigorimento, sia all’estero per quegli studiosi che, come Agamben e talvolta ‹insieme› a lui, non possono essere profeti in patria.