Il regalo

· Domitilla Pirro ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-C2CE-6

Di notte il mausoleo sembra una torre e basta. Non si direbbe mai che è una tomba.

Intanto che lui lascia l’Appia e svolta per il vialetto del ristorante e accosta l’auto nell’angolo più buio del parcheggio – prima che si volti a salutarmi, prima di scendere a raggiungere i parenti che mi aspettano –, mi viene in mente di raccontargli questa cosa: la tomba di Cecilia Metella serviva a portare lustro e onore alla famiglia di lei, non a celebrarla.

L’ho studiato. Lo so. Invece non gli racconto un cazzo. Sto zitta.

Un po’ perché mi vergogno, non mi va di fare la figura della secchiona. Un po’ per­ché va a finire che secondo lui c’hanno ragione gli altri: col padre che si ritrova, è difficile che disapprovi un’esibizione di potere. Improbabile che parteggi per Cecilia. Sull’opinione di lei, poi, la storia tace. Per cui sto zitta anch’io.

Lo guardo mentre parcheggia. Dice «Micia, eccoci qua».

Penso a quando mi manda sul Nokia i messaggini e scrive micietta con la i, ma non ho mai la forza di correggerlo. Mi scappa da ridere.

Tira il freno a mano e mi passa un dito sopra ai jeans, all’altezza delle ginocchia.

Non rido più. Sarà adesso che pomiciamo?

Lui stavolta non lo dice, sono io che me lo chiedo – a questo genere di parole anco­ra non sono abituata – ed è un’altra di quelle cose che stasera non dirò. Anche in questo caso il problema è la vergogna: qui però non rischio di sembrare troppo intelligente; troppo rinco semmai.

C’ho quattordici anni, santa madonna.

Sta al primo anno alla Cattolica, lui.

Stiamo insieme da sei mesi.

Ha la lingua viscida, sa di canditi. Dev’essere il gelato che abbiamo preso per me­renda.

Dopo un po’ che ci mangiamo le bocche, i vetri si appannano.

Penso che farò tardi. Penso ai regali che stanno in fondo al tavolo del ristorante. Me li figuro, nastri e tutto. Cerco di cacciare indietro l’immagine. Mi godo la tachicardia che un po’ è terrore e un po’ no. Me ne accorgo.

Mentre lo penso, lui fa una cosa che ha già provato a fare un paio di volte da quando stiamo insieme: mi prende una mano e se la piazza al centro dei pantaloni.

Ritiro il palmo come se il metallo della zip m’avesse ustionata. Sento uno spasmo all’altezza dello sterno. Rido e continuo a baciarlo.

Passo la punta delle dita sul suo ginocchio. Faccio camminare l’indice e il medio. Sal­go fino ai passanti della cintura.

Tra i denti dice «Un bacetto. Me lo dai un bacetto?», ma non sono sicura di aver capito; un po’ perché abbiamo entrambi il fiatone – fatico a distinguere le parole –, un po’ perché ci stiamo già baciando di brutto.

Lui mi riafferra la mano. Mi spinge la testa in direzione della punta tesa delle mu­tande e penso solo all’odore di detersivo e al fatto che non voglio toccare la pelle. Non ancora. Magari la prossima volta. Oggi no. Poi mi prende la testa un’altra volta.

Io mi muovo al rallentatore.

Mi viene in mente mia nonna e non capisco subito perché.

Poi penso alle facce di famiglia che mi aspettano, al di là del finestrino e del parcheg­gio e dell’ingresso del locale. All’espressione che farò quando vedrò le loro. Alla bocca da appoggiare sulle loro guance.

Non riesco a muovermi.

Non riesco a fermarmi.

Non riesco a parlare.

Sto zitta un minuto, un minuto e mezzo – tra i sessanta e i novanta secondi. Sto zitta spesso, nell’arco di dieci anni. Poi non sto zitta più.

Sono le cinque e venti. Il sole tramonta alle sei. Perciò usciamo. Ci lasciamo il casale alle spalle e pigliamo di petto la salita.

Dietro abbiamo il cortile, i vasi di cotto, la pianta coi fiori arancioni che sembrano di cera; davanti c’è un pendio di fango secco, friabile, dove le scarpe di tela affondano fino alle caviglie.

I primi trenta o quaranta metri ce li facciamo senza parlare. Poi io riattacco con l’estate, potremmo andare potremmo stare. Lui sorride in silenzio, ha le fossette. Io glielo faccio notare. Provo a toccargli una guancia. Si scosta il ciuffo di capelli dalla faccia, abbottona i capelli dietro le orecchie. Non è ancora sudato e non suderà.

Quando arriviamo agli ulivi allarghiamo i polmoni tutti e due.

Lui parla del tirocinio, del primario. Della raccomandazione di suo padre che però non è una raccomandazione. Io voglio vedere il cantiere alla fine degli alberi. Lui cerca di distrarmi. Non ci riesce quasi mai. Il cielo è giallo. La luce spalma tutte le ombre.

Nello spiazzo intorno alla villetta ci sono sacchi di cemento e assi fradice.

Io chiedo di salire in queste stanze senza porte né finestre. Voglio sapere che vista c’è dalla terrazza che verrà. Lui si avvicina a un albero storto, riccio di foglie. Lui dice «Ti somiglia». Ci affonda la mano dentro e la ritrae. Mi tende una piccola pera perfetta. Gli dico che è uguale a quelle che mio nonno portava dalla campagna: frutti selvatici, asprigni. Assaggiamo entrambi. Ne mordiamo due diverse. Ognuno la sua. Mai stati bravi a fare il contrario. Lanciamo i torsoli verso gli ulivi e ci torna in mente qualco­sa che abbiamo imparato al campeggio da ragazzini. Offriamo gli avanzi a un animale che non c’è. Urliamo «Magna, cinghia’!».

Ci guardiamo con la bocca piena, mi pare che ci sorridiamo meglio. Ci baciamo un po’.

Entriamo nella palazzina in costruzione tenendoci per mano. Le dita sono appicci­cose. Non ho niente per pulirle.

Ci fermiamo al piano terra, in quello che sarà un ingresso o una sala da pranzo. Davanti a noi una scala che sale. Mi volto e allungo una mano verso la sua cintura dei pantaloni. Lui mi tiene per le braccia, mi mantiene a distanza. Ridiamo.

Io insisto, «I bacetti». Lui è netto, «Qui no adesso no».

Saliamo. Dal balcone della mansarda futura l’Agro Pontino si vede poco, c’è foschia.

Penso che non mi sono ancora iscritta all’appello di amministrativo due. Penso che ripetere tutto in quindici giorni è impossibile pure per me. Cerco di respingere il pen­siero, allora faccio quello che faccio sempre. Penso alla prima notte di nozze. Me la im­ma­gino in questa casa che ancora non esiste. Penso al dolore che forse proverò. Penso agli alberi carichi che saranno bellissimi. Penso alla tavolata lunga e sola che vorrei e che so che è impossibile. Penso alla livrea dei camerieri che suo padre sceglierà per soc­correre i colleghi con le oxford sporche di terra.

Penso al fatto che nessuno mi consentirà mai di sposarmi scalza.

Apro la bocca e la richiudo.

Quando gli chiedo se ha poi parlato con i suoi dice «Dio però, ti ho detto dopo giu­gno», e si gira verso le scale.

Penso a Dio.

Penso alla parola scopare. Penso di nuovo a come sarà farlo per la prima volta. Penso a quando gli ho detto che era passato abbastanza tempo; che me la sentivo, che secondo me potevamo. Penso a quando ha risposto «Non sei ancora cristiana abba­stanza».

Quando torniamo giù nello spiazzo il sole non sta più da nessuna parte.

Io starnutisco, lui dice «Papà te l’aveva detto che serviva il giacchino».

Torniamo al sentiero di fango. Passiamo accanto a un cancello che all’andata non abbiamo notato. Sopra c’è appeso qualcosa. Non capiamo subito cosa, e ce lo diciamo con molte esclamazioni. Ripetiamo «Che roba è? Che è?», e intanto ci accostiamo al muro di cinta.

A una delle sbarre è legato un sacco di iuta. L’imboccatura è chiusa con diversi giri di spago. La parte inferiore poggia a terra. Il sacco sobbalza e ronza. Vibra.

Io subito dico «Stronzi».

Lui dice «Chi?».

Io faccio per prendere il sacco, ma lui mi tira via la mano. «Che fai, che ne sai.». Dice «Aspetta».

Io dico una cosa tipo «Saranno gattini, che senso ha?» e ripeto «Stronzi» molte volte.

Lui non vuole che io tocchi il sacco. Non vuole nemmeno farlo lui. Non vuole che nessuno tocchi niente. Mai, tipo.

Io dico «Cacasotto» a voce bassissima. Lui sente e s’incazza.

Salta il tappo, non so come. Non ricordo le parole.

Anche adesso che ricordo questo ricordo, anche adesso che mi ricordo del sacco e degli ulivi e della casa in costruzione, e dei frutti aspri e dei baci, e del pompino rifiutato con garbo, non ricordo le parole del tappo che salta e del litigio che ci cambia la voce eppure non la cambia come fosse stato sempre lì, il litigio, come se tutte le parole fino al momento prima dette e scritte e anche solo pensate – anche solo pensate – fossero state comunque il litigio, un unico litigio, il litigio durato un’adolescenza intera: quello con la persona che t’insegna a fare i pompini e a chiamarli bacetti, ma crescendo non li vuole quando glieli offri tu. I regali sono altri.

Mentre gridiamo io faccio un passo e un altro passo verso il sacco. Tiro fuori dalla ta­sca un mazzo di chiavi mentre lui si strofina una mano sulla nuca. Strappo lo spago che strozza l’apertura. Lo faccio da sola.

Quel che ne esce è un regalo. Un regalo vivo. Un fagotto grigio a macchie bianche. È più grande di un gatto e finisce e ricomincia. Due fagotti, quindi. I regali sono due. Sono di piume e non di pelo questi gatti impossibili, penso. E infatti smottano fuori dal sacco e non si ricompongono subito in qualcosa che io possa comprendere. Si aprono, si allar­gano. Prendono un bel pezzo di spazio sul fango e poi volano – volano! – volano.

«Micetta?», dice lui mentre si avvicina. E io lo so che abbiamo buttato al cesso – al cielo – i tributi di caccia offerti a suo padre. E io lo so che, anche mentre mi chiama, sta pensando alla parola micietta con la i. Lo so e per questo rispondo. Dico «Qui no». Dico «Adesso no».