Distruggere i ponti?
Note su due romanzi di Ismail Kadaré e Carlo Repetti

· Alberto Giorgio Cassani ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-CA8C-8

C’è un disegno, a penna e acquerello, dell’enigmatico, eccentrico e inclassificabile archi­tetto ‹di carta› Jean-Jacques Lequeu (1757–1826), [Fig. 1]1 che ritrae un Paesaggio con ponte e rovina, [Fig. 2] databile tra il 1777 e il 1824 e conservato nel Département d’Estampes et Photographie della Bibliothèque nationale de France a Parigi.2 Un al­tro, assai più tradizionale, presenta un ponte in pietra ad archi che conduce a un borgo [Fig. 4]. Appartenendo al genere dei capricci non possiamo stupirci troppo di un’evi­dente stranezza: in primo piano, appena un po’ davanti al frammento superstite di un acquedotto romano, troviamo un piccolo ponte in pietra, mezzo affondato nel terreno, che non conduce il viaggiatore sull’altra riva, bensì … direttamente nell’acqua. In pri­missimo piano, inoltre, è attraccata una barca di pescatori che sembrerebbe svolgere anche la funzione di traghettare i viandanti dall’una all’altra sponda. Il tema del ponte è caro a Lequeu, dal momento che ha disegnato almeno altri sette ponti, alcuni molto particolari (ma perché meravigliarcene, conoscendo l’autore?): il Ponceau, ou pont de l’arche [Fig. 5], piccolo ponte in pietra a schiena d’asino; il solenne Pont des Philo­sophes (1785) [Fig. 6] che conduce agli Champs-Élysées, ornato dalle statue di Socrate, Catone, Demostene, Licurgo, Platone, Attilio Regolo, Bruto e Furio Camillo; il Ponceau de la grande ravine (1791–1795) [Fig. 7] – una sorta di minuscolo ponte pedonale pri­mitivo, le cui pile sono semplici tronchi d’albero e i cui parapetti sono sottilissimi rami incurvati; il Petit pont de bois de la carrière de pierre [Fig. 8], una riproposizione di una tipologia palladiana di ponte ligneo3; un altro solenne Pont Egïptien [Fig. 9] con le sfingi al posto dei filosofi e i geroglifici sui fianchi dell’impalcato; infine, due ponti ro­mani, tratti, come sembra, da due monete antiche: un Pont antique appellé pont d’Auguste, in cui l’immenso arco trionfale non potrebbe in alcun modo essere retto dal­le pile sottostanti del ponte [Fig. 10] e un sincretistico Pont antique d’Œlius sul Tevere, in cui, su altissime colonne doriche, sono collocate le statue di alcuni «Apôtres de la révolution» [Fig. 11]. Infine, esistono tre disegni a penna nera di tre esecutivi di ponti in legno, questa volta sì realizzabili (o realizzati): rispettivamente un ponte girevole per Havre [Fig. 12], uno studio di ponte «à palée simple» [Fig. 13] e un ponte girevole per una chiusa del canale d’Honfleur progettato a Villequier, in Normandia [Fig. 14]. Come si vede, il ponte è un manufatto che, testimone Lequeu, si manifesta secondo forme diversissime tra loro, pur avendo come principale e apparentemente unico scopo di col­legare, di superare un ostacolo. O quantomeno quello che all’uomo appare come tale. La natura, infatti, lo sappiamo, è del tutto indifferente a tali questioni.4 Ma ritorniamo per un momento al primo disegno. Il messaggio che Lequeu sembra volerci trasmettere è che le opere dell’uomo sono soggette al tempo distruttore e che la vitruviana utilitas deve soggiacervi, prima o poi. L’acquedotto non conduce più l’acqua potabile agli abi­tanti della città e il piccolo ponte non svolge più la sua funzione primaria di collegare due rive. La natura ha fatto valere la legge di gravità sul tentativo dell’uomo di sfidarla, così come ha reso vano lo sforzo dei costruttori di ponti (di là, come detto, dall’appar­tenenza a un genere fantastico come il capriccio che rende il tutto soggetto all’inventio fantastica di Lequeu.

Molto si è detto sui ponti e chi scrive, da parte sua, ha dedicato a questo inesauribile tema diversi studi. Sarebbe dunque superfluo, e ripetitivo, citare di nuovo i nomi dei filosofi che nel Novecento hanno dedicato fondamentali riflessioni a questo tema, da Georg Simmel a Martin Heidegger; o tirare in ballo, di nuovo, il meraviglioso racconto di Franz Kafka Die Brücke del 1916, o il romanzo più celebre dedicato a un ponte, Na Drini ćuprija: Prvo izdanje (1945) di Ivo Andrić5. Per questo motivo, ci dedicheremo qui a due autori meno sfruttati che hanno eletto un ponte al centro di due loro impor­tanti romanzi: Ismail Kadaré, celebre poeta e scrittore albanese, uno dei massimi intellettuali dell’Europa dell’est della fine XX inizio XXI secolo, e Carlo Repetti, dram­maturgo e direttore teatrale genovese. Nell’affrontare i loro due testi, Le pont aux trois arches del 19816 e Il ponte di Picaflor del 20157, esamineremo alcuni dei temi centrali che riguardano quella costruzione così necessaria e così pericolosa che è il ponte.

Il ponte a tre archi, in qualche modo, si ricollega alle atmosfere del Ponte sulla Dri­na.8 Come Andrić, Kadaré appartiene a quel mondo balcanico che da sempre ha dovuto fare i conti prima col ‹pericolo› turco e in seguito con la dominazione ottomana. Se Il ponte sulla Drina è stato costruito dai turchi, il romanzo di Kadaré è tutto giocato sulla presenza, ai confini, di questo ingombrante vicino. Se Il ponte sulla Drina è il testimo­ne di quasi mezzo millennio di storia, impossibilitato a donare alcuna speranza di pace ai due mondi che collega, altrettanto cupa è l’aria che si respira nel romanzo dello scrit­tore albanese, che, in più, si rifà al mito e alle leggende dell’Europa dell’est, messe in luce per la prima volta da Anita Seppilli nel suo basilare studio sulla Sacralità dell’ac­qua e sacrilegio dei ponti9. La studiosa italiana vi ricordava in particolare le leggende dell’Europa balcanica, che avevano come tema il sacrificio umano a compensazione del delitto compiuto nei confronti delle divinità fluviali.10 Anche Kadaré ne fa il tema cen­trale del suo libro. Fin dall’inizio, la costruzione del ponte a tre archi è un atto di sfida all’Uyana maledetta, l’immaginifico fiume protagonista del romanzo. Sorella minore di Madre Ganga – soprannome con cui gli indiani chiamano il sacro fiume Gange, e pro­tagonista di The Bridge-Builders (1893)11, racconto seminale di Rudyard Kipling incen­trato sul confronto tra sacralità dei miti di fondazione e indifferenza, rispetto a essi, della tecnica – l’Uyana per secoli è stata solcata soltanto dal battello del traghettatore. La strada, la romana via Egnatia, ora «dei Balcani», prolungamento sul suolo Egeo della via Appia, era rimasta per secoli interrotta dalla presenza del fiume. Tutto il ro­manzo è giocato nel 1377, con le sfumature di un giallo ambientato nel medioevo albanese, tra credenza nel soprannaturale e dubbi su piani segreti dovuti a meri motivi economici. Il protagonista, Gjon Ukshama, monaco ortodosso di un monastero alba­nese, si dibatte ‹tra queste due sponde›: tutto ciò che accade è frutto dell’antico divieto di interferire col libero scorrere delle acque da parte dei sacrileghi piloni del ponte, oppure risultato di un disegno molto più banalmente umano legato a mera volontà di potenza? Il luogo prescelto per l’edificazione del ponte è dovuto all’attacco di epiles­sia dello sconosciuto viandante, o questi è semplicemente al servizio della compagnia che vuole costruirlo? È un presagio, come sostiene il «veggente girovago»12? – «È un segno dell’Onnipotente, e ci annuncia che qui, su queste acque, bisogna costruire un ponte»13 –, o una macchinazione per nascondere soli interessi economici e mettere fuo­ri gioco l’attività della compagnia «Traghetti e Zattere»14?:

E d’improvviso, guardandoli allontanarsi, s’insinuò nella mia mente, come un nero scarabeo, il sospetto che l’epilettico della riva, il veggente girovago che si era trovato al suo fianco e quei due funzionari dalla veste attillata fossero tutti al servizio e al soldo dello stesso padrone.15

Kadaré la definirà una «disputa tra terra e acqua»16, l’eterna lotta tra Land und Meer, avrebbe detto Carl Schmitt17. Un ponte, quello sull’Uyana, che si rivela un’eccezione rispetto a tutti i suoi predecessori, semplici ponti di legno che

una volta terminati, avevano assolto il loro compito senza dar adito a chiacchiere fino al giorno in cui erano stati travolti dalle acque torbide, o inceneriti dal fulmine o, peggio ancora, avevano rag­giunto un tale stato di vetustà che i viaggiatori, dopo un primo passo sulle assi marcescenti, esitava­no a compiere il secondo e se ne tornavano indietro mettendosi a cercare nei pressi un traghetto o un guado per attraversare il fiume.18

In cosa consisteva, dunque, questa eccezionalità? Nel cercare di essere eterno, grazie al materiale: «[…] un ponte di pietra, con più archi e un solido piano stradale pavimenta­to, forse il primo ponte di tal fatta sull’intero territorio di Arberia».19 Giocando ancora sul tema del sacrilegio, Kadaré scrive che la notizia della costruzione del ponte fu accol­ta «con gioia e timore insieme»20: da un lato la felicità di poter fare a meno del tra­ghettatore – un ricordo di quello infernale? – e di poter far leva su un manufatto «[…] pronto a stendervisi sotto i piedi col suo dorso di pietra, senza traballare e senza fare storie»; dall’altro il timore che «[n]on era cosa facile mettere un basto a una mula om­brosa»21. In prima fila, tra questi dubbiosi, la «vecchia Aikuna», acerrima nemica del ponte: «Questo ponte, disse, è la schiena del diavolo, e maledetto sarà colui che oserà calpestarlo».22 Ed è del tutto superfluo qui accennare al tema medievale dei ‹ponti del diavolo› [Fig. 15], al centro delle credenze popolari dopo che era stata smarrita la conoscenza diffusa delle tecniche di costruzione dei grandi ponti romani.23 Dello stesso avviso l’inviato di «Traghetti e Zattere», ma qui, più che la convinzione, prevale l’inte­resse di parte: «Egli disse che quel ponte di pietra sarebbe stato la prima sventura lan­ciata brutalmente sul libero spirito delle acque»24. Sembra che la costruzione del ponte scateni istinti di morte e il versamento di sangue umano, dal momento che l’espres­sione usata dagli inviati di «Traghetti e Zattere»,

Impedite [sc. la costruzione del ponte], rivolta al conte Stres di Gjika, signore di Arberia, pareva invece nascondere: uccidete, sgozzate, fate a pezzi, così che gli uomini non pensino più a costruire ponti su questa terra per almeno quaranta generazioni.25

Anche il costruttore del ponte a tre archi, nel suo aspetto fisico, ha qualcosa a che fare col diavolo costruttore di ponti:

Era un uomo dai capelli rossi, ricciuti e scarmigliati, il viso tempestato di lentiggini e occhi che parevano voler impedirvi di fissarlo. Il lampo maligno che vi riluceva non appena se ne incrociava lo sguardo metteva subito a disagio.26

Dell’essere demoniaco ha la caratteristica di scomparire e riapparire dal cantiere senza che nessuno se ne accorga.27 E anche i suoi aiutanti non sono da meno.28 Come ogni opera infernale, la costruzione appare portatrice di caos e disordine nella pace della na­tura – accanto alla riva fa la sua apparizione «un coacervo di assi, pali e ogni sorta di utensili»29 – e che da quel caos potesse nascerne un ponte «sembrava la cosa più inve­rosimile del mondo»30. Il cantiere del ponte, come tutti i cantieri, sporca e ferisce la terra: «[…] nel luogo in cui doveva sorgere il ponte, tutto divenne brutto e sporco»31. La preoccupazione di non ferire la terra è centrale nella realizzazione dei ponti e delle autostrade del terzo Reich, come scrive l’architetto Paul Bonatz, parlando qui anche a nome di Fritz Todt, ingegnere militare, responsabile del progetto a livello generale:

La cura con cui è stata trattata la madre terra testimonia significativamente del riguardo usato nei confronti della natura e del suo lento processo di crescita. Fin dall’inizio, il primo lavoro è stato la sollecita rimozione dei rifiuti, la ricomposizione tettonica e la concimazione del terreno ai lati della carreggiata, con il risultato che, a un anno dal suo completamento, nella terra non si scorgeva più alcuna ferita, e tutto era ricresciuto in modo assolutamente naturale, come se la strada fosse stata costruita già da molti anni.32

Ma tale distruzione del terreno circostante implica un delitto ancora più grave. Come mormorano i cantastorie venuti da «chissà dove [...] Cosa accadrà, se qualche fata o qualche genio sono periti in questo sconvolgimento?»33 Il territorio di Arberia, alla fine del XIV secolo, è ancora tutto pervaso di genius loci. In un luogo in cui il bello è ancora il buono, l’imbruttimento causato dai lavori di scavo delle fondazioni del ponte è im­magine del male:

Il fiume imbruttiva sempre più. Ora ricordava un’anguilla marcescente, e nessuno si sarebbe stupito se da un momento all’altro avesse cominciato a puzzare. Indipendentemente dai mali che il fiume aveva causato nel corso del tempo, la gente cominciava ad averne pietà.34

Di fronte a tale scempio, si alza alto il grido della vecchia Aikuna, rappresentante della voce della tradizione e della credenza nel mito: «Come hanno osato uccidere il fiume? […]. Come hanno potuto scorticarlo vivo? […] Ti hanno ucciso nel sonno, misero, ti hanno trovato inerme e ti hanno fatto a pezzi!»35 E Aikuna lancia una maledizione nei confronti del mefistofelico costruttore: «Verrà giorno in cui il fiume si vendicherà […]. Si colmerà di nuovo d’acqua e ritroverà le forze, si gonfierà e comincerà a ringhiare. Allora dove andrete a ficcarvi, eh? Dove? […] Allora dove ti ficcherai, tu, anticristo?»36. Ma tali maledizioni, come vedremo, non sortiranno alcun effetto, com’era avvenuto anche nel racconto di Kipling: l’ira di Madre Ganga si era rivelata, alla fine, impotente di fronte alla tecnica dell’uomo bianco.37 Nel frattempo, in attesa della vendetta del fiu­me, altro sangue era stato versato, a riprova del sacrilegio in atto: «Un muratore era annegato dentro la fossa della calce, altri due erano stati mutilati dall’argano […]».38 Ma il sacrificio finale è ancora di là da venire. Alla prova dei fatti, così com’era accaduto col grande ponte di Kashi costruito dall’ingegner Findlayson del racconto di Kipling39, anche il ponte sull’Uyana resisterà alla vendetta tentata in autunno dal fiume, quando la portata delle acque, a causa delle piogge, ne gonfierà il letto: l’acqua «[s]i abbatté sul ponte frontalmente, arretrò, lo assalì sulla sinistra, sboccò sulla destra, schiumò rabbio­samente per un po’ ai suoi piedi, ma senza riuscire a far tremare le spalle di pietra.»40 A differenza di Findlayson, preoccupato in una notte da tregenda che i suoi calcoli fos­sero travolti dall’impeto del Gange41, il costruttore del fiume sull’Uyana, «ritto sulla piccola passerella di tavole che congiungeva i due pilastri, intento a osservare attenta­mente il corso tumultuoso dell’Uyana maledetta», sembrava ad alcuno degli astanti, addirittura ridersela. Il riso diabolico di chi sa che non accadrà nulla al ponte. Inutile la rabbia del fiume, la cui acqua mista a «un fango argilloso, sembrava insanguinata». Il ponte appare alla gente del posto, riunita per vedere lo spettacolo della furia del fiume, come tre «denti di pietra conficcati sulla […] schiena» dell’Uyana. E, nonostante due settimane di continui attacchi, alla fine, «il ponte non subì alcun danno»42. Nonostante ancora qualche vittima sacrificale – un operaio ubriaco43 e un annegato44 – la tecnica, che sia del medioevo o del secolo delle magnifiche sorti e progressive, aveva dimostrato di essere più forte di qualunque sacrilegio.

Malgrado ciò, alcuni ancora credevano nella vendetta di naiadi e ninfe.45 Il fiume, in­tanto, gemeva, o così almeno appariva alle orecchie degli abitanti dell’Arberia dal momento che gli avevano messo «la gogna al collo»46, come aveva fatto, molti secoli prima, l’arrogante Serse, nei confronti del sacro Ellesponto e, per questo, teste Eschilo, era stato punito dagli dèi.47 Ma accade qualcosa che sembra dar ragione a questi au­spici. Una notte il ponte viene danneggiato in più punti: «I piloni centrali, le spalle e so­prattutto l’arcata appena terminata recavano, inspiegabili, come delle scorticature provocate da artigli»48. E qui non si può non ricordare il racconto dell’anziano imam Alihodža, del romanzo di Andrić, in cui si narra come il demonio, irritato dalla bellezza del creato, avesse graffiato con le sue unghie la terra «piatta e liscia come un bel vas­soio»49, creando «fiumi profondi e […] gole». Ma mentre qui il ponte risarcisce quelle ferite unendo ciò che il diavolo ha separato, nel romanzo di Kadaré è il ponte a essere opera demoniaca e i fiumi, invece, creazioni di dio. Quei graffi riescono a far «tremare di spavento»50 persino il capomastro. Torna di nuovo l’ambivalenza: è stato il fiume «a mutilare il ponte»51 o qualcosa di più umano? Lo si scoprirà presto. Ma prima vi so­no altri attacchi al ponte con lo strappo di grosse pietre dai piloni, tanto che comincia a circolare la diceria «che quel ponte doveva essere distrutto, prima che fosse troppo tardi»52. Si affaccia qui l’idea che abbiamo riassunto nel titolo e che ritornerà anche nel secondo romanzo che tra poco affronteremo. In tutto questo sembra aver buon gioco la posizione contraria al ponte della vecchia Aikuna. Prendendo spunto dalla curvatura della postura del capo delegazione dei proprietari del ponte venuti a visionare quanto accaduto, la vecchia ammonisce:

Guardate come il buon Dio ha piegato quel maledetto […]. Allo stesso modo curverà tutti coloro che cercheranno di costruire dei ponti. Li curverà come i ponti stessi finché la loro testa non tocchi i pie­di, perché i nostri vecchi non hanno detto invano al diavolo: possa divorarti i piedi da solo!53

Ma dal colloquio tra la delegazione e il conte emerge un’altra verità: «Ci sono persone che vogliono demolire il nostro ponte. […] Il nostro ponte non è stato danneggiato dai geni delle acque, come si va cianciando, ma dagli uomini.»54 A questo punto il discorso del delegato volge verso l’idea di un «delitto», corretto subito in «castigo»55, che va compiuto. E qui apriamo una piccola parentesi. Il capitolo 29 parla quasi di una ricon­ciliazione tra fiume e ponte, anche se del tutto particolare. Infatti,

a ben guardare, ci si accorgeva che l’Uyana maledetta non rispecchiava più l’immagine del ponte. Anche quando a tratti le sue increspature si spianavano e diventava più limpida, lo rifletteva soltan­to in modo vago, come se la cosa che si drizzava su di essa non fosse un ponte di pietra ma un fan­tasma o l’angoscia di uno spirito inquieto.56

L’esatto contrario del dipinto di René Magritte Le pont d’Héraclyte del 193557, [Fig. 16], in cui le acque appena increspate del fiume riflettono una metà del ponte che in realtà non si vede più, nascosto, così sembra, da una nube. E ritorna ancora una volta lo scon­tro terra–acque: «L’acqua non dimentica mai, dicevano i vecchi. La terra sì che è ge­nerosa; l’acqua no».58

Il capitolo seguente è quello che più si avvicina ai temi trattati nel suo libro da Anita Seppilli. Il monaco Gjon, infatti, fa la conoscenza di un membro della missione dei costruttori del ponte che si rivela un raccoglitore di «favole e usanze del passato»59, e il monaco è sul punto, per un attimo, di chiedergli quale rapporto ci sia fra questi rac­conti e la costruzione di ponti. Naturalmente, per chi ha letto il libro di Seppilli, tutto ciò è chiarissimo. Un legame stretto e profondo esiste tra racconti tradizionali e edifica­zione dei ponti. Ma, subito dopo, parlando di leggende, i due evocano quella che narra come «[u]n muro, per non crollare, ha bisogno di un sacrificio»60. A questo punto l’uo­mo, quasi gridando, ripete: «Un sacrificio! […] Un muro che pretende un sacrificio … È la leggenda del murato, o mi sbaglio? […] Un muro che cerca di fagocitare un essere umano nelle sue viscere … che desidera, se così posso dire, dotarsi di un’anima …»61. E il monaco, allora, racconta la leggenda della cittadella di Shkodër (Scutari) dei tre fra­telli che dovevano costruire un muro. Quello che di giorno era edificato, di notte veniva demolito. Fino a che un vecchio saggio non svelò il mistero: «[…] la costruzione, per stare in piedi, domandava un sacrificio»62. E, come nelle leggende edilizie raccolte da Seppilli, in particolare nell’area slava e rumena63, i tre fratelli decisero di «murarvi una delle loro mogli»64. Il sacrificio, in seguito, passerà dall’uccisione di un essere uma­no a un animale, infine a un simulacro. E ancora oggi, a volte, in occasione della ceri­monia di posa della prima pietra di un edificio di una qualche importanza, si ricorre a monete o a targhe, lontano ricordo di quel sacrificio cruento. La discussione che segue sulla possibilità reale che qualcuno possa essere murato vivo in un muro porta a ri­cordare la maledizione della moglie più giovane, vittima finale e innocente dei raggiri compiuti perché fosse lei la predestinata: «Possa questo muro tremare / così come io tremo in questa pietra»65. E alla domanda del monaco: «[…] siete un raccoglitore di leggende o un costruttore di ponti?»66, l’uomo risponde:

Non ho niente da spartire con i costruttori, ma, studiando accanto a gente del mestiere, ho imparato un bel po’ di cose. In effetti, i grandi edifici somigliano tutti a dei delitti e, inversamente, i delitti hanno qualcosa in comune con le costruzioni […]. Per quel che mi riguarda, io non ci vedo grandi differenze. Ogni volta che mi trovo davanti a un colonnato, mi sembra di scorgere degli schizzi di sangue sul marmo, e una persona assassinata può benissimo tener luogo di cattedrale.67

Qui si rimanda a un altro libro che fa da pendant a quello di Seppilli: The Lost Meaning of Architecture. Speculations on Ornament from Vitruvius to Venturi di George Her­sey68, che, del problema del tempio come altare del sacrificio, racconta tutte le possibili implicazioni. Le elucubrazioni del raccoglitore di leggende che, come in un racconto di Kafka o di Borges, cerca di trovare nuove spiegazioni alla leggenda dei tre fratelli, met­tendo in dubbio la sacralità che ne è alla base e in cui il monaco crede fermamente – «che ogni lavoro od ogni grande azione richiede sacrificio, che tale idea è grandiosa ed è parte integrante della mitologia di numerosi popoli»69 – spingono il monaco a voler controbattere a queste sue illazioni, ma l’uomo, il giorno seguente, scompare per sem­pre.70

Illuminante è anche l’unico colloquio che il monaco tiene col capomastro. Quest’ulti­mo aveva notato alcuni segni che mostravano, secondo lui, la «nascita di un mondo nuovo» e la «morte dell’antico»: tra questi, oltre all’apertura di nuove banche, al molti­plicarsi dell’usura, all’accettazione della moneta di conto del ducato veneziano, all’in­tensificarsi delle carovane e delle fiere, ‹soprattutto› la «costruzione di strade e ponti di pietra»71. Inoltre il capomastro confida al monaco che «di tutte le brutture che afflig­gono la faccia della terra, nessuna è mai stata e mai sarà in grado di superare in orrore quella dei ponti-cadaveri»72. Questi non sono altro che dei «nati morti e dei morti vi­venti». Lui stesso ne aveva costruiti e «[s]e mai gli fosse venuta voglia di darsi la morte […], si sarebbe impiccato a uno di quei ponti». Si trattava di ponti ‹inutili›, ponti, cioè,

gettati non su torrenti o su precipizi e dunque unenti due sponde per i bisogni dell’uomo, ma co­stru­iti nel bel mezzo di una pianura e la cui sola funzione era quella di fornire un luogo ameno alle grandi dame che, la sera, andavano a contemplare l’orizzonte o vi portavano a passeggio i loro ospiti.

I ponti sono diventati di «moda», aggiunge il capomastro, tanto da essere usati come «balconi e verande». Ecco perché, e con ciò termina la sua ‹lezione›, indicando il luogo dell’incompiuto ponte sull’Uyana, «un ponte come questo, quand’anche dovesse essere innaffiato di sangue, è mille volte più utile di quelli»73. In questo discorso tutti i temi del sacrilegio del ponte vengono a chiarificarsi: il sacrilegio che richiede un sacrificio è mille volte più necessario di un ponte che non svolge più la sua archetipica funzione di collegare ciò che in natura è diviso; dunque i ponti senza necessità, i ponti gingilli, i ponti costruiti per capriccio sono, in realtà, i più sacrileghi fra tutti. Le vicende del pon­te, da questo momento in avanti, procedono verso la loro inevitabile conclusione; per terminare il ponte occorre un sacrificio: «Venga qualcuno che accetti di sacrificarsi ai piedi del ponte, cantavano i rapsodi». Un capro espiatorio che

si sacrifichi per il bene delle migliaia di viaggiatori che passeranno su questo ponte estate e inverno, sotto la pioggia e nella tormenta, diretti verso la gioia o la sventura, infinita moltitudine umana che sfilerà nei secoli a venire …74

E la vittima tanto attesa si materializza nei panni del povero Murrash Zenebische, uno degli operai che lavorano alla costruzione del ponte. Il monaco non sa darsi pace di questo gesto e chiede ai familiari ragione di ciò (bisogno di soldi ecc.). Da quel momen­to i muri – significativamente citati nel celebre aforisma del predicatore Isaac Newton75 come opposti ai ponti nel loro impedire quel passaggio che invece questi ultimi favori­scono – diventano l’ossessione del monaco che si accorge di quanto essi siano pervasivi nel mondo:

I muri in genere mi spaventavano, e io mi sforzavo quanto più potevo – e invano, naturalmente – di non guardarli. Soltanto allora capii quanto e quale grande posto occupino i muri nella nostra vita. Non si può sfuggirgli, così come non si può sfuggire alla propria coscienza. Avevo un bell’uscire dal monastero: fuori, vicino o lontano, incontravo sempre qualche muro.76

A questo punto forse poco importa che il monaco non creda alla volontarietà del gesto di Zenebische, e invece sia convinto del fatto che il poveretto sia stato ucciso dai co­strut­tori perché avevano scoperto che era stato lui, al soldo di «Traghetti e Zattere», a sabotare per ben due volte il ponte. Importa poco di fronte alla scena dello scoprimen­to del ponte. Perché, nonostante tutto quanto si è detto finora, nonostante i tanti morti, le vittime sacrificali, nonostante tutti gli anatemi della vecchia Aikuna, quando il ponte, una mattina, viene liberato da tutte le impalcature che lo nascondono, appare «come sorto dal fondo dell’abisso»77, «abbagliante, inaspettato, come un grido muto, un cervo in trappola […] bianco, spoglio»78. Kadaré, qui citato nella congeniale traduzione ita­liana, si avvicina alla prosa perfetta di Kafka:

Si lanciava arditamente sul vuoto, si stirava, sembrava prendere lo slancio e, appena varcata la metà del letto, si lasciava ricadere in un volo arcano, curvava leggermente la schiena e andava a toccare l’altra sponda con la fronte. Era bello come una visione da sogno.79

E, dopo Kafka, l’autore sembra sottoscrivere il significato del ponte per Heidegger80:

Così scagliato in mezzo all’ostilità della terra e delle acque, pareva destinato a conciliare gli elementi che lo circondavano. Le creste schiumose delle onde si mostravano già più bendisposte nei suoi confronti, come pure i melograni selvatici delle colline di fronte e due nuvolette all’orizzonte. Tutto cercava di uniformarsi alla sua presenza.81

Nemmeno l’arci-nemica del ponte, la vecchia Aikuna, riesce a maledirlo: «La sua vista mi ha pietrificata, disse».82 Se la bellezza del ponte è capace di annichilire ogni nemico, come sosteneva anche Leon Battista Alberti della bellezza dell’architettura in gene­ra­le,83 il ponte sull’Uyana è ancor più, forse, un segno che il mondo sonnolento dell’Arbe­ria sta per essere spazzato via dagli eventi. I cavalieri turchi che tentano di attraver­sarlo e sono per il momento respinti dai soldati del conte non sono che un cupo presa­gio di cosa attende la regione. Il ponte è bagnato per la seconda volta da sangue umano. Anche se «turco […] somigliava al nostro»84. Nel finale torna il paragone – per ben due volte – tra ponti umani e il loro archetipo celeste, l’arcobaleno [Fig. 17]85. Kadaré, qualche pagina prima, aveva espresso tutta la sua empatia nei riguardi della figura del ponte:

A volte mi dico che, se il ponte avesse una coscienza, anziché rallegrarsi della nostra presenza, ne sarebbe spaventato e, come una belva impaurita, se la darebbe a gambe. L’arcobaleno, la sua pre­fi­gurazione, fors’anche la sua anima che, grazie al Cielo, nessuno sapeva costruire e ancor meno incatenare, non era forse altrettanto sensibile, fragile e incomprensibile agli occhi umani?86

Se il ponte in pietra a tre archi sull’Uyana maledetta è una costruzione che nessuno – tranne i suoi committenti – voleva e tutti desideravano che fosse distrutto dalle sa­crosante ragioni del fiume, «il ponte di Picaflor» di Repetti, con cui vogliamo ter­minare queste nostre riflessioni, è, al contrario, un ponte che tutti desiderano vedere risorgere, tranne il padre-padrone della sperduta cittadina, don Serapio Gandara.

Il ponte compare quasi di soppiatto, a più di un terzo dall’inizio del romanzo, così descritto dal dottor Solana al protagonista Giorgio:

– Come, non sapeva niente del ponte? – si meravigliò il dottor Solana, – nessuno gliene aveva anco­ra parlato?
Si alzò e lo portò sul balcone affacciato alla piazza ora deserta. […]
– Era là, sopra al Navapali, il fiume dal quale anche lei è arrivato, e collegava i due fianchi della val­le, la piana di Picaflor al monte che le sta davanti. Era un ponte magnifico, raccontano quelli che l’hanno visto, in legno e in pietra, un’arcata soltanto, di quasi sessanta metri, altissima sul fiume. Una splendida opera di ingegneria. L’avevano costruito verso la metà del Seicento gli spagnoli, per collegare Picaflor con il resto del Paese. Dopo il ponte, dall’altra parte del fiume, c’era una stra­da che si distendeva in costa alle montagne sempre meno scoscese e soltanto in due giorni di carro si affacciava in Cuzco. Quella strada era il cordone ombelicale di Picaflor, l’arteria che teneva questo paese legato al mondo. Ma caduto il ponte anche la strada, ormai deserta e inutile, era sparita, mangiata dal fogliame e dagli arbusti.87

Giorgio era giunto dall’Italia in questo sperduto luogo del Perù, tra Cuzco e Lima, atti­rato da una lettera scritta da una vecchia donna del paese, Rosaria Cruz, assassinata proprio il giorno in cui il protagonista, dopo un lungo e faticoso viaggio, giunge a desti­nazione. Rosaria era la figlia di Gregoria che era stata l’amante del nonno di Giorgio, don Francisco, che in queste terre aveva fatto fortuna e cui un giorno Gregoria aveva chiesto, in cambio di tutto quello che gli abitanti avevano fatto per lui, di ricostruire il ponte crollato «nel terremoto del 1920»88. Ma don Francisco se n’era andato senza realizzare la promessa. Prima Rosaria e poi Petra, la serva di Rosaria, chiederanno a Giorgio di adempiere finalmente la promessa. Perché, gli fa presente Petra, «Un nuovo ponte significa offrire a Picaflor la possibilità di una nuova vita»89 per tutti quei giova­ni, soprattutto, che, privi di qualunque speranza nel futuro, si stavano, uno dopo l’altro, suicidando. Il ponte, in passato, aveva fatto diventare Picaflor «il centro del mondo, o almeno di questa parte perduta del mondo»90; e poi, «crollando e isolando quel piccolo mondo, aveva reso tutto più semplice, forse più chiaro», separando due mondi: «Da una parte stava il padrone delle cose che contano», don Serapio Gandara; «dall’altra gli abitanti di Picaflor, i contadini, i seringueiros e quelli che un tempo erano mercanti e artigiani»91. Il ponte era legato a un passato felice, o almeno, nel ricordo, creduto tale, e senza il ponte non ci sarebbe stato un futuro. Il ponte è un simbolo della fortuna che può cambiare in un attimo, «basta che un fiume rompa gli argini, basta che un gallo na­sca con due teste, basta che un ponte crolli»92.

A differenza del romanzo di Kadaré, sembra che il ponte di Picaflor non esiga sacri­fi­ci. In realtà, anche se l’autore non lo afferma in modo esplicito, anche questo ponte, pur non esistendo più da anni, sta richiedendo vittime: come quel popolano che col suo mulo era partito da Cuzco alla volta di Picaflor senza avere notizia del crollo del ponte. Di fronte all’«invalicabile vuoto», si era ricordato che qualcuno – in realtà per prender­lo in giro – all’osteria di Cuzco, gli aveva detto che «i ponti si spostano: dal momento che è difficile costruirli non se ne fanno quanti ne servirebbero e così quelli che ci sono si spostano a seconda dell’esigenza dei viaggiatori». Quel carrettiere si era dunque fermato ad aspettare che il ponte ritornasse. «E lì era morto». Chi si fosse avventurato fin lassù avrebbe visto ancora «lo scheletro di quel contadino e del suo mulo appoggia­ti al loro carro, pronti ad attraversare il ponte quando questo fosse tornato»93. Un’altra vittima espiatoria era stata Rosaria Cruz e infine, tutte quelle coppie di giovani che, ultimamente, avevano deciso di porre fine alle loro vite.

Alla fine, nonostante una sera «un’ombra» che si era avvicinata a Giorgio nel buio, «senza minacciare anzi con un tono amichevole e accorato», gli avesse bisbigliato: «‹Non ti mettere in questo guaio. Prendi il primo battello e torna a casa. Ascoltami: quel ponte porterà Picaflor alla rovina›»94; nonostante il fatto assurdo che il protago­nista fosse un «assicuratore» che non aveva «mai fatto niente di speciale» nella sua vita, «e tanto meno ponti», ma solo «contratti e polizze»95; nonostante gli evidenti ‹consigli› di don Serapio Gandara a non fare nulla che potesse rivelarsi controprodu­cente per lui – «‹Un ponte non serve a niente […] serve solo se usato come promessa elettorale›»96 –, nonostante tutto ciò, grazie all’aiuto di un improbabile inventore, Hum­berto Flores, «indiretto»97 erede di Leonardo da Vinci, con l’aiuto di tutti gli abi­tanti di Picaflor, il ponte, ribattezzato Rosaria Cruz, viene completato e solennemente inaugurato. Un’«utopia realizzata»98. Un romanzo molto ben scritto, questo, che deve qualcosa alle atmosfere della Macondo di Gabriel Garcia Marquez, ma che non sarebbe uno dei testi più originali scritti su un ponte senza il finale. Perché il finale ci spiazza, ci sorprende, e ci fa vedere le cose da un punto di vista che non avevamo finora mai pre­so in considerazione. I ponti sono costruiti per unire, perché necessari, perché permet­tono la libera circolazione delle genti e delle idee (lo era stato, per secoli, in primis, il ponte sulla Drina). Rischiano di essere distrutti solo per eventi naturali – come il terre­moto che ha colpito Picaflor – o durante guerre e conflitti, quando si tagliano i ponti dietro alle spalle per impedire al nemico di avanzare velocemente. Ma qui è tutto diver­so. Dopo una decina d’anni dalla ricostruzione del ponte, è il suo costruttore a porsi delle domande che non consentono per nulla delle facili risposte. Giorgio comincia «a temere che qualche cosa non avesse funzionato»99. Cos’era accaduto?

[…] che il ponte e la strada avevano portato gente da fuori e traffici e con questi denaro e affari, e con questi concorrenza e avidità, e con queste invidia e inganno, e con questi disuguaglianze e dolo­re. […]

Era il denaro a governare tutto, ogni passaggio, ogni decisione e perfino ogni sentimento, e gover­na­va peggio di come aveva governato don Serapio Gandara.100

La voce ascoltata tanti anni prima era stata profetica? «[Q]uel ponte stava diventando la loro rovina?»101

Ecco che allora «un’idea ossessiva»102 lo svegliava ogni mattina, da un po’ di tempo:

[…] come avrebbe potuto fare … (naturalmente di nascosto, senza dirlo a nessuno, e lui da solo), come avrebbe potuto fare … (facendolo sembrare un fatto naturale o un incidente inspiegabile), co­me avrebbe potuto fare … (e ne aveva sgomento non solo a dirlo fra sé e sé, ma persino a pensarlo), co­me avrebbe potuto fare, insomma, a distruggere il ponte di Picaflor.103

Di fronte al pericolo, il pontifex rinnega la sua opera di mediatore e rinuncia a collega­re. E diventa un distruttore.

Appendice: Figure

Fig. 1: Jean-Jacques Lequeu, [Autoritratto], 1786 ca., penna, acquerellato a colori, cm 24,5 × 20,5, Paris, Bibliothèque nationale de France, Département Estampes et Photographie, RESERVE FOL-HA-80 (C, 7).
Fig. 2: Jean-Jacques Lequeu, [Vista di un paesaggio con ponte e rovine] cm 50,9 × 39,4 Pa­ris, Bibliothèque nationale de France, Département Estampes et Photographie, inv. n. EST RESERVE HA-80 (C, 8).
Fig. 3: Attribuito a Carmontelle (Louis Carrogis), Vue des jardins de Monceau [Carmontelle (?) remet les clefs du jardin au duc de Chartres], 1778 ca., olio su tela, cm 65 × 93,5, Paris, Musée Carnavalet, inv. n. P1784.

Fig. 4: JLQ, Vue d’un hameau…, 1777–1824, penna, acquerellato a colori, cm 15,8 × 30,6, Paris, Bibliothèque nationale de France, Département Estampes et Photographie, EST RESERVE HA-80 (C, 8).

Fig. 5: Dessin qui représente avec des figures, par quelle[s] teintes, et com­ment on doit laver les plans, élévations et profils des corps opaques / Jn Jques Le Queu delin., 1785, penna, acquerellato a colori, cm 51,6 × 36; Fig. 67: «Elévation géométrale du ponceau, ou pont de l’arche», Paris, Bibliothèque nationale de France, Département Estampes et Photographie, RESERVE FOL-HA-80 (1).
Fig. 6: Dessin qui représente avec des figures, par quelle[s] teintes, et com­ment on doit laver les plans, élévations et profils des corps opaques / Jn Jques Le Queu inv. et delin., 1785, penna, acquerellato a colori, cm 51,7 × 36,2; Fig. 70: «Pont des philosophes sur le chemin qui communique aux Champs Elisées [sic]», Paris, Bibliothèque nationale de France, Département Estampes et Photographie, RESERVE FOL-HA-80 (1).
Fig. 7: Dessin qui représente avec des figures, par quelle[s] teintes et com­ment on doit laver les plans, éléva­tions et profils des corps opaques / Jn Jques Lequeu inv. et delin., penna, acquerellato a colori, cm 51,7 × 34,4; Fig. 96: «Le Ponceau dela Grande ravine», Paris, Biblio­thèque nationale de France, Département Estampes et Photographie, RESERVE FOL-HA-80 (1).
Fig. 8: Dessin qui représente avec des figures, par quelle[s] teintes, et com­ment on doit laver les plans, élévations et profils des corps opaques / Jn Jques Le Queu, inv. et delin. L’an 4 de la République, penna, acquerellato a colori, cm 51,6 × 36,2; Fig. 119: «Petit pont de bois de la carrière de pierre», Paris, Bibliothèque nationale de France, Département Estampes et Photographie, RESERVE FOL-HA-80 (1).
Fig. 9: Dessin qui représente avec des figures, par quelle[s] teintes, et com­ment on doit laver les plans élévations et profils des corps opaques / Jn Jques Le Queu, inv. et delin. L’an 5 de l a République, penna, acquerellato a colori, cm 51,6 × 36,4; Figg. 120, 120°, 120°°: «Le pont Egïptien éclusé», «Le radier recouvert de gros ais de chêne attachés sur les liernes et les moises», «Profil suivant la ligne VX», Paris, Bibliothèque nationale de France, Département Estampes et Photographie, RESERVE FOL-HA-80 (1).
Fig. 10: Orthographie d’un pont antique appellé pont d’Auguste, que l’on place sur le Tybre, … / dessiné par Jn Jques Le Queu Archite [sic], 1777–1824, penna, acquerellato a colori, cm 34,4 × 23,3, Paris, Bibliothèque nationale de France, Département Estampes et Photographie, RESERVE FOL-HA-80 (A, 3).

Fig. 11: Orthographie du pont antique d’Œlius, bâti sur le Tybre / Dessiné par Jn Jques Le Queu. 1777–1824, penna, acquerellato a colori, cm 40,7 × 27,9, Paris, Bibliothèque nationale de France, Département Estampes et Photogra­phie, RESERVE FOL-HA-80 (A, 3).
Fig. 12: Plan, élévation et coupes du pont tournant éxécuté au Havre, 17..–1825, penna ne­ra su carta da lucido colorata, cm 53,6 × 33,2, Paris, Bibliothèque nationale de France, EST IA-36.
Fig. 13: Ecole polytechnique. Etude de pont en charpente avec une palée simple, 17..–1825, penna nera su carta da lucido colorata, cm 39,6 × 25,7 cm (f.), Bibliothèque nationale de France, EST IA-36.
Fig. 14: Ecluse à portes de flot ceintrées et pont tournant en fer fondu projettés à l’embou­chure du canal à ouvrir d’Honfleur à Villequier, 17..–1825, penna nera su carta da lucido co­lorata, cm 52,6 × 32,6 cm (f.), Paris, Bibliothèque nationale de France, EST IA-36.
Fig. 15: Carl Eduard Ferdinand Blechen, Bau der Teufelsbrücke, 1830–1832 ca., olio su te­la, cm 77,8 × 104,5, München, Neue Pinakothek, inv. L 1039.
Fig. 16: René Magritte, Le pont d’Héraclyte, 1935, olio su tela, cm 54 × 73, collezione pri­vata.
Fig. 17: Claude-Nicolas Ledoux, École rurale de Meillant, veduta prospettica, incisione di Piquenot e Ransonnette, da Architecture de C.-N. Ledoux. Collection qui rassemble tout les genres de bâtiments employés dans l’ordre social, Paris: Lenoir 1847, tav. 288.
  1. Tutte le figure si trovano nell’appendice.
  2.  Cécile Raymond, sul suo blog Henri & Raymond, in un articolo dal titolo «Les folles fabriques de Jean-Jacques Lequeu» (www.henryetraymond.wordpress.com/2015/07/08/les-folles-fabriques-de-jean-jacques-lequeu/), ha visto un collegamento tra questo disegno e quello attribuito a Carmontelle (Louis Carrogis, 1717–1806), Vue des jardins de Monceau [Carmontelle remet les clefs du jardin au duc de Chartres] [Fig. 3]. Su Lequeu, autore da cui la critica si tiene in genere a debita distanza, si vedano almeno: Emil Kaufmann: «Three Revolutionary Architects, Boullée, Ledoux, and Lequeu», in Transactions of the American Philosophical Society. Held at Philadelphia for promoting Useful Knowledge, New Series, Volume 42, Part 3, 1952 (Philadelphia: The American Philosophical Society), pp. 431–564; Günther Metken: «J.-J. Lequeu ou l’architecture rêvée», in Gazette des Beaux-Arts, 6e période, t. LXV, avril 1965, pp. 213–230; Jacques Guillerme: «Lequeu et l’invention du mauvais goût», in Gazette des Beaux-Arts, 6e période, t. LXVI, septembre 1965, pp. 153–166; Id., «Thèmes et formes chez l’architecte Lequeu», in Vie Médicale, n. 47, 1966, pp. 67–82; Id., «Lequeu entre l’irré­gulier et l’éclectique», in XVIIIe siècle, n. 6, 1974, pp. 167–180; «La città-Lequeu», testo di Ann Grieve [«Le chimere architettoniche di Jean-Jacques Lequeu», pp. 114–126], lettura di Jean Terrasson [«Sé­thos. Histoire ou Vie tirée des monuments anecdotes de l’ancienne Egypte», pp. 130–142], in FMR, n. 33, maggio 1985, pp. 113–144. Philippe Duboÿ, Lequeu: An architectural enigma, foreword by Ro­bin Middleton, London: Thames and Hudson, 1986 (libro da non citare se si vuol vincere un concorso universitario). Tra le maggiori stranezze, il fatto che le ‹didascalie› inserite nei disegni da Lequeu va­dano ben oltre il rappresentato: «Questi disegni […] sono percorsi anche dalla scrittura. Delle annota­zioni modificano l’immagine: nei suoi commenti circola talvolta un’altra rete di significati e, grazie a una bizzarra tautologia, certi particolari vengono esaltati dal nome e sovraccaricati di indicazioni ‹che illustrano› invisibili attributi», Grieve 1986, cit., pp. 114–115.
  3. Cfr. I Qvattro Libri dell’Architettvra Di Andrea Palladio. Ne’ quali, dopo un breue trattato de’ cinque ordini, & di quelli auertimenti, che sono piu necessarij nel fabricare; si tratta delle case private, delle Vie, de i Ponti, delle Piazze, de i Xisti, et de’ Tempij, Venetia: Appresso Dominico de’ Franceschi 1570, libro terzo, cap. VIII, p. 18.
  4.  «La natura non ha bisogno del pensiero […] è solo la presunzione umana a voler proiettare ininterrot­ta­mente nella natura il proprio pensiero. Ciò che non può non deprimerci da cima a fondo è il fatto che, con questo pensiero insolente che proiettiamo nella natura, del tutto immunizzata, com’è natura­le, nei confronti di questo pensiero, noi affondiamo sempre più in uno stato di deprimazione ben maggiore di quello in cui già siamo.» (Thomas Bernhard: Gehen, Frankfurt am Main: Suhrkamp Ver­lag 1971, trad. it. di Giovanna Agabio, Camminare, Milano: Adelphi Edizioni 2018, pp. 13–14).
  5. Ivo Andrić: Na Drini ćuprija, Beograd: Prosveta 1945, trad. it. Il ponte sulla Drina, in Id., Romanzi e racconti, progetto editoriale e saggio introduttivo di Predrag Matvejević, traduzioni, cronologia e note a cura di Dunja Badnjević, Milano: Arnoldo Mondadori Editore 2001, pp. 569–1001.
  6.  Ismail Kadaré: Ura me tri harqe: triptik me nje intermexo, Tirana: Naim Frasheri 1978, trad. it. di Francesco Bruno: Il ponte a tre archi, Milano: Longanesi & C. 2002 (tratta dalla traduzione francese di Jusuf Vrioni, Paris: Fayard 1981).
  7.  Carlo Repetti: Il ponte di Picaflor, Torino: Giulio Einaudi editore 2015.
  8.  Sul confronto e le differenze tra i due romanzi si veda: Jean-Paul Champseix: «Un pont dans la tour­mente balkanique: Ivo Andrić et Ismaïl Kadaré», in RLC. Revue de Littérature comparée, n. 305, 2003/1, pp. 49–60.
  9.  Anita Seppilli: Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti, Palermo: Sellerio editore 1977.
  10.  Cfr. ibd., nota 69.
  11.  Rudyard Kipling: «The Bridge-Builders», in Illustrated London News, Christmas Number, 1893 (poi in Id., The Day’s Work, London: Macmillan 1898), trad. it. «I costruttori di ponti», in Id., I figli dello Zodiaco, a cura di Ottavio Fatica, Milano: Adelphi 2008, pp. 159–197.
  12.  Kadaré 2002, cit., p. 15.
  13.  Ibd., p. 16.
  14.  Ibd., p. 12.
  15.  Ibd., p. 22.
  16.  Ibd., p. 182.
  17.  Carl Schmitt: Land und Meer: Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Leipzig: Philipp Reclam jun. 1942.
  18.  Kadaré 2002, cit., p. 23.
  19.  Ibd. Arberia è chiamato l’insieme delle aree geografiche dell’Italia meridionale in cui è insediata la minoranza etnico-linguistica albanese italiana.
  20. Ibd.
  21.  Ibd., p. 24.
  22.  Ibd., p. 25.
  23.  Un accenno a ciò è fatto dallo stesso Kadaré quando descrive uno dei due capisquadra del costruttore del ponte, le cui cicatrici sul collo erano per alcuni «le conseguenze di torture inflittegli in passato per fargli rivelare i segreti della costruzione dei ponti», ibd., p. 51. Sui ‹ponti del diavolo› cfr. Seppilli 1977, cit., pp. 259–265. Sul ponte del diavolo più famoso di tutti, quello sul Gottardo, cfr. «Teufels­brücke: Il Ponte del Diavolo sul Gottardo», testo di Gabriele Reina, lettura di un viaggiatore ottocen­tesco, in FMR, n. 155, Dic./Genn. 2002/03, pp. 109–128.
  24.  Kadaré 2002, cit., p. 30.
  25.  Ibd., p. 31.
  26.  Ibd., p. 40.
  27.  Cfr. ibd., pp. 43, 50 e 99–100.
  28.  Cfr. ibd., p. 51.
  29.  Ibd., p. 49.
  30.  Ibd., p. 50.
  31.  Ibd., p. 53.
  32.  Paul Bonatz: «Dr. Todt und seine Reichsautobahn» (März 1941), in Die Kunst im Dritten Reich, n. 3, März 1942, p. 51, trad. it. di Roberta Tatafiore, «Il dottor Todt e la sua autostrada», in Anna Teut: L’architettura del Terzo Reich, Milano: Mazzotta 1976, pp. 157–164: 159. Sui ponti del Terzo Reich mi sia permesso rimandare a Alberto G. Cassani: Figure del ponte: Simbolo e architettura, Bologna: Edizioni Pendragon, 2014, § IV.4.: «I Ponti del Superuomo: Il Regno millenario del Terzo Reich», pp. 96–105.
  33.  Kadaré 2002, cit., p. 53.
  34.  Ibd., p. 54.
  35.  Ibd., pp. 54–55.
  36.  Ibd., p. 55.
  37.  Cfr. Kipling 2008, cit., pp. 190–193.
  38.  Kadaré 2002, cit., p. 66.
  39.  Cfr. Kipling 2008, cit., p. 196: «‹Non si è mossa nemmeno una pietruzza›, rassicura l’assistente Hitchcock».
  40.  Kadaré 2002, cit., p. 69.
  41.  Cfr. Kipling, 2008, cit., pp. 171–179.
  42.  Kadaré 2002, cit., p. 69.
  43.  Cfr. ibd.
  44.  Cfr. ibd., p. 71.
  45.  Cfr. ibd., p. 75.
  46.  Ibd., p. 76.
  47.  Cfr. Eschilo, Persiani, vv. 739–751. Si veda l’edizione Tragedie e frammenti, a cura di Giulia e Moreno Morani, Torino: Unione Tipografico-Editrice Torinese 1987, p. 163.
  48.  Kadaré 2002, cit., p. 84.
  49.  Andrić 2001, cit., pp. 850, 851.
  50.  Kadaré 2002, cit., p. 85.
  51.  Ibd., p. 87.
  52.  Ibd., p. 98.
  53.  Ibd., p. 100.
  54.  Ibd., p. 102.
  55.  Ibd., p. 106.
  56.  Ibd., pp. 122–123.
  57.  Olio su tela, 54 × 73 cm, collezione privata. Sull’analisi di questo dipinto mi sia permesso di riman­da­re al mio saggio «Il ponte di Eràclito: Simboli e metafore di una figura architettonica», in Galileo, XXVII, n. 221, ottobre 2015, pp. 14–19: 18–19.
  58.  Kadaré 2002, cit., p. 110.
  59.  Ibd., p. 111.
  60.  Ibd., p. 116.
  61.  Ibd., pp. 116–117.
  62.  Ibd., p. 118.
  63.  Cfr. Seppilli 1977, cit., pp. 259–276.
  64.  Kadaré 2002, cit., p. 118.
  65.  Kadaré 2002, cit., p. 122. L’autore si rifà alla redazione albanese della leggenda su cui si sofferma Sep­pilli 1977, cit., pp. 266–267.
  66. Ibd.
  67.  Ibd., pp. 122–123.
  68.  George Hersey: The Lost Meaning of Architecture. Speculations on Ornament from Vitruvius to Ven­turi, Cambridge (Mass.): Massachusetts Institute of Technology 1988, trad. it. di Chiara Rodriguez, Il significato nascosto dell’architettura classica: Speculazioni sull’ornato architettonico da Vitruvio a Venturi, introduzione di Marco Biraghi, Milano: Bruno Mondadori 2001.
  69.  Kadaré 2002, cit., p. 125.
  70.  E la novità della leggenda balcanica consisteva nel fatto «che il sacrificio non concerneva un’impresa bellica, una spedizione, nemmeno un rito religioso, ma una semplice costruzione, cosa che forse si spiegava col fatto che i nostri antenati, i primi abitanti di queste contrade, i Pelasgi, come li chiama­va­no le antiche cronache greche, erano anche stati i primi muratori del mondo», ibd.
  71.  Ibd., p. 130.
  72.  Ibd., pp. 130–131.
  73.  Ibd., p. 131.
  74.  Ibd., p. 135.
  75.  La paternità al predicatore e non all’astronomo è chiarita nel mio saggio: «Il ponte e il suo angelo: Mito e simbolo di una figura archetipica», in Memoria e Ricerca: Rivista di storia contemporanea, [numero monografico:] I ponti tra materia e metafora, XXV, vol. 55, n. 2, maggio–agosto 2017, pp. 213–230: 213 nota 1.
  76.  Kadaré 2002, cit., p. 153.
  77.  Ibd., p. 177.
  78.  Ibd., p. 178.
  79.  Ibd.
  80.  Cfr. Martin Heidegger: «Bauen Wohnen Denken», in Mensch und Raum, herausgegeben im Auftrag des Magistrats der Stadt Darmstadt und des Komitees Darmstädter Gespräch 1951, von Otto Bart­ning, Darmstadt: Neue Darmstädter Verlangsanstalt 1952, pp. 72–84 (= Id.: Vorträge und Aufsätze, Teil III, Pfullingen: Verlag Günther Neske 1954, pp. 153–159), trad. it. a cura di Gianni Vattimo, «Costruire abitare pensare», in Id.: Saggi e discorsi, Milano: Mursia 1976, pp. 96–108: 101–105.
  81.  Kadaré 2002, cit., p. 178.
  82.  Ibd.
  83.  Leon Battista Alberti: L’architettura [De re ædificatoria], testo latino e traduzione a cura di Giovanni Orlandi, introduzione e note di Paolo Portoghesi, Milano: Il Polifilo 1966, VI 2, p. 447: «Aut quid aliquin tam obfirmatum effici ulla hominum arte poterit, quod ab hominum iniuria satis munitum sit? At pulchritudo etiam ab infestis hostibus impetrabit, ut iras temperent atque inviolatam se esse patiantur; ut hoc audeam dicere: nulla re tutum æque ab hominum iniuria atque illesum futurum opus, quam formæ dignitate ac venustate» (trad. it. ibd., p. 446: «né l’arte umana può trovare mezzo più sicuro per proteggere i suoi prodotti dalle offese dell’uomo stesso, anzi la bellezza fa sì che l’ira distruggitrice del nemico si acquieti e l’opera d’arte venga rispettata. Oserei dire insomma che nessu­na qualità, meglio del decoro e della gradevolezza formale, è in grado di preservare illeso un edificio dall’umano malvolere»). Ma si vedano anche anche VIII 3, p. 680 e X 1, pp. 869 e 871.
  84.  Kadaré 2002, cit., p. 229.
  85.  Vedi Mircea Eliade: Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase, Paris, Payot, 1951, trad. it. Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Roma / Milano, Bocca, 1953, pp. 114–117 e rimandi bi­blio­grafici; Seppilli 1977, cit., capitolo 7 e rimandi bibliografici.
  86.  Kadaré 2002, cit., p. 199.
  87.  Repetti 2015, cit., pp. 77–78.
  88.  Ibd., p. 77.
  89.  Ibd., p. 101.
  90.  Ibd., p. 113.
  91.  Ibd., p. 116.
  92.  Ibd., p. 126.
  93.  Ibd., pp. 78–79.
  94.  Ibd., p. 143.
  95.  Ibd., p. 135.
  96.  Ibd., p. 148. Non è difficile, per un lettore italiano, indovinare a chi l’autore si riferisca.
  97.  Ibd., p. 175. Flores capisce invece «prediletto» e s’inorgoglisce.
  98.  Ibd., p. 197.
  99.  Ibd., p. 203.
  100.  Ibd., p. 204.
  101.  Ibd., p. 205.
  102.  Ibd.
  103.  Ibd., pp. 205–206.