Giuseppe Chiecchi: Nell’arte narrativa di Giovanni Boccaccio. Firenze: Olschki 2017,
ISBN: 978-88-222-6494-7, pp. 235, Euro 27,00

· Kristina Lazar ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-CA9A-8

«La narrativa di Boccaccio è una esplorazione del mondo; essa stessa è un mondo da esplorare» (p. XIII): sono le parole con cui l’autore della monografia che presentiamo giustifica il tuffo nel vasto mare della narrativa di Boccaccio. Giuseppe Chiecchi è già rinomato studioso dell’opera boccacciana e autore di diversi studi; nel suo recente lavo­ro ci presenta, in sette capitoli, sette esplorazioni diverse sui temi e sullo stile delle opere boccacciane dal periodo giovanile fino al Decameron, e non solo: la sua monogra­fia è infatti un ricchissimo repertorio di quel pensiero antico e medievale che in un modo o nell’altro aveva influito sull’opus boccacciano.

Il volume comincia con una breve premessa, intitolata «Il fantasma e il corpo», de­dicata a due temi intriganti che riguardano il Decameron, vale a dire i fantasmi e le rappresentazioni della nudità. Alcune novelle della centuria, come giustamente osserva l’autore, sono energicamente iconoclastiche nei confronti delle rappresentazioni del trascendente; una di queste è la novella di Tingoccio e Meuccio, i due senesi (VII, 10), nella quale l’autore analizza l’atteggiamento di Boccaccio verso l’aldilà, constatando che questa novella «è occasione di una parola che tace» (p. IX). Boccaccio, infatti, mostra quello che non conta nell’aldilà, ma evita risposte alla domanda cosa sia poi quello che vi conta veramente – ed è un procedimento che, come giustamente osserva Chiecchi, si ritrova più di una volta nella sua opera.1 L’attenzione si sposta quindi sui procedimen­ti che nella scrittura di Boccaccio negano una rappresentazione della nudità; con alcuni esempi (la novella della vedova Elena, VIII, 7) Chiecchi ci fa notare l’uso di varie strategie di reticenza che entrano in scena nel discorso. Anche le novellatrici nella Valle delle donne, immerse nell’acqua trasparente, non sono nude, bensì «svestite».

Dopo questa premessa, incomincia una riflessione sulla forma-epistolare nella narra­tiva di Boccaccio, aspetto che l’autore aveva già esplorato negli esordi dei suoi studi.2 Vi ripercorre le tappe fondamentali del genere a partire dall’epistola antica fino a quella medievale per poi arrivare alla sua funzione nella narrativa boccacciana e mostrare che l’elemento innovativo di Boccaccio sta nel singolare trasferimento della forma-epistola dalle rigide e minuziose norme della precettistica alle cangianti esigenze delle trame del racconto. Attraverso l’analisi delle lettere presenti nelle opere Filocolo, Teseida, Filo­strato, Elegia di madonna Fiammetta e quindi nel Decameron, Chiecchi mostra che «la circostanza epistolare è una zona franca e, nello stesso tempo, di confine, nella qua­le sono previste coabitazioni altrimenti impossibili» (p. 29), e che i personaggi, nello scrivere, si appropriano delle competenze autoriali – diventati narranti, scrivono con il dono della scrittura dell’autore. La lettera è, nel caso dell’amore lontano, uno stru­mento di sorprendente funzionalità narrativa, e non solo: nella scrittura di Boccaccio «l’ingresso e la espulsione dei personaggi dall’opera dipendono dalle lettere, anzi dalla forma delle lettere che essi che sono in grado di scrivere» (p. 30).

I paesaggi e i giardini di Boccaccio sono il tema del secondo capitolo; l’autore dap­prima analizza la natura ambivalente dei giardini, fra naturalezza e artificialità, per poi passare alla geografia, che in Boccaccio si trasforma in mitologia. La rappresentazione del paesaggio, anche di quello maggiormente vissuto dall’autore, respinge il reale, che viene sostituito con una geografia remota. Lo studioso, passando dall’analisi dei giar­dini del Ninfale fiesolano e dell’Elegia di madonna Fiammetta per arrivare a quelli di cui si narra nel Decameron, ne evidenzia i tratti singolari. Riprendendo la questione delle «due piccole miglia» ovvero della distanza, assai piccola, che percorrono i novel­lieri per scappare dalla città impestata e recarsi al locus amoenus, sottolinea come la realtà non sia qui certo una categoria che riguarda le cose, bensì la loro rappresentazio­ne. L’autentica novità dei giardini boccacciani, secondo Chiecchi, sta nel fatto che il luogo ideale (il giardino) fronteggia un luogo reale (la città). Non bisogna altresì dimen­ticare che il giardino è un topos ideale, composto da dati elementi e con un carattere stereotipico che dà l’impressione del già visto. Chiecchi si sofferma anche sulla novella di messer Ansaldo e sul famoso giardino d’inverno (X, 5), ricordando la diffusa presen­za di questo motivo nella letteratura. Si aprono così anche in questo caso, come nel resto dello studio, dei confronti intertestuali. «La scrittura è sempre una riscrittura» (p. 82), osserva l’autore, e non possiamo che condividere questa constatazione. Un paragone fra il motivo del giardino nel Filocolo (che a sua volta si ispira a Ovidio) e nel Decameron chiarisce anche il diverso atteggiamento dei rispettivi protagonisti verso l’elemento del meraviglioso. L’essenza miracolosa nel Decameron diventa una funzione strumentale e si trasforma in evento prodotto dalla parola.

Il terzo capitolo tratta del «primo romanzo psicologico e realistico moderno»3, ov­vero dell’Elegia di madonna Fiammetta. Chiecchi, che già in studi precedenti aveva esplorato i legami tra Dante e Boccaccio (del 2012 la sua monografia Dante, Boccaccio, l’origine. Sei studi e una introduzione) porta quindi la nostra attenzione sull’eloquen­za di Fiammetta e ci fa notare delle similitudini fra questo personaggio e quello dan­tesco di Francesca da Rimini che secondo lui potrebbe esserne il precursore. Ma l’Ele­gia porta una singolare novità. Chiecchi ci mostra come il dare la parola a Fiammetta, in quanto personaggio protagonista, trasformi la funzione delle liturgie esordiali e degli ornati delle zone incipitarie, che non fanno più parte del patto fra l’autore e i suoi lettori, ma diventano elementi interni alla narrazione. Attraverso un paragone fra quel­le due figure ci fa notare i tratti innovativi di Fiammetta, che appare personaggio disancorato dalla trascendenza. Si mostra inoltre d’accordo con Francesco Bruni il qua­le, nella difficoltà di Fiammetta di discernere la realtà dall’apparenza, vede un tratto moderno dell’elegia.4 Fiammetta si trova in uno stato di «dissesto psichico» (p. 102), e tale squilibrio si mostrerebbe nell’incoerenza delle sue parole; il personaggio parla facendo appello a elementi di derivazione biblica accanto ad altri del mito pagano, che sono usati paradossalmente come exempla. Chiecchi fa osservare che vi affiora anche il modello ovidiano delle Heroides e, attraverso una dettagliata analisi, dimostra che negli elementi mitologici di cui si avvale Fiammetta ritorna il bagaglio mitologico del suo autore; Boccaccio libera il personaggio dai vincoli dell’autorialità (visto che in Fiammetta l’Io narrante e l’Io narrato combaciano), ma gli fornisce il bagaglio della propria bibliografia. Tale capitolo, ricco di riferimenti alla mitologia antica e all’opus dantesco presenti nell’Elegia, si chiude con l’analisi dell’episodio sul tentato suici­dio di Fiammetta, che, secondo Chiecchi, non è un’azione bensì un argomento in quan­to la parola procrastina l’azione. Vi si osserva inoltre giustamente che già il genere letterario adottato impedisce a Fiammetta di realizzare tale atto, visto che la dimensio­ne letteraria in cui si colloca la vicenda non è una tragedia, ma un’elegia. «Il fallimen­to dell’azione tragica salva l’opera» (p.132).

È impossibile scrivere uno studio sul capolavoro boccacciano senza sfiorare la com­ponente tematica della peste, fondamentale del Decameron; questa segna infatti secondo Chiecchi «ben più dell’inizio; essa appartiene alla maternità, alla gestazione dell’opera» (p. 135). Dedicando dapprima alcune considerazioni all’antigrafo, ovve­ro alla rappresentazione della peste nella Historia langobardorum di Paolo Diacono, Chiecchi ci ricorda che si trattava di un tema letterario con elementi obbligatori. Menzionando di nuovo la questione delle «due piccole miglia» che basterebbero per scappare dalla peste, viene ribadito che «l’altrove non è un luogo geografico, ma estetico» (p. 141). Evidenzia inoltre che nella resa boccacciana di un luogo appestato ri­tor­nano anche altre fonti: vi sono ad esempio dei legami con l’Inferno dantesco (le fosse comuni per i cadaveri degli appestati assomigliano alle tombe degli eretici di In­ferno X), nonché degli elementi tipici solo per Boccaccio, come l’ornata orazione di Pampinea, che precede e giustifica l’uscita della brigata da quel luogo di morte e li diffe­renzia da altri fuggiaschi che «agiscono nel silenzioso egoismo delle paure individuali» (p. 144) – mostrando così che si tratta di una differenza stabilita non per significato, ma per significante. Il legame con l’episodio delle tombe dell’Inferno viene menzionato ancora una volta, stavolta in relazione alla novella di Andreuccio (II, 5). Ma a differenza dalle tombe infernali che rimangono eternamente serrate, la tomba a Napoli in cui si nasconde Andreuccio è un simbolo del provvisorio, di una fortuna che sempre muta e indica quindi la perenne possibilità di una soluzione. Il capitolo si chiude con l’analisi della novella di Ghismonda (IV, 1) in cui Boccaccio presenta la natura trasgressiva dell’amore paterno di Tancredi, che Chiecchi definisce addirittura un capolavoro di dis­simulazione. La domanda che si pone lo studioso e a cui prova a dare una risposta at­traverso l’analisi delle azioni presenti nella novella, è assai interessante: Si chiede come sia possibile che un autore trecentesco riconoscesse in maniera già così evidente la presenza di un subconscio. È una questione su cui si sono già interrogati altri studiosi, ma che resta pur sempre affascinante.

Nel capitolo seguente viene affrontata la novella di Masetto da Lamporecchio (III, 1), che l’autore dello studio inserisce nel quadro delle opere che demistificano l’ambien­te claustrale. Cercando di evitare le conclusioni prevedibili che possono nascere da un confronto fra il Decameron e il Novellino (una delle sue fonti), Chiecchi si sofferma sulle similitudini fra le due versioni della novella, vale a dire Novellino, LXII e Decame­ron, III, 1 (rispettivamente l’assenza nel Novellino e la scarsa presenza nel Decameron di una dimensione psicologica) così come sulle loro differenze (la dimensione mora­leggiante del Novellino verso l’assenza del giudizio nel Decameron). Più che una mora­le, conclude, è importante il «sugo» della novella (p. 183). Attraverso un’analisi atten­ta come sempre anche ai richiami a Dante (che questa volta risulta fortemente parodia­to) e ad altri ligamina testuali, si arriva alla tesi fondamentale che l’arte narrativa di Boccaccio sta proprio in questo concedersi alla neutralità degli accadimenti.

Il sesto capitolo affronta ancora il Decameron e i suoi amori licenziosi, nello speci­fico la novella di Catella e Ricciardo (III, 6). Chiecchi osserva lucidamente il modo in cui valori della società trecentesca, in cui il matrimonio ha il solo valore utilitario, in­fluiscono sulla composizione della novella. La narratrice Fiammetta, sostenitrice dell’amore cortese, delinea la protagonista Catella in modo negativo, visto che dal suo punto di vista Catella è colpevole dell’inosservanza del codice, perché vuole rimane­re fedele al marito.

L’ultimo capitolo è dedicato sempre ancora al Decameron, ma questa volta l’enfasi viene posta soprattutto sulla lingua e sull’uso del fiorentino. Si tratta nella fattispecie della novella di maestro Simone (VIII, 9), sulla beffa subita da un presuntuoso medica­stro bolognese trasferitosi a Firenze. Chiecchi analizza alcune espressioni ingegnose che appaiono nella novella, come «andare in corso», «Porcograsso e Vannacenna» (che stanno per Ippocrate e Avicenna), «pinca da seme» e «cavaliere bagnato». Quest’ulti­ma rappresenta il nucleo della novella: la beffa pianificata da Bruno e Buffamalco consiste nel far bagnare il medico bolognese nel letamaio, atto che lo studioso interpre­ta come una sorte di «attestato di cittadinanza» o di «battesimo per immersione» (p. 206), o addirittura una «gioiosa metafora di accoglienza e di ingresso di fiorenti­ni­tà» per maestro Simone (p. 220). Nell’analisi della novella viene chiarito il rapporto dei personaggi e l’uso di stilemi nuovi, che comprende anche una riflessione sul loro si­gnificato, giungendo persino alla parodia della ricerca filologica e lessicale. Come sempre, Chiecchi è in grado di offrire un quadro storico-letterario e linguistico ricco e informativo al tema analizzato, che ingloba le posizioni di Dante verso la lingua vol­gare nel De vulgari eloquentia nonché le osservazioni di Vincenzo Borghini – di cui è ottimo conoscitore, visto che tra l’altro è autore di una monografia sulla corrispon­denza del Borghini e dei deputati fiorentini con le autorità ecclesiastiche circa il lavoro di espurgazione del Decameron del 1573.5 L’analisi della novella resta quindi arric­chita dalle osservazioni sul lessico da parte del rinomato filologo cinquecentesco ed è orientata a dimostrare ancora una volta il potere della lingua anfibologica, usata da Boccaccio.

E giustamente con una riflessione sulla lingua – visto il primato della forza della pa­rola nell’opera boccacciana – si conclude questo volume di oltre 200 pagine che esalta gli elementi innovativi della narrativa boccacciana e la inserisce allo stesso tempo in un allargato quadro intertestuale. Un’opera di valore informativo che sa anche entusia­smare, poiché dimostra che vi è sempre qualcosa di nuovo da scoprire su Boccaccio e che nessuna lettura può dirsi mai definitiva. Testi simili ci obbligano alla rilettura dei testi nella consapevolezza che vi troveremo (per usare la metafora che l’autore inse­risce nella premessa) qualche nuova preziosa margarita.

  1. Pensiamo, ad esempio, alla novella dei tre anelli (Decameron I, 3).
  2. Giuseppe Chiecchi: «Narrativa, amor de lohn, epistolografia nelle opere minori di Boccaccio», in: Studi sul Boccaccio, XII, 1980, p. 175–195.
  3. Questa descrizione è stata attribuita all’opera già da Vittore Branca: Giovanni Boccaccio. Profilo bio­grafico, Firenze: Sansoni 1977, p. 66.
  4. Francesco Bruni: Boccaccio. Un’invenzione della letteratura mezzana, Bologna: Il Mulino 1990, p. 223.
  5. Giuseppe Chiecchi: Le Annotazioni e i Discorsi sul Decameron del 1573 dei deputati fiorentini. Roma/Padova: Editrice Antenore 2001.