L’Adorno dei pittori
Linee di ricerca per una ricezione del pensiero di Th. W. Adorno in Italia: l’esperienza torinese della rivista Questioni

· Luca Farulli ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0002-44A1-B

Diffusa, tempestiva come in pochi altri casi è stata l’attenzione dedicata dalla cultura italiana postbellica al pensiero di Th. W. Adorno. Uno sguardo alla incalzante scansione cronologia con cui vennero pubblicate le opere adorniane dimostra come intorno al filosofo di Francoforte si attivi, tra gli anni 60 e 70 del secolo scorso, una vera e propria competizione culturale, cui concorrono le principali case editrici, assieme alle più importanti ed innovative riviste1. Dunque, Adorno come sintomo di una vitalità e di una urgenza della cultura italiana, impegnata in un processo di rinnovamento; come pensatore che catalizza un multiverso e mobile campo di forze intellettuali, intente al reperimento di strumenti teorico-critici di riflessione su quanto di nuovo si sta aprendo nel presente; Adorno come evenienza culturale, ovvero, come istanza teorica che sostiene, al tempo stesso, una battaglia di emancipazione nei confronti dei resti di idealismo diffusi nella cultura italiana, ma, anche, un confronto di natura ambivalente, con il marxismo.

È l’Archivio di filosofia, rivista diretta da Enrico Castelli, a pubblicare come prima in Italia, nelle due lingue, un saggio di Adorno: «Sul rapporto tra filosofia e musica», contributo che compare nel primo numero del 19532. Il contesto della pubblicazione è particolarmente significativo; il fascicolo, dedicato alla «Filosofia dell’arte», vede, infatti, tra gli altri interventi, quelli di Vladmir Jankélévitch, Hans Sedlmayr, del pittore Albino Galvano, dello storico d’arte Giulio Carlo Argan e di Roman Vlad, musicologo di levatura europea, autore, fra l’altro, della prima recensione scritta in Italia sulla Philosophie der neuen Musik (1949), comparsa nel 1950 sulla rivista La Rassegna Musicale.3

Sul fronte più strettamente editoriale, invece, nel 1954 esce presso Einaudi, la prima opera adorniana in volume, seppur emendata4: Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, tradotta da Renato Solmi, il quale accompagna l’edizione con una introduzione di grande significato per il dibattito culturale italiano di quegli anni e lo sviluppo di un marxismo critico. Franco Fortini accoglie con queste parole la comparsa del volume: «Caro Solmi, la terra trema. Tra poco scoppierà in Italia la bomba Adorno, vera bomba a orologeria a due tempi, perché preceduta dalla tua lunga introduzione non meno esplosiva, che sottolinea lo scandalo anziché minimizzarlo»5. Per sviluppare un rapporto più diretto con la filosofia di Adorno, Solmi si reca a Francoforte nell’autunno 1956 a frequentarne i corsi. Anche nel caso della pubblicazione di Minima Moralia, si riconferma l’attenzione privilegiata riservata dal pubblico italiano al pensatore tedesco: l’edizione in lingua originale dell’opera era, infatti, comparsa presso la casa editrice Suhrkamp solo tre anni prima. Alla sfida culturale lanciata da Einaudi, risponde Feltrinelli con la pubblicazione, nel 1959, di Dissonanze a cura di Giacomo Manzoni, opera la cui prima edizione tedesca risale, anche in questo caso, a soli tre anni prima.

Le molteplici linee di accoglimento del pensiero adorniano sono già state ampiamente ricostruite dagli studiosi, sia per quanto riguarda l’ambito di ricezione specifico in campo filosofico, che in quello della ricerca sociologica e della teoria estetica.6 Per quanto riguarda, invece, gli effetti esercitati dalle proposte avanzate dal filosofo tedesco in ambito artistico, gli studi si sono concentrati soprattutto sul rilievo da queste svolte nel settore musicale, letterario, più in generale, di teoria dell’avanguardia; fuori campo resta una verifica specifica e dettagliata delle modalità con cui il pensiero di Adorno sia stato recepito in campo pittorico. Tale aspetto si ravvisa come rilevante non solo al fine di individuare quali generi di pittori abbiano attivato interesse nei confronti degli spunti adorniani: tra gli anni 50 e 60 del secolo scorso si avvia, infatti, un processo di profonda modificazione nel paradigma di riferimento dell’essere pittore, in modo particolare in Italia; l’ulteriore ragione d’importanza sta nel fatto che il discorso svolto da Adorno, prendendo le mosse da una considerazione specifica dell’ambito musica e solo collateralmente a quello pittorico, si inserisce, comunque, nel processo di oltrepassamento delle distinzione tra i generi artistici definito, dal filosofo di Francoforte, come «sfrangiamento», oggetto di riflessione specifico dei suoi scritti degli anni 60, avviatasi in modo particolare con le lezione tenute a Darmstadt nel 1961, da cui nascerà il saggio «Vers une musique informelle». È su questo sfondo trans-generi e dialettico che occorre indagare e misurare l’impatto ricettivo del messaggio adorniano, al fine di verificare la prestazione da questo svolta nei processi di ridefinizione del paradigma d’artista in Italia. Tali processi interessano sia l’individuazione di criteri teorico-artistici ed estetici – nuovi in merito alla definizione di opera d’arte, del ruolo svolto dal soggetto nel processo creativo, di espressione – sia la riflessione sul rapporto esistente tra l’ambito dell’opera e l’ambito della sfera dell’esistenza: in una parola, è in giuoco l’intera questione rappresentata dall’avanguardia. Si tratta di un elemento sostanziale del processo d’elaborazione di una identità artistica, che comporta l’onere della prova in merito ai criteri di legittimità della propria arte e al nuovo tipo di consapevolezza richiesto dallo stato dell’arte e della sua rinnovata funzione sociale.

Nel saggiare la misura e le modalità in cui l’ambiente pittorico italiano si è rivolto al pensiero di Adorno, abbiamo scelto un caso di studio particolare, ancora non dovutamente studiato e, in apparenza, minore: la vicenda di una rivista torinese, Questioni, che, nella seconda metà degli anni 50 del secolo scorso, traduce e mette a disposizione del proprio circolo di lettori testi inediti del filosofo tedesco, in grandissimo anticipo rispetto alla pubblicazione degli stessi saggi in volumi od in altre riviste.

Gli scritti adorniani in questione sono: «Teoria freudiana e caratteri della propaganda fascista» apparso nel numero 6, anno V, novembre 1957; «Moda senza tempo. Sul Jazz», pubblicato nel numero doppio 5–6, anno VI, settembre–ottobre 19587; «La maestria del maestro», comparso nel numero doppio 1–2, anno VII, gennaio–aprile 19598.

L’aver scelto Questioni come nodo della nostra indagine, ha la sua ragion d’essere nel carattere tutto particolare che la contraddistingue. Fondata nel 1953 a Torino dall’editore Mario Lattes con la dicitura Galleria di arti e lettere, la rivista cambia denominazione nel 1954, per differenziarsi da altra pubblicazione omologa di Caltanissetta, prendendo la sua dicitura definitiva Questioni, che la accompagnerà sino all’esaurirsi dell’esperienza nel 1960, conclusasi con un numero monografico dedicato a Robert Musil. La particolarità della rivista e del suo fondatore consiste nel fatto che Mario Lattes – al tempo stesso, editore, scrittore ed accreditato pittore, impegnato nel confronto con le tendenze europee in atto in campo pittorico: in particolare con la corrente dell’astrattismo e dell’informale – lega strettamente Questioni alla Galleria d’arte che egli apre nel 1953 all’interno della casa editrice Lattes, facendone, così, un foglio di aggiornamento e dibattito per il pubblico di pensatori e pittori che ruotavano intorno a lui, animato dalla ricerca di una via alternativa rispetto all’idealismo crociano imperante ed al marxismo in ascesa, vagliava quanto di nuovo si stava delineando in Europa9. Il contesto di nascita della rivista è tracciato, nella molteplicità delle sue direzioni, dallo stesso Mario Lattes:

Negli anni 50 fra Toti Scialoia, il pittore, e me era nata l’idea di una rivista di letteratura e arte. Ne parlammo a Milano con [Franco] Fortini e [Renato] Solmi. Doveva chiamarsi ‹Quaderno bianco›, si era già arrivati al menabò. Poi non se ne fece nulla, ma l’idea rimase. A Torino ne discutevamo con [ Piero] Bargis, [Libero] Bigiaretti, [Vittorio] Ciaffi, i Guiducci [Armanda e Roberto], [Oscar] Navarro (che aveva scritto un bel libro su Kafka) e lo scultore [Umberto] Mastroianni. Così nel 1953 uscì «Galleria» e aprimmo una galleria d’arte che non aveva scopi commerciali, ma che voleva accostare al pubblico pittori dei quali si parlava molto ma che non si erano mai visti o quasi. La prima mostra fu quella di Alfred Manessier. Il secondo anno la rivista prese il titolo che tenne, poi, fino alla fine: ‹Questioni›. E’ morta nel 1960. […] È durata 8 anni e ha avuto molti collaboratori: [Nicola] Abbagnano, Libero de Libero, [Enzo] Paci, [Edoardo] Sanguineti, [Albino] Galvano, [Gillo] Dorfles, [Gian Renzo] Morteo, [Bruno] Fonzi, [Angelo] Del Boca, Primo Levi, [Carlo] Gorlier, [Elémire] Zolla.10

Alle molte figure ricordate da Lattes, occorre aggiungerne altre che intervennero su Questioni: da Eugène Ioneso a Paolo Grassi, da Carlo Augusto Viano a Giorgio Bàrberi Squarotti, da Galvano della Volpe a Enzo Paci, da Simone Weil, appunto, a Theodor Wiesengrund Adorno. Quanto ricordato da Lattes chiarisce la centralità della piccola rivista, posta all’incrocio del traffico intellettuale più aperto e originale caratterizzante una città, come Torino, esemplare sul piano nazionale, per via della presenza in essa di una casa editrice-laboratorio come Einaudi e per essere al centro della rinascita economica e della trasformazione sociale che caratterizza il decennio 50–60. La rete di collaboratori ricordata da Lattes è, certo, fonte di approvvigionamento di testi altrimenti irreperibili in Italia, ma, in sé, non spiega ancora il motivo di interesse provato da parte del circolo di pittori intorno a Questioni per i testi adorniani. Maggior chiarezza su questo viene, quando si tenga conto che proprio Toti Scialoja è pittore impegnato, in quegli anni, a condurre il proprio stile di lavoro di impostazione espressionista, in direzione di sviluppi astratti, definitisi sempre più come informali. Scialoja, inoltre, è attivo non solo come pittore, ma, altrettanto, come poeta, sviluppando grande interesse per il mondo musicale; è, inoltre, grande conoscitore della cultura tedesca contemporanea. La rivista, che Lattes definisce «di letteratura ed arte», esce, così, dal generico, per situarsi, in modo programmatico, al centro del mobile e multiverso campo di forze agenti nell’ambito dell’arte, le quali, al farsi problematico di «tutti i criteri dettati dalla divisione in generi», come afferma Adorno11, richiedono una figura d’artista che, nel rivolgersi al nuovo, produca secondo una modalità analitica e critica. La natura dell’urgenza artistica che spinge Questioni ad un confronto con il pensiero adorniano si precisa ulteriormente, quando si tenga presente che una delle figure di spicco del comitato redazionale e dell’intera rivista, è Albino Galvano, pittore e teorico dell’arte riconosciuto a livello nazionale.

Allievo di Felice Casorati, compagno di Liceo di Giulio Carlo Argan, Galvano insegna Storia e Filosofia al Liceo d’Azeglio – tra i suoi studenti Edoardo Sanguineti – svolgendo contemporaneamente una intensa attività pittorica, caratterizzata da una ricerca artistica emancipata da residui figurativi ed orientata in senso astratto. La perlustrazione dei linguaggi dell’astrazione porta Galvano ad essere figura di spicco del Movimento di Arte Concreta torinese12, da cui prende, però, significativamente e progressivamente congedo, proprio negli anni di costituzione della rivista Questioni, non condividendone più il «rigorismo ideologico» di matrice geometrica13, ovvero, l’eccesso di formalismo. Unendo, all’attività pittorica, una attenta indagine sui fondamenti teorici della disciplina, Galvano interviene, così, nel dibattito filosofico sulla destinazione dell’arte nel contemporaneo promosso da importanti riviste nazionali, come nel caso del già menzionato fascicolo del 1953 dedicato da Archivio di Filosofia alla «Filosofia dell’arte», nonché, successivamente, della riflessione dedicata dalla rivista Il Verri, fondata da Luciano Anceschi, all’arte informale, cui è riservato il numero 3 dell’anno 1961. La differenza tematica rinvenibile negli scritti pubblicati da Galvano nelle due riviste registra, come un sismografo, il percorso di riflessione in divenire con cui l’artista-critico cerca di aprirsi un varco nella linea non-figurativa ed astratta della pittura contemporanea, ripensando i fondamenti della disciplina stessa. Nel saggio pubblicato su Archivio di Filosofia – «Storicità e significato dell’arte ‹astratta›» – Galvano delinea il processo di emergenza dell’astrattismo, definendo tale tendenza come «l’ultimo, coerente capitolo dello sviluppo [della cultura occidentale] quanto alle arti figurative»14. Incalzata, certo, anche dall’affermarsi della fotografia – che, in qualità di «sostituto» meccanico, la esonera da compiti di riproduzione fedele della realtà – ed esauritasi, dall’interno, l’epoca della sua dimensione rappresentativa, la pittura è sospinta, a giudizio di Galvano, dalla evoluzione storica in direzione dell’astrazione.

Non si possono avere così altri sviluppi – prosegue il pittore torinese – che in un totale sganciamento dalla rappresentazione che ha ormai raggiunto il punto limite della ‹riproduzione dal vero› […]; non si può avere altro svolgimento che nella totale obliterazione di questo elemento ormai divenuto accidentale al processo creativo, per riporre a fuoco l’elemento residuo del fatto figurativo stesso, il puro dato pittorico.15

Nella lettura lineare, per molti versi, deterministica che Galvano traccia dell’evoluzione compiuta dalla pittura dopo il suo esonero dalla funzione imitativa, si individuano, però, alcuni nodi tematici rilevanti e sintomatici di una riflessione teorico-critica focalizzata sul percorso ancora da aprirsi all’intento del mobile campo costituito dall’arte non-figurativa. Tale ‹fatica› prende voce nella nota di precisazione metodologica che Galvano pone subito in apertura del suo saggio:

Useremo in tutto lo scritto il termine ‹astratto› nel senso generico di ‹non figurativo›, anche se dagli artisti – specie all’estero – più giustamente si parla di arte ‹concreta›. Ma l’uso di questo termine ‹concreto› è ancora troppo tecnico nella cultura del nostro paese perché ne sia opportuna qui l’adozione.16

In questione è qui non una presunta immaturità della cultura italiana a recepire il termine «concreto» al posto di «astratto»; come Galvano ben sa e dimostra nel corso del suo saggio, l’oscillazione terminologica «astratto»–«concreto» è, invece, parte integrante della vicenda dell’astrattismo: in essa ne va della sua genealogia, come ricordano le periodiche revisioni terminologiche – autentiche cicatrici concettuali – operate da Vassilij Kandinskij nel definire il proprio percorso astratto17. L’operazione compiuta da Galvano è, quindi, piuttosto, da spiegarsi nei termini di una esigenza di chiarificazione in merito al proprio collocamento rispetto al Movimento dell’Arte Concreta, ovvero alle ragioni dell’insofferenza da lui avvertita nei confronti delle tendenze geometrizzanti del movimento: in definitiva, come un contributo di auto-riflessione critica sul movimento dell’arte non-figurativa. Muovendo da questa prospettiva si comprendono, allora, anche le prese di distanza compiute da Galvano, rispetto alle letture di matrice crociana, esistenzialista e, soprattutto, marxista in merito all’arte astratta: nel privilegiare la chiave etica di interpretazione rispetto a quella più propriamente estetica, a suo avviso, esse si dimostrano incapaci di porsi all’altezza del fenomeno moderno e dei suoi problematici sviluppi nell’ambito dei linguaggi artistici. Porre, infatti, al centro della propria riflessione il termine «concreto», richiamandosi a quella tendenza che Georges Roque ha definito «la più rigorosa dell’arte astratta, dunque geometrica, proprio l’opposto della tendenza ‹lirica› che Kandinskij rappresentava»18, significa enunciare quale sia l’urgenza sul piano pittorico che gli sta a cuore, il proprio problema: cioè l’accusa di «formalismo» rivolta all’arte non più figurativa di ascendenza astratto–concreta. In questo senso Galvano ricostruisce la genealogia di tale processo in ambito pittorico, ponendo in evidenza la dimensione spirituale che, sin dalla sua origine, ha legato tale tendenza con la forma:

‹Formalismo› – scrive l’artista – può voler dire pura meccanica di dati stilistici che non riescono ad organizzarsi in espressione: ed allora è formalistica ogni pittura accademica; oppure si intende quello che bisogna pur chiamare un determinato ‹contenuto›, cioè il gusto di trovar una sottile rispondenza (Einfühlung) tra quegli elementi di forma e di colore e un certo stato d’animo, contenuto drammatico, sereno o inquieto […].19

Il richiamo implicito al «soggetto», presente nel sentimento suscitato dalla forma non imitativa o non-figurativa, spiega come l’astrattismo e l’arte concreta riprendano, a vedere di Galvano, la strada aperta dal romanticismo, l’esigenza di espressione, depurandola, però, dai suoi momenti di caduta «accademica» e ormai «priva di vita». Gli «astrattisti (simili: suprematismo, zenitismo, ultraismo, neoplasticismo, costruttivismo ecc. infine arte ‹concreta›)» si sono, certo, rifiutati di identificare «contenuto», «soggetto», «sentimento», con una «descrizione illusiva o illustrata di scene capaci di esemplificare quel contenuto», ma non han mai negato «che nei loro quadri un ‹contenuto› o ‹soggetto› o ‹sentimento› vi fosse; ma han pensato quel contenuto o sentimento come il nucleo autentico da cui l’ordine del quadro nasceva e che solo gli conferiva coerenza, anche se evocato direttamente da un linguaggio formato di elementi grammaticali e sintattici puramente formali e non logici»20. Evidente emerge, nelle parole di Galvano, il fatto che, nel confrontarsi con i moderni processi di razionalità pittorica, il suo scritto miri, certo, a difendere l’astrattismo dalle critiche provenienti dall’esterno ma, al tempo stesso, ad aprire al suo interno un varco di uscita rispetto a quello che è il geometrismo di ascendenza «concreta»: nel far questa operazione usa la genealogia – nel linguaggio di Galvano: la storia – dell’astrattismo in contrapposizione alle tendenze che in esso spingono per una chiusura dell’arte nei propri rigori formali, nelle mere ricerche linguistiche, perdendo il richiamo all’esterno21. In questa ottica, il saggio del 1953 pone in luce ed affronta una questione nevralgica per l’arte che intenda essere moderna, cioè, in grado di motivare i criteri seguiti nel proprio esonero dalla precedente funzione mimetica; essa indica, al tempo stesso, un nodo essenziale della personale ricerca di Galvano all’interno della pittura non figurativa. Qualora, infatti, l’opera risulti solo un mero esercizio di autonomia formale, verrebbe a perdersi la funzione d’alternativa difesa dal rapporto, in negativo, intrattenuto dalla immagine astratta con la realtà data, che è, da essa, non più replicata. I richiami compiuti da Galvano nel testo al rapporto tra «nulla radicale dell’esistenza» e pittura astratto-concreta sostengono una tale chiave di lettura, che si interroga sulla necessità di considerazione dell’istanza del soggetto e della sua espressione. Ancor più, un passo conclusivo del saggio del 1953 sottolinea come il problema relativo all’eccesso di formalismo, costituisca croce della pittura astratta di Galvano e sintomo di un suo mutamento sia sul piano teorico che operativo: «In arte si tratta non di rappresentare quello che c’è, ma di artificiare, di ‹fabbricare› quello che non c’è, che ‹progettiamo›»22. Alla ricerca di una immagine pittorica opposta al positivo della realtà data e comunque non dimentica dei diritti dell’ambito della vita, Galvano si avvicina alla pittura informale, la quale è entrata con forza nella scena torinese degli anni 50 assieme al suo protagonista principale: Michel Tapié, il quale giunge nel capoluogo piemontese nel 1956, dando vita, già nel gennaio 1958, ad una importante mostra alla «Galleria Notizie Associazione Arti Figurative», in cui vengono esposte le opere del pittore informale tedesco Wols. La seconda metà degli anni 50 costituisce proprio la fase di transizione della pittura di Galvano dallo stile geometrico astratto a quello informale. Ricerca artistica di radicale rottura rispetto ad ogni formalismo, l’informale prosegue la strada della pittura non figurativa23, recuperando, però, elementi dell’espressionismo e riformulando in modo sostanziale il concetto stesso di opera d’arte, al cui centro si pone un genere tutto nuovo di immagine: non conciliata, attraversata al proprio interno da contrasti, tensioni, campi di forza, alla ricerca di un nuovo e diverso paradigma di forma; esondante rispetto ai limiti dello spazio chiuso e in rapporto assai particolare con il tempo. Tenendo conto di tali elementi, Renato Barilli definì nel 1961 in modo lucido il movimento informale come una sfida che «apre nuovi spiragli sulla natura teorica del far pittura, o scultura, o arte in genere.»24 La considerazione si trova nel contributo che Barilli pubblicò nel numero monografico, dedicato dalla rivista Il Verri nel 1961 al movimento informale25: nello stesso fascicolo, tra gli altri interventi, comparve lo scritto di Albino Galvano: «Arte come oggetto e arte come spettacolo». Il breve testo ha, per la nostra ricerca, molteplici motivi di rilevanza. Esso si costituisce, infatti, come scritto di testimonianza del replacement operato da Galvano nella propria indagine pittorica all’interno della linea non-figurativa dell’arte: l’apertura in direzione dell’informale è, infatti, risposta all’urgenza problematica costituita dal formalismo geometrico, sua alternativa ed indicazione di una nuova costellazione di questioni. L’impegno teorico estremo cui la via non-figurativa aperta dall’informale sottopone la pittura inerisce, infatti, alla ridefinizione dello statuto dell’opera pittorica. Galvano dimostra di cogliere la nuova dimensione problematica che si apre, in tale contesto, sia sul piano della produzione che su quello della ricezione, nel momento in cui sottolinea il contributo fornito dal movimento informale al passaggio dal modo d’essere organico dell’opera d’arte a quello che ne oltrepassa la tradizionale conchiusezza, separazione:

[…] Un aspetto che non appartiene all’Informale in senso proprio ma che ha reso possibile, almeno come ricerca non marginale ed eccezionale, è appunto questa prospettiva di ‹spettacolo› che si sostituisce a quella di ‹oggetto› nel prodotto dell’arte, anche in pittura.26

Non rientra nel lessico e nell’apparato concettuale di Galvano la definizione di opera aperta, portata, invece, nello stesso numero de Il Verri da Umberto Eco27; il termine opera-spettacolo, però, nel suo contrapporsi all’opera-oggetto indica con chiarezza una nuova modalità di concezione dell’opera d’arte, la cui fruizione non si risolve in un mero stare davanti ad essa, dal momento che la sua costruzione coinvolge il fruitore rendendolo «spettatore-attore», in ragione di quel processo per cui la superficie del quadro tende a prendere letteralmente campo, a fuoriuscire: in questo senso, a scivolare nella dimensione del tempo. In modo indiretto Galvano delinea a grandi tratti tali aspetti propri dello stile non-figurativo dell’informale in un passo importante del suo intervento:

Il processo dei rapporti tra spettatore e spazio si rovescia nuovamente. Certo l’oggetto o il quadro informale vivono nel campo isolato di ogni opera d’arte, fuori dello spazio fisico. Ma nell’opera informale, e solo in essa, è lo stesso spazio fisico che tende a risolversi totalmente in quel campo, a dissolversi in esso, trascinando con sé l’osservatore, diventato spettatore-attore dello spettacolo. Infatti non più trattenuto entro i confini di una severa geometria, l’oggetto tende a colare, il quadro ad espandersi sino a coprir la parete, sempre, materialmente o idealmente, teso oltre quel confine occasionale, e, nella misura in cui dilatando il suo spazio reale corrode quello fisico, volta a portar il riguardante in quella dimensione ideale con la totalità del suo corpo.28

In questo lungo ed articolato passo si trova la risposta finalmente trovata da Galvano al pericolo di formalismo della pittura non-figurativa di ascendenza geometrica. Qui trova risposta la sua ricerca di una diversa razionalità dell’immagine, che si spinge sino all’estremo di una teoria dell’opera d’arte come performativa e spettacolare, senza, però, giungere a tutte le conseguenze insite nel concetto adorniano di «sfrangiamento», fenomeno che attraversa i singoli generi artistici e li muta dal loro interno.

Nel 1961, l’anno stesso in cui Il Verri pubblica il numero dedicato all’informale, Adorno tiene agli «Internationale Ferienkurse für Neue Musik» di Darmstadt il ciclo di due lezioni, poi pubblicate sotto il titolo: «Vers une musique informelle»29. Si tratta, come noto, di un contributo teorico di svolta all’interno della riflessione adorniana, e nevralgico, per più ragioni: dal punto di vista della nostra indagine, esso risulta essenziale a comprendere il motivo della presenza dei testi adorniani in Questioni; inoltre, quell’intervento risulta nevralgico dal punto di vista della posizione teorica maturata da Adorno nei confronti della ricerca artistica post-bellica. «Vers une musique informelle» costituisce, infatti, una revisione, senza completamente disconoscerne le ragioni, della posizione fortemente critica formulata dal filosofo tedesco sul percorso tendenziale seguito dalle avanguardie musicali di tipo seriale in Invecchiamento della musica moderna del 195430. Le ragioni di quel dissenso si incentrano sulla «perdita di tensione espressiva», di «rinuncia ai mezzi linguistico-musicali» e sulla «fede cieca in una concezione scientifica del comporre» rinvenibile in molti lavori seriali, come nota Gianmario Borio31. Spinto ad una riflessione critica su se stesso da un intervento di Heinz-Klaus Metzger del 1957, Das Altern der Philosophie der neuen Musik32, e da una più attenta considerazione delle novità provenienti dai lavori più recenti realizzati dagli artisti dell’avanguardia musicale, Adorno pronuncia le sue lezioni operando uno spostamento categoriale importante: preleva il termine «informale» dall’ambito pittorico, per verificarlo su quello musicale. Nei primissimi passaggi del proprio ragionamento, il filosofo rende manifesta tale operazione: «Ho inventato la parola d’ordine musique informelle in francese, intendendola come omaggio a quel paese in cui la tradizione dell’avanguardia è tutt’uno con il coraggio civile di pubblicare manifesti.»33 Il riferimento compiuto da Adorno va, qui, alla Francia in senso allargato, come paese esemplare, in cui l’avanguardia artistica si segnala per l’impegno «civile» a formulare manifesti. La scelta dell’espressione francese non sembra riconducibile in modo specifico a Michel Tapié, padre del termine «informel». Adorno, per parte sua entra in diretto contatto, invece, con quella corrente pittorica in Germania, visitando, assai probabilmente34, l’importante mostra tenuta dal gruppo «Quadriga» – che cercava un proprio collocamento rispetto all’informale – a Francoforte, presso la Galleria «Franck» nel dicembre 1952, ovvero un anno esatto dopo l’inaugurazione della mostra parigina «Signifiants de l’informel», organizzata da Tapié presso la Galleria «Studio Facchetti» nel novembre. Alla mostra francofortese partecipa, tra gli altri, Bernhard Schulze, da Adorno citato in «Vers une musique informelle» quale esempio di una ricerca artistica parallela a quella che aveva luogo in ambito musicale35. Il riferimento compiuto da Adorno al movimento informale è, dunque, precisato e contestualizzato, a conferma di come la riflessione filosofica ed estetica di Adorno muova sempre da un confronto con le opere: in questo caso, con la nuova struttura formale dell’opera musicale e pittorica. È proprio sul Werkbegriff, sul modo di concepire l’opera, che si incentrano le riflessioni adorniane, lontano da sovrapposizioni di campo, da analogie confuse, da «pseudomorfosi» tra pittura e musica. «Le arti convergono solo là dove ognuna persegue solamente il proprio principio immanente», scriverà pochi anni dopo in Su alcune relazioni tra musica e pittura (1965). Nel contesto del discorso adorniano, la «parola» musique informelle serve a intercettare e visualizzare «effettivamente una tendenza, qualcosa in divenire» non meglio definibile: «Una volta Nietzsche, che non era un cattivo testimone dei fatti musicali, disse che ogni realtà storica si sottrae al procedimento semiotico di definizione»36. Tale tendenza, che è campo di insorgenza di una forma ancora da definire, è chiaramente rinvenibile, secondo Adorno, sia in ambito pittorico che musicale, a conferma di quel processo di «sfrangiamento» dei generi artistici che egli comincia ad individuare quale fattore rilevante di trasformazione dell’ambito artistico. La tendenza che attraversa le arti è quella dell’oltrepassamento del concetto organico ed armonico di opera, del ruotare sempre più decisamente della pittura nell’ambito del tempo e della musica in quella dello spazio. Borio riassume in modo preciso i caratteri di tale movimento tendenziale, individuati da Adorno:

Nelle opere di genere informale […] non si può mancare di notare una ipersensibilità contro ogni concezione di forma chiusa, data in partenza o pianificata prima: l’ideale della libertà senza concessioni e la istantaneità del gesto vietano limitazioni formali di qualsiasi genere;37

ciò non significa, però, che l’esodo da ogni riferimento oggettuale comporti, per questo, una affermazione del privo di forma: si tratterebbe, infatti, pur sempre di un approdo positivo, che la natura tendenziale, in divenire dell’arte informale non può accogliere. Arte informale, piuttosto, prende le mosse là dove Adorno, continua Borio, formula, senza svilupparlo sino in fondo, il concetto di «nominalismo estetico», atteggiamento con cui il soggetto artistico «scioglie la gerarchia della composizione totale in un continuum delle tracce pittoriche»38. Tale processo indica un punto importante di superamento, da parte dell’arte informale, del rigido geometrismo dell’astrazione, costituendo opportunità di reinserimento dei diritti del soggetto, dell’espressione non conciliata dell’«angoscia», nei termini adorniani. Pur se il soggetto, «in cui l’arte, nel cammino del nominalismo occidentale, si era illusa di aver trovato un elemento irrinunciabile, la propria sostanza» è diventato «fake»39, tuttavia, «bisogna guardarsi – afferma ancora Adorno in ‹Vers une musique informelle› – dall’interpretare questo disagio nei confronti dell’espressione come svolta verso un ideale positivo di un cosmo musicale, in cui i soggetti che si esprimono sono superati a tal punto, che l’espressione dell’individuo isolato perde valore e diventa superflua»40. Dimenticare i diritti del soggetto, significa, infatti, cancellare

l’unico momento non meccanico e vitale che si protende nelle opere d’arte […]. Da un lato la musica non può assomigliare al soggetto: oggettivandosi, diventa qualcosa di qualitativamente diverso da ogni soggetto, fosse anche quello trascendentale. Dall’altro lato essa non può neppure evitare di assomigliare al soggetto, altrimenti diverrebbe assoluta alienazione senza raison d’être.41

È su questa articolata e aperta modalità di uscita da ogni formalismo, per così dire, da ogni rigorismo geometrico, nell’intento di proseguire la strada nel non-figurativo, inteso quale rifiuto del positivo, che possiamo tornare alla ricezione, al supporto lontano che Adorno presta agli artisti di Questioni, di cui abbiamo colto la voce nelle riflessioni di Albino Galvano. Di questa indicazione estrema ed aperta, di questo disporsi della riflessione adorniana ad essere materiale per ulteriore fatica della forma è, del resto, testimonianza la chiusura del suo intervento «Vers une musique informelle»:

La musica informale è un po’ come la pace eterna di Kant; il filosofo la pensava come possibilità reale e concreta, che può essere realizzata, e al contempo come idea. Oggi la figura di ogni utopia artistica è fare qualcosa senza sapere cos’è.42

Così torniamo a Questioni, in particolare al saggio adorniano pubblicato nel numero doppio 1–2 del gennaio–aprile 1959: «La maestria del Maestro». Frutto di un intervento alla radio tedesca Norddeutscher Rundfunk del 1958, pubblicato successivamente in forma di testo in Musikalische Schriften – Klangfiguren nel 1959 presso la casa editrice Suhrkamp, il contributo adorniano precede di poco la svolta di «Vers une musique informelle»; rappresenta una stazione, un tratto di ripensamento sul tema della rigidità formale, della critica al dominio del materiale. In questo senso, vale esattamente come supporto alla ricerca di un pittore come Albino Galvano, in quegli anni già congedatosi dall’astrattismo geometrico ed in ricerca di una via non-figurativa di impronta informale: ciò spiega un primo motivo di interesse da parte di un circolo di pittori per un argomento a tema musicale. Si tratta, però, solo di un primo elemento.

«Maestria del Maestro» ruota intorno a Arturo Toscanini direttore d’orchestra. «Un determinato genere di metodicità, chiarezza, lucidità caratterizzava la sua esecuzione pur tanto ricca di slancio e brio; mancava ogni che di indefinito ma anche ogni aperto arbitrio del dirigente»43. Tale scelta contiene in sé elementi di progresso, in quanto la «conquista» toscaniniana, prosegue Adorno, ha un preciso significato storico; «essa coincide con un periodo di autoriflessione critica della musica», quello di un’epoca fattasi «suscettibile» contro i travisamenti operati dall’esecuzione musicale tardoromantica:

L’orrore per il gesto volutamente affascinante della cosiddetta personalità, che proprio allora migrava dalla musica nella politica – e naturalmente anche l’allergia che cominciava a manifestarsi contro tale espressione – si collegò con un senso di responsabilità estetica che andava formandosi nella consapevolezza della struttura della grande musica e che preferiva un’esecuzione adeguata al senso musicale piuttosto che non una, sorgente dalla arbitraria proiezione di sentimenti soggettivi sui testi degli spartiti.44

La prestazione storica svolta dal gesto dirigenziale di Toscanini è, dunque, sulle prime quella di una resa dei conti con quello che Albino Galvano in «Storicità e significato dell’astrattismo» definisce il culto del «puro soggettivismo dell’individuo»45, per cui l’esattezza dell’esecuzione rappresenta il livello più alto della autocoscienza critica della musica, secondo Adorno. Questo processo di pulitura del gesto, questo svolgere, da parte di Toscanini, il ruolo del «Settembrini della musica» mostrandosi membro di una «humanitas razionale», si rivela, però, in definitiva essere figura del dominio.

La sua [di Toscanini] suscettibilità verso il casuale ed il decorativo è quello di un domatore: guai a fallire per un attimo. […] Questo assoluto basarsi sullo strumento fine a se stesso rappresenta, nello stile di Toscanini, un momento che in seguito si manifestò fatale anche ad alcuni compositori: il predominio dei mezzi sullo scopo, il feticismo. Sotto lo sguardo fulmineo di Toscanini la musica viene ridotta a materiale prefabbricato.46

In questa disamina critica del gesto del direttore-domatore torna, velatamente e per via indiretta, la critica a quei processi di razionalizzazione, di irrigidimento nelle angustie del linguaggio di cui Adorno parla nei suoi interventi dei primi anni 50, ma si svolge in direzione di una apertura ad un altro gesto, che si fa buon amico del caso, di quella «dolcezza» che il gesto controllato spegne. Tale apertura si segnala in un passo centrale e bellissimo di «La maestria del Maestro»: «L’unità che riesce a Toscanini e dalla quale emana a prima vista tanta forza di suggestione, ignora la resistenza che è insita nella materia. Essa si svolge meccanicamente come un nastro trasmettitore»47. Dominare la musica anche là dove essa non vuole andare, eliminare ogni traccia di resistenza, di negatività, di libertà. In questa meccanizzazione dello spirito, il perfezionismo di Toscanini si fa, da progressivo, regressivo. È proprio qui che la posizione di Adorno si rivela come ulteriore motivo di interesse per i pittori di Questioni: egli vale come promotore di una diversa identità d’artista. Il gesto del direttore che non resiste è, in realtà, il gesto del pittore informale che non riduce le tensioni, le contraddizioni del materiale pittorico al proprio dominio, ma le presenta. Nell’immagine che, non-figurativa, va contro l’apparenza e si oppone al positivo, riemerge, così, l’espressione dell’«angoscia», l’arte difende ancora la propria antiteticità alla realtà data ed, in questo, ristà quella che Adorno chiama una felicità presente senza parere. I pittori riuniti attorno a Questioni guardano a questo, in una ricezione che, come sempre, contiene libertà.

  1. Tra le riviste italiane, non di carattere musicale, più impegnate nella ricezione del pensiero di Th. W. Adorno tra gli anni 50 del secolo scorso ed i primi anni 60 vale segnalare: Aut-Aut, Archivio di filosofia, Comunità, Il Contemporaneo, Il pensiero critico, Il Verri, L’approdo letterario, Rinascita, Rivista di estetica.
  2. La rivista ospiterà ancora uno scritto del filosofo tedesco nel numero 2–3 del 1956, numero monografico dedicato a «Filosofia e simbolismo»; si tratta di: «Musica e linguaggio e loro rapporto nelle composizioni contemporanee».
  3. Vlad, Roman: «Recensione a Th. W. Adorno, Philosophie der neuen Musik», in: La Rassegna Musicale, ottobre 1950.
  4. Gianni Carchia curerà negli anni 70 una edizione degli aforismi non inseriti nel volume einaudiano, con il titolo: Minima immoralia. Aforismi tralasciati nell’edizione italiana (Einaudi 1954), in: L’Erba voglio, Milano 1976.
  5. Fortini, Franco: «Il caso Adorno», in: Notiziario Einaudi, a. III, nr. 12, dicembre 1954. Importante segnalare come, nello stesso numero del Notiziario, venga recensito Espressionismo e dodecafonia di Lugi Rognoni, pubblicato lo stesso anno presso la casa editrice torinese.
  6. Valgano qui le indicazioni dei due principali volumi che raccolgono lo state of art della ricezione adorniana in Italia: Angelini, Aurelio (a c. d.): Adorno in Italia, Siracusa: Ediprint 1987, Ferrari, Massimo/Venturelli, Aldo (a c. d.): Theodor Wiesengrund Adorno: la ricezione di un maestro conteso, Firenze: Olschki 2005. Per un orientamento, invece, in merito al peso svolto dal pensiero di Adorno in ambito musicale, si veda l’imponente tesi di laurea di Stefano Marino (relatore Carlo Gentili), La ricezione dell’estetica musicale di Th. W. Adorno, Università degli Studi di Bologna, aa. 2000–2001.
  7. La traduzione del saggio adorniano – originariamente scritto nel 1953 e pubblicato lo stesso anno in: Merkur – compare in Questioni a firma Elémire Zolla, accompagnata dalla notazione redazionale: «Per concessione Ed. Einaudi, Torino». Il testo verrà pubblicato per la prima volta in volume in Italia in: Prismi, nel 1972 dall’editore Feltrinelli, tradotto, però, da Enrico Filippini. Zolla si era, per altro verso, confrontato con il pensiero adorniano in un articolato intervento pubblicato in: Rivista di estetica, a. II, nr. 3, (sett–dic.) 1957 dal titolo «La musicologia di T. W. Adorno».
  8. Il testo adorniano verrà tradotto per la prima volta in un volume a cura da Gianmario Borio: Theodor Wiesengrund Adorno, Immagini dialettiche. Scritti musicali 1955–1965, Torino: Einaudi 2004.
  9. È importante notare come un’altra rivista, Tempo Presente diretta da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone, pubblichi, con grande tempismo, nel fascicolo nr. 3 del 1959 uno scritto di Theodor Wiesengrund Adorno: «La conciliazione forzata: Lukács e l’equivoco realista». Il saggio adorniano era uscito solo un anno prima nella rivista Der Monat, fascicolo 122, a. XI (1958). Rispetto a Questioni, però, Tempo Presente è animato da intenti più marcatamente politico-culturali, di impronta liberale rispetto al comunismo ed alla gerarchia cattolica.
  10. L’intervista a Mario Lattes è comparsa nella rivista Musica e scuola, numero del febbraio 1993.
  11. Adorno, Theodor Wiesengrund: Über einige Relationen zwischen Musik und Malerei (1965), Berlin: Akademie der Künste 1967, ora in: Adorno, Theodor Wiesengrund: Gesammelte Schriften – Klangfiguren – Musikalische Schriften, hg. v. Rolf Tiedemann, Vol. III, Frankfurt/M.: Suhrkamp, 1978, tr. it. in: Adorno (a c. d. Borio) 2004, p. 312. Il testo era stato pubblicato precedentemente nel numero 7 (14), maggio 1967 della rivista Collage, sulla cui rilevanza per la ricezione della filosofia della musica adorniana in Italia si veda: Borio, Gianmario: Musikalische Avantgarde um 1960. Entwurf einer Theorie der informellen Musik, Laaber: Laaber Verlag 1993. Lo stesso testo adorniano viene successivamente pubblicato, in forma non integrale, nel nr. 3, anno 1969 della rivista Il Verri: in questa versione manca, infatti, l’importante richiamo fatto da Adorno nel proprio scritto a Benedetto Croce in merito all’oltrepassamento della distinzione tra i generi.
  12. Berni Canani, Luciano: Il movimento Arte Concreta a Torino e in Liguria. 1949–1956, Sarzana (Sp): Cardelli & Fontana 2014, p. 6. Per una panoramica sulla scena artistica torinese di quegli anni si veda, tra gli altri, Tordella, Piera Giovanna: «Torino», in: Pirovano, Carlo (a c. d.): La pittura in Italia. Il Novecento/2. 1945–1999, 2 voll., Milano: Electa 1993, vol. I, in particolare pp. 395–402. Importante ricordare, tra le altre esposizioni cui Galvano partecipa, la Biennale di Venezia del 1948.
  13. Tordella 1993, p. 399.
  14. Galvano, Albino : «Storicità e significato dell’arte ‹astratta›», in: Archivio di filosofia, 1953, p. 187.
  15. Ibd.
  16. Ibd., nota 1.
  17. In merito alle oscillazioni terminologiche occorse a Kandinskij nel definire l’arte astratta e per collocare all’interno di essa la propria poetica si veda, in particolare: Roque, Georges: Qu’est-ce que l’art abstrait? Une historie de l’abstraction en peinture (1860–1960), Paris: Gallimard 2003, tr. it., Roma: Donzelli 2004, pp. 83–86. Nel suo studio Roque tratta anche dell’importante contributo alla definizione dell’arte di Kandinskij fornito dal filosofo Alexandre Kojève, suo nipote, il quale, nel luglio del 1936, scrive «Les peintures concrétes de Kandinskij», pubblicato in forma parziale nel 1966 e, in versione completa, nel 1985 in: Revue de Métaphysique et de Morale, 2, aprile–giugno 1985.
  18. Roque 2004, (tr. it.) p. 86.
  19. Galvano 1953, p. 187.
  20. Ibd., pp. 198–199. Pensiero analogo viene sviluppato da Galvano in altro passo del suo scritto, in cui tocca l’aspetto rilevante costituito dalla valenza conoscitiva dell’arte astratta. «Proprio ciò che io contesto – scrive il pittore – […] è che si possa affermare che l’arte più acutamente ‹moderna› intende non aver ‹contenuto› né ‹soggetto› né ‹sentimento›, quasi a parallelo di teorici incauti, che sostengono che l’arte non sia né debba essere ‹conoscenza› di qualcosa, bensì ‹arte pura›, cioè invenzione non legata a nient’altro che alla propria libertà e gratuità» (ibd., p. 198). In merito alla prestazione conoscitiva svolta dall’arte non-figurativa sul piano dell’esperienza di sé nell’esperienza dell’altro, per usare la terminologia di Hans Robert Jauß, Galvano si esprime proprio in apertura del saggio, segnalando che è possibile ritrovare «il riflesso della propria interiorità» anche «nella purezza elementarmente allusiva di forme e segni» (ibd., p. 188).
  21. Vale segnalare il tentativo operato da Galvano di recupero dell’arte concreta di Piet Mondrian nel superamento del formalismo dell’arte astratta: «Questa funzione sociale dell’arte concreta ha avuto un teorico illustre: il fondatore del ‹neoplasticismo›: Pio[e]t Mondrian. Dopo gli inizi realistici in pittura, mistici nell’atteggiamento pratico di fronte alla vita, [egli] volse quegli ideali senza rinnegarli a posizioni più umanamente e storicamente concrete trasformandoli in ideale sociale nella vita, nell’adesione alla più spogliata forma di arte ‹concreta›. Ma di un impegno così lontano da ogni ‹formalismo› gli rimase la fondamentale coerenza di un rifiuto ad ogni condiscendenza sensualistica o semplicemente edonistica in quelli che dovranno per lui essere i fondamenti di una ‹città› nuova» (Galvano 1953, p. 200). Importanti sono, nel contesto di riflessione sviluppato da Galvano, anche gli spunti sviluppati in merito al momento della creazione dell’opera nel caso dell’arte astratta: «Altro è dire che ogni opera d’arte […] è ‹imitazione› che tende senza raggiungerlo mai pienamente al limite della assoluta ‹creazione›, altro è credere che imitare voglia necessariamente dire ‹riprodurre› otticamente» (ibd., p. 200).
  22. Ibd., p. 203.
  23. Su questo: Borio 1993, p. 83.
  24. Il Verri, nr. 3, 1961. Le indicazioni bibliografiche che qui daremo si riferiscono alla riedizione del volume presso la casa editrice Mimesis: Passaro, Maria (a c. d.): L’informale, Milano/Udine: Mimesis 2010, p. 49.
  25. Barilli, Renato: «Considerazioni sull’informale», in: Il Verri, nr. 3, 1961, Edizione Mimesis, pp. 47–62.
  26. Galvano, Albino: «Relazioni dell’informale», in: Il Verri, nr. 3, 1961, Edizione Mimesis, pp. 171–172.
  27. Eco, Umberto: «L’informale come opera aperta», in: Il Verri, nr. 3, 1961, Edizione Mimesis, pp. 91–115.
  28. Galvano 1961, p. 173. In merito alle mutazioni delle condizioni di esperienza determinato dall’opera d’arte informale in pittura, Galvano si sofferma in modo stringato significativo ancora in altro passo del suo contributo: «Ma ancora, perché lo spazio in cui l’oggetto si costituisce, per un verso è coerente fisicamente allo spazio in cui si muove l’osservatore, per un altro è esteticamente del tutto separato da esso, sia che ciò avvenga attraverso l’illusività ottica della prospettiva pittorica sia che, nel caso della scultura, costituisca un ‹campo› chiuso all’utilizzazione strumentale che dello spazio fisico è propria» (ibd., p. 172).
  29. Le lezioni tenute da Adorno con il titolo «Vers une musique informelle» vengono pubblicate inizialmente, in forma abbreviata, nei Darmstädter Beiträge zur Neuen Musik del 1961. Il testo, in forma completa, viene pubblicato in Quasi una fantasia. Musikalische Schriften II, presso l’editore Suhrkamp a Frankfurt/M. nel 1963. Per una dettagliata ricostruzione e considerazione dell’intervento adorniano si veda, in particolare: Borio 1993, pp. 102–118.
  30. Adorno formulò, in origine, Das Altern der neuen Musik come conferenza radiofonica tenuta al Süddeutscher Rundfunk nell’aprile del 1954, pubblicandola poi nel 1955 nella rivista Der Monat e, successivamente, in forma estesa in Dissonanzen. Musik in der verwalteten Welt, presso la casa editrice Vandenhoeck & Ruprecht nel 1956.
  31. Borio, Gianmaria: «Introduzione», in: Adorno (a c. d. Borio) 2004, p. X.
  32. Metzger, Heinz-Klaus: «Das Altern der Philosophie der neuen Musik», in: Die Reihe, 1958, Nr. 4
  33. Adorno, Th. W.: «Vers une musique informelle», tr. it. in: Adorno (a c. d. Borio) 2004 , p. 237.
  34. Su questo si vedano le ipotesi ricostruttive della probabile visita di Adorno alla mostra formulate da Gianmario Borio a p. 90 nota 45 del suo già citato Musikalische Avantgarde (Borio 1993).
  35. Adorno (a c. d. Borio) 2004, p. 266. Da notare il fatto che uno degli artisti di spicco del gruppo «Quadriga» è Karl-Otto Götz, assiduo frequentatore degli Internationale Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt sin dal 1953.
  36. Ibd., pp. 237–238. Adorno riprende qui, probabilmente, un passo di Genealogie der Moral, seconda dissertazione, 13, in cui Nietzsche scrive: «Tutte le nozioni, in cui si condensa semioticamente un intero processo, si sottraggono alla definizione; definibile è solo ciò che non ha storia».
  37. Borio 1993, p. 86.
  38. Ibd., p. 86.
  39. Adorno (a c. d. Borio) 2004, p. 244.
  40. Ibd., p. 243.
  41. Ibd., pp. 266–267.
  42. Ibd., p. 279.
  43. Adorno, Th. W.: «La maestria del Maestro», in: Questioni, a. VII, nr. 1–2, gennaio–aprile 1959, p. 10.
  44. Ibd.
  45. Galvano, Albino: «Storicità e significato dell’astrattismo», in: Archivio di filosofia, 1, 1953, nr. 1, p. 191.
  46. Adorno, Th. W. «La maestria del Maestro», in: Questioni, a. VII, nr. 1–2, gennaio–aprile 1959, p. 12.
  47. Ibd., p. 12.