Ade Zeno: L’incanto del pesce luna
Torino: Bollati Boringhieri 2020 (Varianti), 185 pp., Euro 16,50
ISBN: 978-88-339-3219-4

· Patrizia Farinelli ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-F44D-0

Nel contesto della narrativa di tendenza postmodernista erano frequenti le rivisitazioni del gothic. L’esempio più calzante nel contesto peninsulare è offerto dall’opera di Michele Mari, ampiamente segnata dalla presenza di figure di mostri – per lo più di mostri che rimandano, attraverso caricature e deformazioni, a personaggi letterari, proprio nel segno di quel discorso metanarrativo critico e autocritico notoriamente perseguito dallo scrittore in questione. Ben più rara è invece la ripresa di motivi del fantastico di gusto gotico nella narrativa italiana più recente, contraddistinta in gran parte da un’attenzione per il vissuto e dove elementi di orrore vengono semmai cercati sul terreno della storia. In questo senso il romanzo di Ade Zeno, L’incanto del pesce luna, premiato al Campiello del 2020 dalla giuria dei letterati, va certamente controcorrente.

L’autore evita il confronto con le tragedie storiche per proporre, fuori da una precisa collocazione temporale, un’amara riflessione antropologica e sociologica sull’umanità, tutta fondamentalmente infelice, divisa fra chi divora e chi è divorato (a sua volta divoratore) e lo fa attivando in modo potente l’immaginazione. Per il suo romanzo sfrutta allora il motivo del vampiro, frequentissimo nel fantastico orrifico. Guidati nel loro agire da Fame, «la sciagura più antica del mondo» (p. 98), i suoi personaggi non si fanno scrupoli pur di saziarsi. La fame (termine che lʼautore evidenzia col corsivo) ha tante facce ne L’incanto del pesce luna: allegoria di ciò anima potenti poteri occulti (la Famiglia, «tribù di consanguinei radicata nei tessuti di questo Paese da oltre un secolo», p. 50), la fame è nel romanzo anche la motivazione che spinge scaltri giornalisti a scoprire verità scomode, atte a far notizia, ma sta altresì per quel bisogno di denaro a fin di bene che pone perfino l’individuo con le carte in regola, qui rappresentato dal protagonista della vicenda, di fronte a scelte in cui il confine tra comportamento etico e bestialità si assottigliano. Nella riflessione affrontata da Ade Zeno si focalizza dunque anche il concetto di complicità, come emerge tra l’altro in un dialogo in cui la creatura insaziabile, rivolta al protagonista, gli ricorda i termini del patto col diavolo: «Se a suo tempo ho voluto sceglierti come collaboratore, è perché l’essenza della tua fame mi sembrava identica alla mia. Te lo si leggeva negli occhi che eri come me» (p. 165).

Costui, vittima e carnefice, spinto dai casi della vita ha finito per muoversi tra luoghi dalle porte chiuse che danno accesso all’«altro» e all’oltre: la Villa della Signorina, dove si consuma ripetutamente un atto mostruoso (reminiscenza letteraria ben leggibile in termini sovraletterari); la Clinica, dove vegetano semivivi pazienti con precluso ritorno alla vita, e infine il Tempio Crematorio: tutti luoghi della morte che forniscono a questa figura d’uomo lucido e pieno di controllo, ma interiormente angosciato, abbondante materiale per constatare ripetutamente la spietatezza della vita. Nel Tempio il nostro Gonzalo andava in qualità di apprezzato cerimoniere funebre: era lì che con buona retorica e talento d’attore (p. 25) si guadagnava lo stipendio; nella Villa avrebbe poi trovato modo di ottenere più laute entrate grazie al segreto disbrigo di lavori non ordinari; nella costosa Clinica si reca invece da anni come padre abbattuto ma non privo di un filo di speranza: nelle sue visite sussurra alla figlia le originali fiabe che aveva inventato per lei quando era bambina e confida che il suo corpo inerte recepisca almeno un soffio, un suono di quanto lui delicatamente le propone.

Entrano nel romanzo, come accennato, degli elementi di recupero, quasi a segnare quella legge che è anche del letterario per cui nulla si genera dal nulla. Il mostruoso celebrato nei luoghi blindati di Villa Marisòl rimanda appunto ai sotterranei dei castelli che popolano la narrativa del fantastico inquietante, mentre la fuga dalla Clinica fa pensare ai film d’azione. Il castigliano prescelto per i nomi di luogo e di persona, che maschera (e al contempo generalizza) contesti noti, non può non attivare poi, anche in ragione del nome del protagonista, il ricordo di strategie presenti ne La cognizione del dolore di Gadda; e, ancora, la raffinata struttura di dialoghi monologizzanti intessuti come giochi di potere, dove l’interrogante anticipa anche le risposte e le obiezioni dell’interrogato, pare evocare certi dialoghi caratteristici della narrativa di Tabucchi, ad esempio quelli presenti in un racconto come «Il batter d’ali di una farfalla a New York può provocare un tifone a Pechino?« della raccolta LʼAngelo nero. Ecco qui, allora, a titolo di esempio, lo stralcio di un dialogo da L’incanto del pesce luna:

Sto divagando lo so, un altro dei miei difetti, parlo troppo. Se fossi un cialtrone in vena di confidenze le confesserei che è una tecnica per frastornare la vittima prima dell’affondo. Un poʼ come fanno certi serpenti quando ipnotizzano il bersaglio. Si tranquillizzi, non sono un cialtrone, e purtroppo non so esercitare la nobile arte dell’incanto. Però in un certo senso lei è la mia preda, questo sì, una preda che non azzannerò, ma che comunque non ho intenzione di lasciarmi scappare.

Lo vede avevo promesso di non parlare di me, e invece ho detto molto più di quanto non volessi. Ora riprendo il filo, non posso abusare della sua pazienza. Finisca il caffè, intanto, se ha bisogno d’altro deve solo chiedere.

Allora veniamo a lei, Gonzalo. O per meglio dire a ciò che so di lei. Solida formazione letteraria, brillante percorso universitario, matrimonio felice con una splendida ragazza, arrivo ancora più felice di una nuova creatura a cui avete dato un nome delizioso. Poi inizio del nuovo lavoro nel Tempio Crematorio e otto anni per scoprire, più o meno inaspettatamente di essere diventato un professionista, un distillato talento che nessuna azienda sarebbe tanto stupida da lasciarsi soffiare […]. Ma ecco che qualcosa va storto, una tesserina si stacca dal mosaico e lo manda in frantumi (pp. 47–48).

Se operazioni originali di recupero, inventività e scioltezza narrativa guidano l’intero romanzo, almeno due aspetti testuali meritano specifico rilievo: innanzitutto l’accurato registro espressivo che prevede un’alta frequenza di eufemismi in relazione agli oggetti scabrosi di cui si fa parola ovvero a luoghi e atti correlati alla morte e all’esercizio del potere. In secondo luogo l’uso dell’elemento onirico. L’inserzione, nella trama, degli incubi del protagonista, di sogni in cui questi immagina di venire divorato o di divorare lui stesso una vittima – inserzione che avviene improvvisamente attraverso il ricorso a un narratore autodiegetico – porta a far oscillare anche i confini della dimensione cosciente della vicenda: incubi che si pretendono sognati e incubi che si pretendono vissuti finiscono così per porsi lungo quel continuum di controllato e incontrollabile di cui si fa l’esistenza del nostro protagonista e dell’uomo più in generale.

Chi aveva preceduto Gonzalo nel lavoro scabroso presso la Villa gli aveva suggerito di andare avanti in quella occupazione trovando il modo «di alimentare illusioni utili» (p. 64). Queste non gli mancano, ma è conscio che la vita ben di rado le realizza e, in assenza di un Dio cui affidarsi, le alimenta con l’immaginazione: a sé stesso e a chi tiene per caro quest’uomo racconta fiabe.

Anche la fiaba del pesce luna, cui si accenna nel titolo, promette al suo antieroe, Re Tristezza, un finale luminoso. Se vivere è un inferno, pensa Gonzalo, se le forze del caso ti spingono in un angolo di mondo in cui ti arrangi come puoi prima di essere inghiottito da qualcuno o qualcosa che ti sovrasta, proprio come l’insetto che è sopravvissuto in un angolo asciutto della cabina doccia e che non avrà tuttavia scampo (p. 104), non resta che l’immaginazione per colorare l’esistenza e renderla sopportabile per fronteggiare la disperazione di vite vampirizzate: magari l’immaginazione concretizzata in una fiaba non dolciastra (che fa ipotizzare tuttavia un lieto fine) o in una canzone pop da riascoltare mille volte, come fosse un talismano di felicità.

Raccontare storie, costruendo un mondo alternativo, è una modalità di sopravvivenza (paradigmatico in questo senso il racconto di cornice del Decameron); allo stesso tempo e in primo luogo è, come ogni valida operazione artistica, uno strumento basilare di riflessione su ciò che dell’esistere già sappiamo e che ci viene rilanciato in altra forma in tutta la sua complessità. Il lavoro di Ade Zeno (ovvero di chi si cela dietro a un tale nome d’arte) corrisponde a questa doppia finalità, che viene realizzata attraverso un’esaltazione dell’elemento immaginifico entro un coerente progetto narrativo e con uno sguardo disincantato sull’umanità non privo al contempo di compassione.