Agamben lettore di Benveniste, tra linguistica e filosofia

· Jacopo D’Alonzo ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-CA90-2

1 Introduzione1

Che cos’è la filosofia? Questo il titolo che il filosofo italiano Giorgio Agamben ha deciso di dare a un suo recente saggio.2 Evidentemente, Agamben ha sentito il bisogno di tor­nare a ragionare sulla sua idea di filosofia dopo esattamente mezzo secolo di riflessione pubblica.3 Per di più il quesito sulla natura della filosofia viene posto solamente una volta portato a termine il progetto Homo sacer4. Come è noto, tale progetto lo ha impe­gnato per più di un ventennio e gli ha fatto guadagnare una fama internazionale che lo ha reso uno degli esponenti di spicco della cosiddetta Italian Theory.5 Si ha quindi a che fare con una sorta di bilancio retrospettivo – tuttavia né definitivo né conclusivo – vol­to a individuare il filo rosso che tiene assieme il suo ricco e multiforme lavoro.

Nelle pagine che seguono si mostrerà cosa Agamben intende per filosofia. Simile argo­mento non è privo di un valore teorico e storiografico più generale che va ben al di là dell’interesse per l’opera di questo autore. Anzitutto, si vedrà come Agamben consideri – benché non lo dica in questi termini – la filosofia una riflessione coestensiva a quella che solitamente prende il nome di filosofia del linguaggio.6 Ciò lo ha condotto ripetu­tamente a confrontarsi con i metodi e i risultati della linguistica.7 Più nel dettaglio Agamben ha fatto sistematicamente ricorso ad alcuni risultati teorici della tradizione linguistica di lingua francese (Saussure, Benveniste, Milner) per mettere in luce gli scopi e le peculiarità della riflessione filosofica. In simile quadro, un posto di primo pia­no viene riservato all’opera di Émile Benveniste. Quest’ultimo, secondo le parole di Agamben, avrebbe difatti individuato il limite teorico oltre il quale la linguistica trapas­sa in filosofia.

Il modo in cui Agamben recepisce e rielabora alcuni nodi teorici della linguistica può essere assunto come cartina di tornasole di una certa recezione italiana – e soprattutto filosofica – della linguistica di lingua francese in generale e della riflessione di Benve­niste in particolare.8 Dato il successo internazionale di cui gode Agamben da qualche anno a questa parte, cercare di capire le ragioni della sua attenzione per l’opera di Ben­veniste – letta in chiave filosofica – può avere un indubitabile valore teorico-critico. Un confronto puntuale con i testi può infatti mettere in luce la particolare strategia adottata da Agamben nella lettura di Benveniste al fine di individuarne peculiarità e li­miti. Non si tratta però di mera acribia filologica, bensì di un esercizio critico volto a comprendere le ragioni profonde di un’operazione teorica né ingenua né priva di conse­guenze.

2 Linguistica e filosofia

Precedentemente si è accennato al fatto che Agamben ha recentemente deciso di tor­nare a chiedersi che cosa sia la filosofia. Non è infatti la prima volta che simile pro­blema affiora nella sua opera. In più di un’occasione e attraverso le parole di altri auto­ri, Agamben ha già definito natura e ruolo della filosofia. E in via preliminare, se si scorrono le pagine del suo ultimo libro, sembrerebbe che la sua opinione non sia cam­biata. Benché sia noto soprattutto per i suoi scritti politici, Agamben ha offerto nel corso degli anni delle definizioni di filosofia che a tutta prima non chiamano in causa la politica. Di cosa si tratta allora?

Per rispondere a simile quesito si prenda in considerazione quanto scrive Agamben a tal proposito:

[…] allora possiamo definire il compito della filosofia come il tentativo di esporre e di fare esperien­za di quel factum che la metafisica e la scienza del linguaggio devono limitarsi a presupporre, di prendere, cioè coscienza del puro fatto che si parli e che l’evento di parola accade al vivente nel luo­go della voce, ma senza che nulla lo articoli a questa.9

In questo denso passaggio Agamben riassume il nucleo teorico della sua riflessione filo­sofica. Va in primo luogo sottolineato che il compito della filosofia è l’esposizione del fatto che si parli. In via preliminare, esistono tutte le condizioni per dire che per Agam­ben la filosofia è anzitutto filosofia del linguaggio. Ma bisogna fare nondimeno atten­zione dal momento che lui non utilizza mai il sintagma filosofia del linguaggio per par­la­re della sua attività intellettuale. Agamben preferisce infatti parlare semplicemente di filosofia. Seguendo Salzani e Clemens si può inoltre affermare che la filosofia del lin­guaggio di Agamben non ha subito profonde modificazioni nel corso del tempo.10

In secondo luogo, Agamben scrive che il «puro fatto che si parli» è un factum. Quest’ultimo è ciò che la metafisica e la scienza del linguaggio sono costrette a presup­porre. In tal modo Agamben si richiama implicitamente a quanto aveva sostenuto molti anni prima. Nel 1990 Agamben aveva pubblicato nell’Annuaire philosophique una recensione all’Introduction à une science du langage (1989) del linguista fran­cese Jean-Claude Milner.11 Ponendo il problema dell’oggetto della linguistica, Milner distingue dei «faits primitifs» che le scienze del linguaggio devono assumere come dati di fatto12:

  1. factum loquendi: «il y a des êtres parlants, qui produisent des formations langa­gières»13;
  2. factum linguae: «le fait que ce que parle un être parlant mérite le nom de langue14;
  3. factum linguarum: «le fait des langues […] c’est-à-dire qu’elles soient diverses, tout en constituent une classe homogène»;
  4. factum grammaticae: «le fait que les langues soient descriptibles en termes de propriétés»15.

Milner distingue così il linguaggio (langage) dalla lingua (langue). Di quest’ultima si occuperà la linguistica prendendo in considerazione la lingua come sistema astratto e immutabile di segni e regole che si dà sempre nella forma di lingue storico-naturali di cui vanno individuate affinità, divergenze e genealogie descrivibili secondo delle proprietà grammaticali. Quindi Milner non fa che riprendere la distinzione langage–langue introdotta già dal Cours de linguistique générale (1916, da ora in poi CLG): «Mais qu’est-ce que la langue? Pour nous elle ne se confond pas avec le langage.»16 D’altro canto, anche Benveniste aveva sottolineato come l’individuazione della langue come oggetto della linguistica fosse stato uno dei grandi contributi saussuriani alla costituzione di una scienza del linguaggio.17

Quando Agamben parla del compito della filosofia dicendo che consiste nell’espo­si­zione del factum che si parli, egli fa evidentemente riferimento al factum loquendi. D’altronde lo stesso Milner riconosce che «ce qu’on appelle fort justement la philoso­phie du langage n’a généralement pas d’autre objet»18. Infatti «la science linguistique ne problématise pas les questions d’existence, mais seulement la question des propriétés d’objects dont l’existence est reçue comme un donné»19. Ne consegue una bipartizione fra filosofia e linguistica: la prima si occupa dell’esistenza del linguaggio, la seconda delle proprietà delle lingue.

Dunque si può ben dire che per Agamben la filosofia è anzitutto filosofia del linguag­gio. E non a caso così scrive Agamben commentando Milner:

Questa chiara definizione dei fatti costitutivi della linguistica permette da sola di sciogliere l’omo­nimia del termine linguaggio e di distinguere con precisione l’oggetto della filosofia da quello della linguistica. Se oggetto di questa è la lingua (intesa come stenogramma del factum linguae, del factum linguarum e del factum grammaticae), la filosofia si occupa invece proprio di quel factum loquendi che la scienza del linguaggio deve limitarsi a presupporre. La filosofia è il tentativo di esporre questo presupposto, di prendere coscienza del fatto che si parli.20

La filosofia non si occupa pertanto dell’essenza del linguaggio – o meglio si potrebbe di­re delle proprietà grammaticali delle lingue – bensì della sua esistenza. In secondo luogo, la linguistica sarebbe in qualche modo gerarchicamente subordinata alla filosofia in quanto quest’ultima si occuperebbe di ciò che la prima non può che presupporre. Secondo lo schema aristotelico, infatti, «le scienze che presuppongono un minor nume­ro di principi sono più esatte di quelle che presuppongono, altresì, l’aggiunta di ‹ul­teriori principi›»21. Il problema del rapporto fra filosofia e linguistica occupa allora un posto cardinale nella riflessione agambeniana in quanto costituirebbe per lui una sor­ta di introduzione al pensiero filosofico. Dove la linguistica si arresta, là comincia la filosofia. Si tratta dunque di tracciare più esattamente il confine fra le due discipline, il punto – qualora esista – in cui l’una trapassa nell’altra.

3 L’esposizione dell’aver-luogo del linguaggio

Bisogna ora però spendere un paio di parole sul verbo utilizzato da Agamben per de­scrivere l’attività filosofica. La filosofia, infatti, non descrive, né indaga, né ricerca, bensì espone. Ciò significa, anzitutto, che la filosofia non è un metalinguaggio. In un ar­ticolo del 1984 Agamben aveva difatti scritto che «ciò che è in questione in un’esposi­zione filosofica non può essere semplicemente un discorso che abbia il linguaggio come tema, un metalinguaggio che parli del linguaggio»22.

Per un verso la linguistica non si occupa dell’esistenza del linguaggio. La filosofia al contrario, di qualsiasi cosa tratti, non ha altro compito che esporre il linguaggio stesso, quel linguaggio stesso che nella forma del factum loquendi la linguistica non può che presupporre. Esporre il linguaggio in se stesso significa però – come si vedrà meglio in seguito – disattivare le funzioni comunicative e informative del linguaggio. Una volta raggiunto il suo obiettivo, d’altra parte, la filosofia cessa di essere tale e, come giu­stamente nota Salzani, diviene poesia.23 Si può quindi provvisoriamente affermare che la filosofia ha un limite inferiore costituito dalla linguistica e uno superiore costituito dalla poesia. Da una parte un metalinguaggio che si occupa delle proprietà grammatica­li delle lingue e dall’altra il linguaggio che espone se stesso. La filosofia ha la funzione mediana di traghettare il pensiero da un campo linguistico all’altro.

Nelle prossime pagine verrà preso in considerazione il limite inferiore della filosofia, cioè il suo rapporto con la linguistica. Prima però di affrontare questo aspetto è ne­cessaria una breve ricapitolazione di alcuni snodi teorici della filosofia del linguaggio di Agamben.

Per prima cosa va ricordato che sin dal suo primo articolo dedicato a problemi lin­guistici, Agamben critica coloro che ritengono il linguaggio possa essere oggetto di scienza.24 Per uscire dalla regressione all’infinito che il metalinguaggio della linguistica implicherebbe – con il conseguente mancare il linguaggio in quanto tale –, conclude Agamben, bisogna pensare diversamente il linguaggio. Rendendo esplicito il suo punto di riferimento filosofico in queste pagine – cioè Der Satz vom Grund (1957) di Martin Heidegger – Agamben sostiene che la filosofia debba portare il linguaggio «davanti allo sguardo perché esso appaia per quello che è»25.

Se da una parte l’opera di Heidegger rappresenta il punto di riferimento costante delle riflessioni di Agamben, non giocano un ruolo di minor conto alcune suggestioni che trae dalla lettura di Walter Benjamin.26 In particolare si ricordi la nozione di ‹esperien­za›.27 A partire da Über das Programm der kommenden Philosophie (1917) di Benja­min, Agamben introduce nel 1989 la nozione di experimentum linguae: «un’esperienza che si sostiene soltanto nel linguaggio, un experimentum linguae nel senso proprio del termine, in cui ciò di cui si fa esperienza è la lingua stessa»28. Ma in qualche modo si­mile nozione era già stata anticipata da quella di ‹in-fanzia› teorizzata nel 1978 e su cui si tornerà più avanti. Per il momento basti tenere presente che con ‹in-fanzia› Agam­ben intende l’esperienza del linguaggio all’interno del linguaggio stesso ma al di là di qualsiasi contenuto informativo. Agamben distinguerà così, qualche anno dopo, l’espe­rienza di linguaggio attraverso le proposizioni proferite nel linguaggio dall’esperienza che viene fatta del linguaggio in quanto tale.29

Per Agamben si ha dunque da una parte il linguaggio come strumento di comunica­zione – un dire-qualcosa-su-qualcosa – e dall’altra l’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio in quanto tale. L’uno e l’altro non sono empiricamente separabili, si danno contemporaneamente. Infatti, scriveva Agamben nel 1985, «prima di trasmettersi qualcosa, gli uomini hanno innanzitutto da trasmettersi il linguaggio»30. La filosofia – che espone esattamente l’aver-luogo del linguaggio – porta alla luce un’esperienza che è immanente a qualsiasi evento linguistico e che è per lo più nascosta dal contenuto in­formativo veicolato dalle proposizioni. In altre parole, la filosofia è «un discorso che, in ogni detto, dice innanzitutto il linguaggio stesso»31. L’obiettivo della filosofia è dunque – come Agamben comincerà a dire a partire dagli anni Ottanta – l’esposizione dell’‹idea del linguaggio›.32 Il termine ‹idea› va qui inteso come quell’esperienza in cui il lin­guaggio dice se stesso, in cui esso si espone e esponendosi espone se stesso, «il puro e irriducibile darsi del linguaggio»33.

4 Langue–parole e sémiotique–sémantique

L’insistenza di Agamben sull’esperienza immanente del linguaggio si spiega conside­rando che uno dei suoi obiettivi polemici prediletti è la nozione saussuriana di langue. Questa nozione sarebbe espressione di un pregiudizio molto diffuso. Già dalla metà de­gli anni Settanta, Agamben aveva formulato la tesi principale contro la quale la sua riflessione successiva non smetterà mai di confrontarsi. In poche parole si tratta dell’as­sunto per cui ogni fenomeno visibile è il prodotto di un fondamento invisibile. Il nome che Agamben dà a simile tesi è quello di «frattura metafisica della presenza» la quale può essere enucleata come segue: «tutto ciò che viene alla presenza, viene alla presenza come luogo di un differimento e di un’esclusione, nel senso che il suo manifestarsi è, nello stesso tempo, un nascondersi, il suo essere presente un mancare»34.

Naturalmente simile assunto investirebbe in pieno la nozione di langue. Essa sareb­be infatti una struttura presupposta ad ogni singolo atto di parole e in quanto tale sfuggirebbe all’esperienza diretta del parlante. Nel CLG si può leggere:

L’étude du langage comporte donc deux parties: l’une, essentielle, a pour objet la langue, qui est so­ciale dans son essence et indépendante de l’individu; cette étude est uniquement psychique; l’autre, secondaire, a pour objet la partie individuelle du langage, c’est-à-dire la parole y compris la phona­tion: elle est psycho-physique.35

[…] le côté exécutif reste hors de cause, car l’exécution n’est jamais faite par la masse; elle est tou­jours individuelle, et l’individu en est toujours le maître; nous l’appellerons la parole.36

Come si è visto precedentemente, l’oggetto precipuo della linguistica è la langue. Quest’ultima è differente dalla parole che ne sarebbe l’esecuzione individuale. E si è anche sottolineato come per Agamben sia esecrabile il fatto stesso che la langue co­incida con un principio trascendente rispetto al concreto evento di linguaggio (parole). Agamben muove una serie di rimproveri alla nozione di langue37:

  1. la parole non sarebbe la mera esecuzione della langue;
  2. la langue è solo una costruzione della scienza a partire dalla parole;
  3. la langue è un sistema di segni che rimane estraneo alla parole.

Dunque per Agamben la langue sarebbe un principio fittizio – in quanto costruito a po­steriori dai linguisti – di cui la parole sarebbe la manifestazione. Difficilmente però questi rimproveri potrebbero essere mossi a Saussure. Nel CLG si può leggere infatti:

Sans doute, ces deux objets sont étroitement liés et se supposent l’un l’autre: la langue est néces­saire pour que la parole soit intelligible et produise tous ses effets; mais celle-ci est nécessaire pour que la langue s’établisse; historiquement, le fait de parole précède toujours. […] D’autre part, c’est en entendant les autres que nous apprenons notre langue maternelle; elle n’arrive à se déposer dans notre cerveau qu’à la suite d’innombrables expériences. Enfin, c’est la parole qui fait évoluer la langue: ce sont les impressions reçues en entendant les autres qui modifient nos habitudes lingui­stiques.38

Saussure pertanto non nega il primato ontogenetico e assiologico della parole. Quello che fa è invece riconoscere un primato scientifico alla langue. Ben consapevole della di­stinzione fra langue e parole, Saussure accorda un posto di rilievo alla langue – in quanto stabile e sociale – come oggetto precipuo della linguistica.

Assumere il primato della langue sulla parole, significa per Agamben dover spiegare il passaggio da una dimensione all’altra: come la langue dà luogo a fenomeni linguistici concreti? Il grande contributo dato da Benveniste alla linguistica sarebbe allora, secon­do Agamben, l’aver compreso l’irriducibilità della langue alla parole. In altre parole, Benveniste avrebbe capito che fra langue e parole non ci sarebbe passaggio alcuno. Ma simile interpretazione dell’opera di Benveniste si basa sull’identificazione della distin­zione saussuriana langue–parole con quella benvenistiana sémiotique–sémantique: «Occorre sempre di nuovo riflettere sulla scissione del piano della lingua in semiotico e semantico, la cui rilevanza filosofica non può essere sopravalutata. Benveniste, che ri­prende e sviluppa l’opposizione saussuriana fra langue e parole, […]»39 Oppure: «Dalla realtà concreta della parola viene isolata la lingua come momento della pura significa­zione equivalente a quello che Benveniste distingue come modo semiotico opponendolo al modo semantico»40. Simile assimilazione è legittima?

La letteratura sull’opera di Benveniste e sulla distinzione benvenistiana fra piano sémiotique e sémantique cresce di anno in anno e il dibattito non può dirsi concluso.41 In questo intervento, però, interessa soprattutto offrire un’interpretazione circostan­ziata di alcuni passi benvenistiani in funzione di ciò Agamben ha scritto a proposito.

Introdotta per la prima volta durante un convegno nel 1962, la distinzione sémio­tique–sémantique tornerà ad essere al centro degli interessi di Benveniste per tutti gli anni Sessanta.42 La langue si distingue in due domini:

  1. la langue come sistema di segni;
  2. la langue come strumento di comunicazione.

Da una parte c’è l’insieme dei segni combinati in strutture e sistemi; dall’altra le manifestazioni della lingua nella comunicazione vivente. L’unità minima della prima dimensione è il segno, quella della seconda è la frase. Il segno si determina dalla relazione che intrattiene con gli altri segni del sistema. La frase invece fa riferimento al contesto infra- ed extra-linguistico in cui è impiegata. In questo modo Benveniste distingue due diverse modalità di significare. Da una parte c’è il modo di significare dei segni, dall’altra quello delle frasi. La linguistica stessa si divide in due: ci sarà una lin­guistica che si occuperà dei segni (sémiotique) e una linguistica che si occuperà delle frasi (sémantique). Benveniste riconosce a Saussure il merito di aver introdotto la no­zione di segno e aver pensato la lingua come sistema di segni.43 Tuttavia, scrive Ben­veniste, ciò non basta per offrire una descrizione adeguata della langue come sistema di segni: «Il nous incombe donc d’essayer d’aller au-delà du point où Saussure s’est arrêté dans l’analyse de la langue come système signifiant.»44

C’è dunque bisogno di introdurre un nuovo dominio di ricerca. Il segno si relaziona ad altri segni e dunque la semiologia avrà uno sguardo intra-linguistico sulla langue.45 Le relazioni che i segni intrattengono fra di loro sono dette paradigmatiche. Ogni segno significa o non significa in base a ciò che lo distingue dagli altri segni. La frase, d’altro canto, non è una somma di segni né un segno dato che il modo di significare delle frasi è infatti del tutto diverso da quello dei segni: «[…] nous pensons que le signe et la phrase sont deux mondes distincts et qu’ils appellent des descriptions distinctes»46. Dall’insieme dei segni non c’è modo di passare alla frase. Il modo di significare della frase risulta «d’une activité du locuteur»47. E il senso della frase dipende dai rappor­ti sintagmatici fra le parole (mots) che la compongono e dal contesto extra-linguistico.48 Pertanto la dimensione semantica «s’identifie au monde de l’énonciation et à l’univers du discours»49. L’enunciazione è la «mise en fonctionnement de la langue par un acte individuel d’utilisation»50. Per fare maggiore chiarezza, Benveniste afferma che «il faut prendre garde à la condition spécifique de l’énonciation: c’est l’acte même de produire un énoncé et non le texte de l’énoncé qui est notre objet»51. Si ha a che fare con un agi­re, con un’azione comunicativa che attualizza la lingua in un’istanza di discorso.

Si può tentare di seguire l’indicazione di Agamben e cercare di capire sino a che pun­to la nozione di langue sia assimilabile a quella di sémiotique. Anzitutto, Benveniste allarga il campo della nozione saussuriana di langue. Non più ristretta al solo ambito del sistema di segni, la langue concerne anche la dimensione dell’enunciazione e del di­scorso. Fra i due ambiti – o meglio fra i due modi di significanza – non c’è passaggio alcuno: «du signe à la phrase il n’y a pas transition […]. Un hiatus les sépare»52. Benché da una parte si ha un sistema di segni e dall’altro atti concreti di discorso, non sembra che Benveniste consideri la distinzione sémiotique–sémantique come integralmente riducibile a quella saussuriana langue–parole. Si prendano, per esempio, in considera­zione i seguenti passi: «Nous instaurons dans la langue une division fondamentale, toute différente de celle que Saussure a tentée entre langue et parole.»53 Il problema concerne infatti la visione che Saussure aveva della langue:

Quand Saussure a introduit l’idée d’un signe linguistique, il pensait avoir tout dit sur la nature de la langue; il ne semble pas avoir envisagé qu’elle pût être autre chose en même temps, sinon dans le cadre de l’opposition bien connue qu’il établit entre langue et parole.54

Simile distinzione (langue–parole) solleva più problemi di quanti non ne risolva: «Quand Saussure a défini la langue comme système de signes, il a posé le fondement de la sémiologie linguistique. […] il s’agit justement de savoir si et comment du signe on peut passer à la ‹parole›.»55

Ma che la distinzione benvenistiana non sia riducibile a quella di Saussure era già stato notato da Paul Ricœur in un quesito che pose a Benveniste in persona durante un convegno: «Cette distinction du sémiotique et du sémantique va beaucoup plus loin que la dichotomie saussurienne de la langue et de la parole.»56

Quello che fa Benveniste è allargare il campo della langue inserendo al suo interno an­che la dimensione della frase. Infatti il CLG aveva escluso che la linguistica della langue potesse occuparsi della frase: «Mais d’abord jusqu’à quel point la phrase appartient-elle à la langue? […] [La phrase] elle appartient à la parole, non à la langue.»57 Per Saussure la frase è da collocare sul piano della parole perché troppo instabile. Per Ben­veniste, al contrario fa pienamente parte della langue. Infatti, della frase possono essere addirittura individuati una serie di meccanismi formali che ne presiedono la rea­lizzazione58: indici di persona, indici d’ostensione, indici temporali etc. In questo modo la frase può legittimamente diventare materia di studio della linguistica il cui oggetto è e rimane la langue. La frase non è così la mera esecuzione della langue come sistema di segni. Non fosse altro che un sistema di segni non fa nient’altro che offrire un inven­tario ma non offre indicazioni sul loro utilizzo contestuale. La dimensione della frase occupa invece uno spazio autonomo all’interno della langue. Per questo non può essere semplicemente demandata alla parole. Anzi, la stessa nozione di parole perde molto del suo significato all’interno della riflessione di Benveniste. Per quest’ultimo infatti la parole non è altro che il prodotto dell’enunciazione (l’enunciato) e non l’enunciazio­ne stessa:

Le discours, dira-t-on, qui est produit chaque fois qu’on parle, cette manifestation de l’énonciation, n’est-ce pas simplement la «parole»? – Il faut prendre garde à la condition spécifique de l’énoncia­tion: c’est l’acte même de produire un énoncé et non le texte de l’énoncé qui est notre objet.59

Altro dalla parole e dagli enunciati è invece l’enunciazione e il piano semantico. L’assi­milazione agambeniana della distinzione saussuriana a quella benvenistiana può dunque sembrare azzardata. Se si volesse cercare un parallelo della distinzione benve­nistiana fra sémiotique e sémantique, nel CLG questo andrebbe cercato forse nella distinzione fra rapporti sintagmatici e paradigmatici più che in quella fra langue e pa­role. Con queste parole Benveniste descrive i rapporti paradigmatici e sintagmatici:

Telle est en bref la méthode de distribution: elle consiste à définir chaque élément par l’ensemble des environnements où il se présente, et au moyen d’une double relation, relation de l’élément avec les autres éléments simultanément présents dans la même portion de l’énoncé (relation synta­gmatique); relation de l’élément avec les autres éléments mutuellement substituables (relation pa­radigmatique).60

E in un altro intervento:

Une première constatation est que le «sens» (dans l’acception sémantique qui vient d’être caracté­risée) s’accomplit dans et par une forme spécifique, celle du syntagme, à la différence du sémiotique qui se définit par une relation de paradigme.61

Allo stesso modo il CLG enuncia:

D’une part, dans le discours, les mots contractent entre eux, en vertu de leur enchaînement, des rapports fondés sur le caractère linéaire de la langue, qui exclut la possibilité de prononcer deux élé­ments à la fois. […] Ces combinaisons qui ont pour support l’étendue peuvent être appelées syn­tagmes. […] D’autre part, en dehors du discours, les mots offrant quelque chose de commun s’asso­cient dans la mémoire, et il se forme ainsi des groupes au sein desquels règnent des rapports très divers. […] Nous les appellerons rapports associatifs.62

Come si vede anche il CLG aveva distinto due oggetti della linguistica della langue. Da una parte il discorso e dall’altra il sistema di segni. L’innovazione di Benveniste va probabilmente cercata altrove. Avendo incluso lo studio della frase nella linguistica della langue, Benveniste corregge alcune osservazioni contenute nel CLG:

On pourrait faire ici une objection. La phrase est le type par excellence du syntagme. Mais elle ap­partient à la parole, non à la langue; ne s’ensuit-il pas que le syntagme relève de la parole? Nous ne le pensons pas. Le propre de la parole, c’est la liberté des combinaisons; il faut donc se demander si tous les syntagmes sont également libres.63

Dopo aver fatto una serie di esempi di forme sintagmatiche convenzionali o regolari, il CLG però aggiunge: «Mais il faut reconnaître que dans le domaine du syntagme il n’y a pas de limite tranchée entre le fait de langue, marque de l’usage collectif, et le fait de parole, qui dépend de la liberté individuelle.»64

Benveniste lavora esattamente su questo punto: cerca di integrare lo studio della fra­se alla linguistica della langue sottraendolo alla dimensione della parole. In questo modo supera nondimeno la descrizione del discorso come sequenza di segni. Il senso di una frase infatti non è riducibile alla somma dei significati delle parole che la compon­gono. In questo modo Benveniste è costretto a distinguere nettamente modo semiotico e modo semantico. Allo stesso tempo rende inefficace la distinzione saussuriana langue–parole. La parole non è manifestazione o esecuzione della langue come siste­ma di segni. La dimensione della parole è dunque accantonata e il problema del pas­saggio dal sistema di segni al discorso è risolto nella misura in cui Benveniste distingue i due modi di significanza. In altre parole, per Benveniste non si pone più il problema saussuriano del passaggio dalla langue alla parole perché viene riconosciuta l’autono­mia del discorso.

Di conseguenza l’assimilazione di Benveniste a Saussure proposta da Agamben si espone a delle critiche. Inoltre si potrebbe rimproverare ad Agamben il fatto di non aver colto la peculiare innovazione apportata da Benveniste alla linguistica saussuriana: l’autonomia della dimensione della frase e la sua legittimità scientifica. Innovazione che comunque si inserisce coerentemente nel quadro teorico disegnato dal CLG.

Anche da un altro punto di vista, delle riserve potrebbero anche essere avanzate riguardo al modo in cui Agamben intende la natura del piano semantico. Agamben non sembra difatti prendere in considerazione che il piano semantico già di per sé concerne l’enunciazione. Ha scritto di recente a questo proposito:«La teoria dell’enunciazione, che Benveniste sviluppa in quello stesso periodo, può essere considerata come un ten­tativo di costruire un ponte su quello iato, di rendere pensabile il passaggio fra il semiotico e semantico.»65

Si è visto invece che per Benveniste l’universo semantico coincide con il piano dell’enunciazione. Di conseguenza l’enunciazione non ha la funzione di mediare da un piano all’altro. Altre conseguenze della lettura agambeniana di Benveniste si possono saggiare nella proposta filosofico-linguistica di Agamben.

5 Bilancio

Il compito della filosofia è per Agamben quello di esporre l’aver-luogo del linguaggio.66 Meglio ancora, la filosofia deve proporre un’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio. Simile esperienza si offre in ogni concreto atto linguistico. Tuttavia non si tratta qui del mero contenuto comunicativo e informazionale bensì dell’evento linguistico in quanto tale. Al di là di quello che si dice, la filosofia mette l’accento sul fatto che lo si dica, sul fatto che si parli. Secondo Agamben, tuttavia, il pensiero linguistico tradizionale ha pre­supposto all’evento di linguaggio una condizione di possibilità che lo trascende. La langue, la grammatica innata, competenze psico-fisiche etc., sarebbero infatti le condi­zioni di possibilità dei concreti atti di parola.67 Nondimeno, Agamben ha ribadito più volte che quei principi sono in realtà dei prodotti ex post della scienza. Quest’ultima parte infatti dai concreti atti di parola per costruire delle rappresentazioni dotate di va­lore generale. Fin qui nulla di male se non fosse che poi quelle rappresentazioni vengono ipostatizzate e considerate condizioni di possibilità dei concreti atti di parola.

Agamben si richiama quindi alla riflessione di Benveniste e ne propone un’inter­pretazione per certi versi molto personale. Avendo messo l’accento sull’impossibilità di passare dal sistema di segni al concreto e individuale atto linguistico, Benveniste avrebbe mostrato, secondo Agamben, illusoria l’assunzione che vi sia un passaggio dal piano astratto, impersonale, generale a quello concreto, individuale, singolare. In questo modo Agamben può costruire una sorta di sviluppo dialettico dell’opposizione saussuriana fra langue–parole – opposizione, e non complementarità – riportandola a quella fra sémiotique e sémantique.

Agamben chiama ‹in-fanzia› l’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio, l’esperienza della conversione individuale della langue in parole.68 Anzitutto si tenga presente che Agamben non sta parlando qui dell’infanzia come fase della vita. ‹in-fanzia› deriva, sebbene Agamben non lo dichiari, dal latino infante che si costruisce con in (negazione) e fantem (da fari, aver l’uso della parola, parlare). Con questo termine Agamben indica una condizione esistenziale dell’essere umano: l’uomo non è sapiens loquens, ma sa­piens loquendi.69 A differenza degli altri animali, l’uomo parla una lingua che ha appre­so.70. Fare esperienza del linguaggio sarà allora fare esperienza della fase in cui si è animali ma non ancora parlanti, in cui si è fra l’apprendimento di una lingua e la sua esecuzione discorsiva. L’‹in-fanzia› è cioè l’esperienza della possibilità di parlare, della facoltà di linguaggio in quanto tale. Simile esperienza si fa però all’interno del linguag­gio in atto. Ma essendo esperienza di una possibilità Agamben chiama l’‹in-fanzia› esperienza ‹trascendentale›: «Come infanzia dell’uomo, l’esperienza è la semplice diffe­renza fra umano e linguistico. Che l’uomo non sia sempre già parlante, che egli sia stato e sia tuttora in-fante, questa è l’esperienza.»71

Si deve far osservare che l’‹in-fanzia›, in quanto condizione di possibilità del lin­guaggio, si situa in uno spazio vuoto – ignorato dalla tradizione – fra langue e parole. In questa conclusione si può saggiare le conseguenze più rilevanti della riduzione della distinzione fra langue e parole a quella fra sémiotique e sémantique in quanto il compito della filosofia sarà proprio l’esposizione dell’in-fanzia.

L’esperienza di linguaggio sarà l’esperienza della facoltà di linguaggio che converte il repertorio di una lingua storica in un atto concreto di discorso. Ma forte delle osser­vazioni di Benveniste Agamben afferma che il passaggio dalla langue alla parole è im­possibile o quanto meno sospeso, uno iato separa le due dimensioni. Di conseguenza l’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio sarà esperienza di un’impossibilità radicale o di una possibilità sospesa, esperienza dello spazio vuoto fra langue e parole. Da una parte c’è un insieme disponibile di segni dall’altra il concreto atto di parola con il suo contenuto informativo. Fare esperienza del linguaggio sarà dunque fare esperienza del vuoto fra l’uno e l’altro. Ed è in questo vuoto che l’‹in-fanzia› ha luogo come tertium che sorge dall’opposizione fra langue e parole, fra sémiotique e sémantique, e dalla contraddizione fra possibilità e impossibilità di parlare e di passare da un piano all’altro.

Si deve anzitutto notare che Saussure e Benveniste avevano proposto due teorie con­cernenti i modi di studiare la lingua. La langue e la parole sono due diversi punti di vista sui fenomeni linguistici. E sémiotique e sémantique sono due modi d’essere della stessa sostanza, cioè della significazione. Agamben cerca invece di dare spessore on­tologico ai quattro termini – langue, parole, sémiotique e sémantique – e li considera nomi attribuiti a fenomeni ed entità radicalmente eterogenee. Lo iato di cui parlava Benveniste, si è visto, non è ontologico, ma funzionale. Allo stesso modo, la differenza langue–parole riguarda la differenza di due punti di vista che possono essere rivolti all’oggetto linguaggio. D’altronde non sembra molto chiaro come si possa passare dalle premesse date in una teoria del linguaggio (quella di Saussure o quella di Benveniste) ad una conclusione che riguarda un’esperienza. Qual è il termine medio che permette il passaggio da una teoria linguistica ad un’esperienza linguistica?

Ma l’aver sottomesso la coppia sémiotique–sémantique a quella langue–parole im­plica ulteriori difficoltà. Agamben sostiene che, proprio perché il passaggio da un piano all’altro è ostacolato da uno iato, in tale iato si può situare l’esperienza del linguaggio o ‹in-fanzia› come esperienza trascendentale della conversione individuale della lingua in discorso. Ma allora come si fa a parlare se fra lingua e parola c’è un abisso che sembra incolmabile? Inoltre, l’attribuire un valore ontologico al vocabolario della lin­guistica comporta ulteriori difficoltà. Alla lettera, sia il sémiotique che il sémantique fanno parte secondo Benveniste della linguistica della langue; dunque l’‹in-fanzia›, col­locandosi fra i due piani ontologizzati non medierebbe il passaggio fra langue e parole ma rimarrebbe all’interno della langue. Per un verso Agamben dice che non si può fare esperienza del linguaggio se non nel linguaggio, nel concreto atto di parola; per un altro situa a monte del concreto atto di parola – almeno dal punto di vista teorico – l’espe­rienza dell’aver luogo del linguaggio. In altre parole, anziché dire che l’esperienza di lin­guaggio si fa solo sul piano del semantico, egli dice che l’esperienza del linguaggio si fa nello spazio vuoto fra sémiotique e sémantique. Dunque l’aver-luogo del linguaggio trascende l’enunciazione benvenistiana e la parole saussuriana.

Data la sua critica alla nozione di langue, Agamben avrebbe potuto sostenere che, se la langue non ha realtà se non come prodotto della scienza, allora l’aver-luogo del lin­guaggio sarà un evento che si inserisce pienamente ed unicamente nella dimensione della concreta attività linguistica. Ma Agamben non riesce in fin dei conti ad andare ol­tre l’ipostatizzazione della langue saussuriana e non riesce di conseguenza a cogliere i suggerimenti che potevano venire dall’opera di Benveniste. Se si è alla ricerca di una condizione in cui sia esperibile tanto la scissione quanto la relazione fra langue e parole, questa andrebbe scorta piuttosto nella situazione di discorso (piano semantico). Benveniste non sembra dire infatti che il passaggio fra langue e parole sia impossi­bile ma che la parole non va più vista come esecuzione della langue. Per questa ragione mette da parte la distinzione saussuriana e ne introduce una nuova che non concerne tanto due entità ontologiche distinte quanto due modi di significare. Data però l’auto­nomia della dimensione semantica si può dire che il problema del passaggio dalla langue alla parole si inserisca tutt’al più a questo livello.72

L’opera di Benveniste avrebbe potuto offrire ad Agamben la possibilità di recuperare la dimensione della parole, finalmente liberata dalla langue, dell’atto di parola come ἐνέργεια (Humboldt). Allo stesso tempo avrebbe potuto inaugurare una ricerca concer­nente i concreti atti di parola e il mondo sociale, fisico, biologico, storico e pragmatico che costituiscono la sola realtà in cui parlare di facoltà di linguaggio ha senso. Ma pro­babilmente un certo pregiudizio verso l’empirico – che gli viene dall’esistenzialismo di Heidegger e dal messianesimo di Benjamin – e un certo fascino per la nozione di possi­bilità (la Möglichkeit di cui Heidegger afferma il primato sull’atto in Sein und Zeit) conducono Agamben a non fare un passo oltre la reificazione della facoltà di linguaggio come realtà ontologicamente autonoma rispetto agli atti di parola individuali.

Secondo Agamben la teoria dell’‹in-fanzia› dovrebbe risolvere il problema del rap­porto fra langue e parole: «ed è a questo problema che la teoria dell’infanzia permette di dare una risposta coerente»73. Nondimeno si è cercato di mostrare che la teoria dell’‹in-fanzia› solleva non pochi problemi di ordine teorico. Non si tratta però solo di una constatazione esterna rispetto agli intenti precipui di Agamben dal momento che le difficoltà connesse a quella nozione portano alla luce alcuni assunti di fondo della sua riflessione e della sua definizione di filosofia.74

  1. Una prima versione del presente contributo dal titolo Interrogare lo iato fra semiotico e semantico: Agamben lettore di Benveniste è stata discussa presso il Dipartimento di Filosofia della Sapienza – Università di Roma il 12 maggio 2016. Ringrazio la professoressa Marina De Palo per avermi invitato e gli studenti del corso di laurea magistrale Filosofia del linguaggio per le questioni, le osservazioni e la loro paziente attenzione.
  2. Si veda Giorgio Agamben, Che cos’è la filosofia?, Macerata, Quodlibet, 2016.
  3. Per una bibliografia aggiornata al 2013 dell’opera di Giorgio Agamben si veda Jacopo D’Alonzo, «Bi­bliografia di Giorgio Agamben». In: Filosofia italiana, 2014, www.filosofiaitaliana.net/wp-content/uploads/2018/04/Bibliografia-Agamben.pdf, ultima consultazione 2 settembre 2018.
  4. Il progetto Homo sacer è composto dai seguenti volumi: Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere so­vrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995; Id., Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testi­mone, Torino, Einaudi, 1998; Id., Stato d’eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; Id., Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Torino, Bollati Boringhieri, 2007; Id. Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza, 2008; Id., Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita, Vicenza, Neri Pozza, 2011; Id., Opus dei. Archeologia dell’ufficio, Torino, Bollati Boringhieri, 2012; Id., L’uso dei corpi, Vicenza, Neri Pozza, 2014; Id., Stasis. La guerra civile come paradigma politico, Torino, Bollati Boringhieri, 2015. All’elenco andrebbe aggiunto un piccolo saggio metodologico pubblicato da Agamben a compendio delle ricerche condotte: si veda Giorgio Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008.
  5. Si veda a proposito di questa nozione Dario Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, Bologna, Il Mulino, 2012; si veda anche il numero monografico della rivista Angelaki: Journal of the Theoretical Humanities, 16 (3), 2011, a cura di Lorenzo Chiesa, Dario Gentili, Elettra Stimilli, Diffe­renze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, Roma, Derive Approdi, 2015.
  6. Per un’introduzione alla filosofia del linguaggio di Agamben si veda Carlo Salzani, «Il linguaggio è il sovrano: Agamben e la politica del linguaggio». In: Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, 1, 2015, pp. 268–280.
  7. A questo proposito si veda Jacopo D’Alonzo, «Quel che resta di Saussure. La critica alla linguistica nei primi scritti di Giorgio Agamben». In: Studi filosofici, 38, 2015, pp. 241–264; Id. «Filosofia del lin­guaggio e critica alla linguistica nei primi scritti di Giorgio Agamben». In: Rivista Italiana di Filoso­fia del Linguaggio, 1, 2015, pp. 46–58.
  8. Una strategia argomentativa molto vicina a quella impiegata da Agamben si trova per esempio in Paolo Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
  9. Giorgio Agamben, Che cos’è la filosofia?, p. 45.
  10. Carlo Salzani, «Il linguaggio è il sovrano», p. 268; Justin Clemens, «Language». In: A. Murray, J. Whyte (ed.), The Agamben Dictionary, Edinburgh, University Press, 2011, pp. 116–119; p. 117.
  11. Si veda Giorgio Agamben, «Filosofia e linguistica. Jean-Claude Milner: Introduction à une science du langage». In: Id., La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 57–75.
  12. Jean-Claude Milner, Introduction à une science du langage, Paris, Edition du Seuil,995, p. 41.
  13. Ivi.
  14. Ivi, p. 44.
  15. Ivi, p. 45.
  16. Ferdinand de Saussure, Cours de linguistique générale, Paris, Payot, 1976, p. 25.
  17. Si veda Émile Benveniste, «Sémiologie de la langue». In: Id., Problèmes de linguistique générale, 2, Paris, Gallimard, 1974, pp. 43–66; p. 47.
  18. Jean-Claude Milner, Introduction, p. 42.
  19. Ivi, p. 43.
  20. Giorgio Agamben, «Filosofia e linguistica», p. 63.
  21. Aristotele, Metafisica, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2000, A1, 982a, 25.
  22. Giorgio Agamben, «L’idea del linguaggio». In: Id., La potenza del pensiero, pp. 25–36; p. 30.
  23. Si veda Carlo Salzani, «Il linguaggio è il sovrano», p. 277.
  24. Si veda Giorgio Agamben, «L’albero del linguaggio». In: I problemi di Ulisse, 63, 1968, pp. 104–114.
  25. Ivi, p. 113.
  26. Si veda a questo proposito Adam Kotsko, «On Agamben’s Use of Benjamin’s Critique of Violence». In: Telos, 145, 2008, pp. 119–129; Vittoria Borsò (ed.), Benjamin – Agamben, Würzburg, Königshau­sen & Neumann, 2010; Brendan Moran, Carlo Salzani, Towards the Critique of Violence. Walter Benjamin and Giorgio Agamben, London, Bloomsbury Academic, 2015.
  27. Si veda Leland De la Durantaye, Giorgio Agamben: A Critical Introduction, University Press, Stan­ford 2009, p. 129; Catherine Mills, The Philosophy of Giogio Agamben, Stockfield, McGill Queens University Press, 2009, pp. 23–25.
  28. Giorgio Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Torino, Einau­di, 2010, p. IX.
  29. Giorgio Agamben, «Il silenzio delle parole». In: Ingeborg Bachmann, In cerca di frasi vere, traduzio­ne italiana di Cinzia Romani, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. V–XV / V–VI.
  30. Giorgio Agamben, «Tradizione dell’immemorabile». In: Id., La potenza del pensiero, pp. 147–162; p. 152.
  31. Giorgio Agamben, «L’idea del linguaggio», p. 27.
  32. Per esempio si veda Giorgio Agamben, «Lingua e storia». In: Id., La potenza del pensiero, pp. 37–56; p. 51.
  33. Giorgio Agamben, Che cos’è la filosofia, p. 93.
  34. Giorgio Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 2011, pp. 160–161. Fra parentesi, in queste pagine Agamben segue e rielabora quanto sostenuto da Jacques Derrida con la sua critica della cosiddetta «métaphisique de la présence» esposta in opere come La voix et le phénomène (1967) o De la grammatologie (1967).
  35. Ferdinand de Saussure, Cours, p. 37.
  36. Ivi, p. 30.
  37. Si veda Giorgio Agamben, «La parola e il sapere». In: Aut Aut, 179/180, 1980, pp. 155–166; p. 157.
  38. Ferdinand de Saussure, Cours, p. 37.
  39. Giorgio Agamben, Che cos’è la filosofia, p. 90.
  40. Giorgio Agamben, Infanzia e storia, p. 57.
  41. Recentemente è uscito, sotto la direzione di Irène Fenoglio, Autour d’Émile Benveniste: Sur l’écri­ture, Paris, Éditions du Seuil, 2016. Si veda inoltre Émilie Brunet e Rudolf Mahrer, Relire Benveniste. Réceptions actuelles des problèmes de linguistique générale, Louvain, Academia, 2011; Aya Ono, La Notion d’énonciation chez Émile Benveniste, Limoges, Paris, Éditions Lambert-Lucas, 2007; Gérard Dessons, Émile Benveniste: l’invention du discours, Paris, Éditions In Press, 2006. Un classico è ormai il numero di Linx HS 9, 1997 a cura di Michel Arrivé e Claudine Normand, Émile Benveniste. Vingt ans après (Actes du colloque de Cerisy la Salle, 12 au 19 août 1995) e in particolare, per quanto riguarda il presente intervento, gli articoli di Portine, Lazard, Suenaga, Kim e Meschonnic. Nello stes­so volume si veda, sul rapporto fra Benveniste e la filosofia del linguaggio analitica, Dan Savatovsky, «Benveniste au risque de la philosophie». In: Linx HS 9, 1997, pp. 247–257. Altro classico è G. Serbat (a cura di), Émile Benveniste aujourd’hui (Actes du colloque international du CNRS), Université François-Rabelais, Tours, septembre 1983, Paris, Société pour l’information grammaticale, 1984. Infi­ne si segnala per la nozione di enunciazione Giovanni Manetti, L’enunciazione. Dalla svolta comu­nicativa ai nuovi media, Milano, Mondadori Università, 2008.
  42. Si veda Émile Benveniste, «Les niveaux de l’analyse linguistique». In: Id., Problèmes de linguistique générale, 1, Gallimard, Paris 1966, pp. 117–131 / 130; Id., «La nature des pronoms». In: Id., Pro­blèmes 1, pp. 251–257; Id., «De la subjectivité dans le langage». In: Id., Problèmes 1, pp. 258–266.
  43. Si veda Émile Benveniste, «La forme et le sens dans le langage». In: Id., Problèmes 2, pp. 215–240.
  44. Ivi, p. 219.
  45. Si veda ivi, p. 223.
  46. Ivi, p. 224.
  47. Ivi, p. 225.
  48. Si veda ivi, p. 227.
  49. Émile Benveniste, «Sémiologie de la langue». In: Id., Problèmes 2, pp. 43–66; p. 64.
  50. Émile Benveniste, «L’appareil formel de l’énonciation». In: Id., Problèmes 2, pp. 79–88; p.80
  51. Ibidem.
  52. Émile Benveniste, «Sémiologie de la langue», p. 65.
  53. Émile Benveniste, «La forme et le sens dans le langage», p. 224.
  54. Ivi, p. 219.
  55. Émile Benveniste, «Sémiologie de la langue», p. 65.
  56. Paul Ricœur in: Émile Benveniste, «La forme et le sens dans le langage», p. 236.
  57. Ferdinand de Saussure, Cours, p. 148 e p. 172.
  58. Si veda per esempio Émile Benveniste, «L’appareil formel de l’énonciation», pp. 81–84.
  59. Ivi, p. 80.
  60. Émile Benveniste, «Les niveaux de l’analyse linguistique», p. 120.
  61. Émile Benveniste, «L’appareil formel de l’énonciation», p. 225.
  62. Ferdinand de Saussure, Cours, pp. 170–171.
  63. Ivi, p. 172.
  64. Ivi, p. 173.
  65. Giorgio Agamben, Signatura rerum, p. 63.
  66. In questo paragrafo si riprendono, integrandoli con i risultati del presente studio, alcuni spunti espo­sti brevemente in Jacopo D’Alonzo, «Quel che resta di Saussure e Filosofia del linguaggio e critica alla linguistica nei primi scritti di Giorgio Agamben».
  67. Per quanto riguarda la critica ad altre nozioni linguistiche si veda Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto, Milano, Rizzoli, 1970, p. 23 (significato–significante); Id., «La parola e il sapere» (langue–parole; grammatica–competenza); Id. Infanzia e storia, pp. 55–59 (langue–parole; fonemi–suoni); Id., Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino 2010 (voce articolata – voce non articolata; voler-dire–dire); Id., Che cos’è la filosofia, pp. 11–46.
  68. Si veda per esempio Giorgio Agamben, Infanzia e storia.
  69. Si veda per esempio Giorgio Agamben, «La parola e il sapere».
  70. Si veda per esempio Giorgio Agamben, Infanzia e storia, p. 50.
  71. Ivi, p. 40
  72. Per maggiori dettagli su questo aspetto si veda Jacopo D’Alonzo, «Quel che resta di Saussure».
  73. Ivi, p. 54.
  74. Si veda Leland De la Durantaye, Giorgio Agamben, p. 129.