Alessandro Di Chiara (a cura di): Giuseppe Parini filosofo dell’educazione (1729–1799)
Firenze: Leo S. Olschki 2021

• Martina Romanelli •


PID: http://hdl.handle.net/0000-0007-F996-7
Alessandro Di Chiara (a cura di): Giuseppe Parini filosofo dell’educazione (1729–1799). Firenze: Leo S. Olschki 2021, viii–200 pp. (con tavole), Euro 30,-, ISBN: 978-8822267931 (indice del volume:  [https://www.olschki.it/libro/9788822267931])

Pubblicato lo scorso novembre per le cure di Alessandro Di Chiara, Giuseppe Parini filosofo dell’educazione (1729–1799) raccoglie in tre diverse sezioni interventi (Atti), contributi (Studi) e iniziative didattico-museali (Attualità del Neoclassico…) presentati e/o incoraggiati dal Simposio Nazionale del 15 aprile 2021: un progetto di rilettura di una pagina della nostra storiografia letteraria e artistica. In questo, Parini e Brera sono comprensibilmente i tornanti obbligati della pubblicazione: elementi vicendevolmente essenziali, ora per indagare storia e futuro dell’Accademia di Belle Arti ora per capire il senso e il peso specifico, la raison d’être, dell’esperienza intellettuale (poetica, civile, politica) di Giuseppe Parini.

Le prime coordinate sul progetto sono ben delineate nei due saggi d’apertura, a firma di Alessandro Di Chiara («Giuseppe Parini filosofo e pedagogista dell’arte nel ‹levar gli errori dal mondo morale›», pp. 1–20) e Arnaldo Bruni («La Gazzetta di Milano di Giuseppe Parini alla prova del Novecento», pp. 21–35). Messa da parte la vulgata scolastica, per cui l’esperienza educativa dell’abate di Bosisio è talvolta vista come uno dei tasselli biografici utili a rappresentarne ordinatamente la cronistoria (ed è spesso anche la stessa che, prendendo in prestito un’espressione di Arnaldo Bruni, o scardina Parini dalla sostanza del Settecento milanese o ne dà «un ritratto in piedi centrato sul Giorno e sulle Odi» – cit. a p. 24), siamo di fronte anche e soprattutto a un segnale storiografico ed ermeneutico. Accanto alla figura del Parini maestro, guida alle generazioni venture in un faticoso percorso di autodisciplina fisica e morale (come non manca di ricordare, in séguito, il saggio di Giuseppe Goisis, «La gloria vince la morte, o è il sole dei morti? Parini portavoce di Leopardi», pp. 145–159) emerge così meglio delineata anche quella del «poeta-filosofo» (Di Chiara a p. 3), di diritto incuneata nel contesto della Milano absburgica: città che proprio negli anni Sessanta-Settanta vive l’Illuminismo maturo, una realtà storica in cui corpo sociale e politico sono rivendicati come patrimonio comune e in cui ogni iniziativa di ‹cultura› è pensata e letta in funzione di una responsabilizzazione del mezzo espressivo in base all’utile e al progresso. Sono trent’anni d’insegnamento, quelli di Parini, sperimentati nel passaggio dalle dimore patrizie alle Scuole Palatine all’Accademia, e ad oggi tangibili grazie a una serie di testi programmatici che, forti anche di una eccezionale attualità rispetto al nostro presente scolastico-educativo, sottolineano la matrice speculativa e politico-civile del docere (il Discorso recitato nell’aprimento della nuova cattedra di Belle Lettere, il Per la cattedra Biennale di Belle Lettere – entrambi 1769 –, i Principi fondamentali e generali applicati alle Belle Arti del 1770, le Lezioni di Eloquenza del 1780). Citando Bruni (e riconoscendogli poi, doverosamente, un’autonomia critica e di taglio, considerati gli sviluppi editoriali delle recenti curatele proprio della Gazzetta di Milano del 1769 dopo l’edizione 1981, per cui rimandiamo alle chiarissime pp. 33–35): è evidente che Parini si muove in accordo col clima di riforme teresiane e giuseppine, e cioè come parte attiva di un sistema che lui stesso concepisce in base a «ragioni di pubblica utilità» (p. 31) e al ruolo di intellettuale – si detto con licenza – ‹organico›. Ma è evidente altresì che nella concezione pariniana dell’educazione al bello (applicazione estesa della καλοκαγαθία) la «retorica» va intesa come «oratoria, cioè […] filosofia» (p. 7) e, soprattutto, la missione didattica (di docente e discente) si fonda su un principio interrogativo (proprio come meccanica di pensiero), su una forma mentis e del gusto che non può prescindere dal vaglio critico del bello e del reale, da un’attitudine psicologica ed estetica fondata su «ira e sdegno» (p. 14) e certo non estranea al Parini meglio noto, al nervo satirico, cioè, del Giorno.

Su questo particolare metodo e sulle sue ricadute tangibili sul corpo accademico si soffermano quindi le altre ricerche della collettanea. In primo luogo, torna il richiamo al presente, l’attualità palpabile, crepitante, del Parini pedagogista e teorico e, di rimando, della ‹sua› Accademia. Non pensiamo soltanto alle riflessioni di Rossana Ruscio («Salubrità dell’aria: quando l’individuazione del tema diventa pensiero», pp. 79–86), ma pensiamo anche all’iniziativa interdisciplinare e transmediale del «Divertissement neoclassico» di Elisabetta Longari: un progetto didattico che riesplora e, insieme, quasi mette in crisi il nostro concetto di (neo)classico, affidato agli spazi e agli strumenti espressivo-espositivi di generazioni figlie – anche inconsapevoli? – del postmoderno (per tutti i dettagli: pp. 163–182 e Tavole). In secondo luogo, il binomio Parini/Brera stimola la curiosità verso la nuova ratio studiorum, fra tradizione e rimodulazione (Aristotele e Orazio su tutti, come già chiarito a inizio libro, e poi Du Bos, Batteux, Chompré, Pope …).

Anzitutto, il corpo-Accademia. Vale a dire: il contesto in cui Parini immette e, anche, rimodella la propria visione estetico-educativa. Abbiamo «Accademie, portici, barbe» di Chiara Nenci, (pp. 49–66) e la ricerca di Raffaella Pulejo («Giuseppe Parini, un’idea di Accademia» pp. 67–78), a chiarire il senso semantico-progettuale sotteso all’Accademia e alla definizione di Belle Arti (vd. le fondamentali pp. 67–68, 70 e 74); abbiamo quindi alcuni sondaggi di taglio più settoriale, dei casi-studio se vogliamo, come quelli portati da Bartesaghi e Cassani. In «Giuseppe Parini: l’apoteosi degli eroi nei soggetti per artisti» (pp. 87–103), Paolo Bartesaghi si muove fra l’ambito teatrale e privato (quello delle dimore signorili come Palazzo Belgioioso) sulle tracce di un’iconografia pittorica e di una mitologia che, se non sapienziali (troppo severamente graviniana, verrebbe da dire, se intesa in questo senso), sono sicuramente un codice esemplare, in cui simboli e idola realizzano un sistema etico, un monito, nel concreto di forme misurate e leggibili (vd. principalmente le pp. 88 e 100). Varietà, proporzione, armonia e simmetria sono invece i lemmi-chiave dello studio di Alberto Giorgio Cassani («Ut poësis architectura. Note sull’arte del costruire nell’opera di Giuseppe Parini», pp. 107–132: categorie frequentemente richiamate nella teorizzazione del testo poetico, esse tornano nel sistema organico delle Belle Arti, ivi compresa l’architettura, l’organizzazione razionale e specchiata (perché misurata, etica) dello spazio e dell’agire, a cui Cassani dedica un’attenta interpretazione (vd. soprattutto le pp. 116–125).

Infine, il profilo del Parini docente, che emerge soprattutto negli studi di Francesca Fedi e Riccardo Donati. Con «Un professore di «garbo socratico»: ancora su Parini e Brera» (pp. 37–48), Fedi ricostruisce l’avvicendarsi delle esperienze didattiche di Parini e ne sottolinea, tra fonti primarie e secondarie, sia il metodo socratico-interrogativo sia i pilastri tematici (restano in questo senso di singolare importanza le pp. 41–45, ove si delineano progetto, ideali pedagogici, concetto di corpo collettivo). Sempre inteso a indagare il modus pariniano è lo studio di Donati, «Un legislatore artistico nella comunità degli uomini. Note sull’estetica e la pedagogia di Parini» (pp. 133–144). Il contributo di Donati, forte del testo delle Lezioni e delle testimonianze collaterali (prima fra tutte quella di Reina, imprescindibile) ricostruisce, con gli opportuni agganci di contesto, termini e contenuti complessivi dell’impianto didattico pariniano, che appare fondato sull’esercizio retorico-stilistico («l’Arte di Dire sarà l’unica in grado di produrre quegli effetti di pathos capaci di apportare emozioni non corrive, di dar voce agli impulsi psico-fisici garantendo al contempo le esigenze del ‹buongusto›», p. 136), quindi aperto ad applicare tale principio a ciascun singolo medium secondo l’inossidabile sinergia di tecnica e ispirazione («coincidenza in unum di estro e calcolo, meditazione e percezione dinamica della realtà», p. 137) e, in conclusione, pienamente ‹moderno›, perché «volto al profitto del consorzio civile» (p. 141).