Benn als Erzieher
La poesia di Federico Pietrobelli – una introduzione

· Francesco Zevio ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-F44A-3

Una voce singolare si leva dal coro della poesia italiana contemporanea: la voce di Federico Pietrobelli. Un basso, senza dubbio… ma parlare di coro è fuorviante, visto che ogni poeta, in fondo, dovrebbe cantare teso solo al moto della sua melodia interiore. E poi si fa sempre in tempo a finire con l’accordarsi al La dello Zeitgeist, a essere moderni o modernissimi: visto che, del suo tempo, un poeta sembra in primis e più facilmente assimilare gli errori, le volgarità, ciò che di esso è accidentale e insostanziale. Il termine coro, poi, potrebbe far pensare a una qualche forma di armonia e cooperazione… quando invece la provincia della poesia non brilla certo per spirito corporativo. Più che alle prime città e liberi municipi, per restare in metafora, tale regione appare piuttosto un idiotico arcipelago di più o meno estesi feudi e feuducoli, latifondi e baronati – satrapie di svergognata boria e insolenza con rendite da elemosina, briciole di fama, lambelli d’ego disseminati a terra, nel pantano di conformismo e ipocrisia.

Eppur si scrive! Eppure esiste chi si sottrae a tutto questo, chi si decide a non pagare alcun pedaggio o balzello per il pane e invece popola eremi – popola foreste, deserti, fratte e litorali rocciosi, desolati – ma sempre luoghi d’ascolto e contemplazione, il più possibile romiti ed eminenti; luoghi in cui attingere a repertori d’immagini e pensieri, da cui osservare l’industrioso brulicame del secolo, a cui sempre poter tornare dopo il pur necessario commercio nelle città degli uomini. Soprattutto, luoghi in cui i fratelli si eleggono, non ci vengono imposti. È da simili luoghi, da simili distanze che paiono provenire a noi i canti più riusciti di Pietrobelli. E in questi luoghi, a queste quote egli ha eletto un fratello: Gottfried Benn.

Questa scelta non parrà strana a chi dovesse conoscere, almeno in parte, la figura del lirico tedesco: grande unzeitgemäß della letteratura europea e poeta monologico per eccellenza, volendo ricorrere a un termine chiave della sua opera e vita. Monologico: ovvero, come possiamo leggere in Probleme der Lyrik: «Ein Gedicht […] ist an die Muse gerichtet, und diese ist unter anderem dazu da, die Tatsache zu verschleiern, daß Gedichte an niemanden gerichtet sind. Man sieht daraus, daß auch drüben der monologische Charakter der Lyrik empfunden wird, sie ist in der Tat eine anachoretische Kunst.» La lirica come arte anacoretica, l’espressione poetica come arte essenzialmente monologica – per rispolverare il confronto tenutosi nel dopoguerra tra il nostro poeta e Lernet-Holenia, partigiano invece di un diretto engagement dello scrittore nei fatti e nel corso della storia – non a caso si è parlato di eremi e deserti.

Certo: lo scrittore ha il dovere di calare piedi nel fango nella storia. Certo: lo scrittore ha il dovere di informarsi sulle mode, sui trend ideologici che fanno nevicare tanti like e hashtag su testate e testine… ma pure e soprattutto ha il dovere alla libertà, alla libera scelta di preservare da quel fango la sua testa, il suo giudizio – ovvero di scegliere in piena indipendenza la propria dieta spirituale, alimentandosi con il pensiero che ritiene più atto a interpretare l’uomo e il mondo, l’uomo nel mondo.

Ogni intellettuale, in fondo – e il poeta nel suo agire, nel suo incessante confronto con le parole e l’espressione, ha a che fare e crea egli stesso fatti d’intelligenza – ogni intellettuale dovrebbe sviluppare, in una quanto più perfetta autonomia, una propria visione delle cose: quindi selezionare una propria utensileria speculativa per interpretare la realtà, maturando al contempo uno stile espressivo suo proprio per parlare all’uomo dell’uomo. Che egli si avvalga, che egli trascelga gli strumenti messi a disposizione dal secolo: ma che sia lui a scegliere, secondo il metro del suo discernimento… guai a riceverli e basta, facendoli propri senza alcun vaglio critico preliminare, senza beneficio d’inventario! Grande lezione del Nietzsche inattuale, questa – lezione fatta propria da Benn e a sua volta da Pietrobelli, come appare evidente alla lettura di alcuni dei suoi Commenti statici, i quali richiamano e omaggiano fin nel titolo il poeta tedesco e parte della sua produzione lirica.

A questo proposito, oltre a parallelismi vari come il valore del Sud e un certo repertorio di immagini e atmosfere mediterranee condiviso da entrambi poeti – e che pure risente da poesie quali An die Kinder des Meeres di George, altro lirico e fratello d’elezione – sono due, in particolare, le poesie delle Statische Gedichte che tornano in mente nello scorrere l’ultima produzione di Pietrobelli: Wer allein ist e Die Form. La prima, per il fatto che Benn vi abbia delineato ciò che per lui è lo stile esistenziale proprio del poeta lirico (trächtig ist er jeder Schichtung / denkerisch erfüllt und aufgespart, / mächtig ist er der Vernichtung / allem Menschlichen, das nährt und paart); la seconda, nel porci di fronte la conseguenza e la controparte appunto formale di questo stile, di questa fede e forma di vita (du bist zwar Erde, / doch du mußt sie graben), nonché qualcosa che potrebbe definirsi come il mandato spirituale di chi, poeta, abbia assunto tale fede e forma (Riefst den Verlorenen, / Tschandalas, Parias – du, / den Ungeborenen / ein Wort des Glaubens zu). Quasi un dittico, queste due poesie, una sorta di ἓν τὸ πᾶν di forma e contenuto… ma a questo punto voglio fermarmi e offrire al lettore un florilegio minimo, un rapido e purtuttavia significativo – così, almeno, mi piace sperare – scorcio della produzione lirica di Pietrobelli.

La scelta dei testi si concentra su Pallide Pietre: ultima e tutt’ora inedita silloge del nostro poeta.