Claudia Petrucci: L’esercizio
Milano: La nave di Teseo, 2020, Euro 18,00, pp. 333
ISBN 978-883-460-140-2

• Francesca Faccini •


PID: https://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-EA94-A

Per riassumere in pochissime parole L’esercizio, romanzo esordio di Claudia Petrucci uscito per La nave di Teseo a gennaio 2020, si potrebbe dire che è la storia di una coppia che rinuncia alle velleità giovanili per adattarsi a una forma di tristezza rassicurante. Entrambi trentenni, Filippo rinuncia al giornalismo per dedicarsi al bar di famiglia, mentre Giorgia, la sua compagna, si barcamena dietro alla cassa di un supermercato. La loro esistenza, fatta di pochi entusiasmi, molti non detti e vari gradi di rassegnazione, subisce una prima piacevole scossa quando Giorgia ritrova per caso Mauro, il suo vecchio maestro di teatro. Quest’incontro diventa il motore dell’azione del romanzo, nonché delle singole storie individuali, perché si innesca un effetto domino che vede Giorgia tornare a recitare, Filippo scoprire la passione di Giorgia, Mauro tornare a godere della bravura di Giorgia e nuovamente Giorgia affrontare una crisi psicotica tale da lasciarla inerme per intere settimane in una stanza di una clinica fuori Milano. La ricaduta in una malattia presente da tempo ma sottaciuta dalla ragazza, porta Mauro e Filippo ad allearsi perpetrando un esercizio che li vede coinvolti nella stesura di un copione che dovrebbe far tornare Giorgia alla sua vita di prima.

Se il merito del romanzo è quello di indagare come il desiderio rischi di annullarsi completamente quando si decide di arrendersi alle difficoltà della vita quotidiana, il suo limite è quello di mettere in scena personaggi cliché per affrontare una questione da cui è quasi impossibile non sentirsi coinvolti. Quella che viene raccontata è un’emergenza che la generazione dei trentenni e quarantenni italiani vive nella sua quotidianità: rinunciare a ogni aspirazione, non riconoscersi nell’esistenza che si sta conducendo, non avere la possibilità o il coraggio di inseguire le proprie passioni sono condizioni che la vita fa incontrare e come tali rappresentano circostanze di cui si conosce la materia. Se da una parte la lettrice o il lettore che assiste a situazioni familiari riesce a sentirsi molta coinvolta/o nella trama, dall’altra rischia di percepire una buona dose di banalità dato che i personaggi del romanzo non si discostano minimamente da quello che le loro maschere richiedono. La grande pecca del libro è che da Giorgia, Filippo e Mauro non ci si aspetti nulla di diverso da quello che viene mostrato già dalle prime pagine: nessuno dei tre segue uno sviluppo reale. Sebbene l’insoddisfazione di Giorgia porti a un cambiamento di vita, la sua maschera è quella della donna fragile che cerca l’appoggio maschile sia nella sua staticità sia nel suo rinnovamento; quella di Mauro, invece, rappresenta il regista teatrale, lo spirito libero che fa dell’Arte un lavoro e un modo di vivere, ricalcante a tal punto le caratteristiche presenti nell’immaginario comune da essere poco reale; la maschera di Filippo, infine, è quella che rappresenta la mediocrità senza riscatto, anche in questo caso talmente fissa da apparire noiosa. Scene, dialoghi, personaggi sono così prevedibili da rivelarsi artificiosi e di conseguenza poco curiosi. Mentre la narrazione avanza, non avviene una vera indagine di quello che accade dentro e intorno ai protagonisti. Tutto è fermo in una forma di cristallizzazione che viene in qualche modo nascosta dietro a un linguaggio a effetto. Sembra, infatti, che venga attribuita alla parola il compito di restituire uno spessore assente, ma spesso la terminologia utilizzata appare sensazionalistica discostandosi da quello che dovrebbe realmente trasmettere. Definire il lettore del codice a barre «l’occhio vitreo della cassa» (p. 25) è (forse) un esercizio di stile che, a mio avviso, non trasmette l’alienazione di Giorgia come commessa; frasi come «Mi sorride, stringe le spalle e i seni abbondanti si toccano, combaciando nella scollatura profonda. Inciampo con gli occhi nelle sue gambe, velate dalle calze e affacciate alla gonna corta» (p. 174) non rispecchiano la caratterizzazione di Filippo sebbene il punto di vista narrativo sia proprio il suo; preferire espressioni quali «stuzzica i comandi dell’autoradio» (p. 175) al posto di ‹alza il volume della radio› allontana il gesto dalla sua evidente semplicità. Considerando il fatto che l’io narrante è Filippo, tale linguaggio evidenzia una duplice frattura: da una parte segna un disaccordo verso la circostanza narrata, dall’altra sottolinea un contrasto con Filippo, o meglio con la sua maschera.

L’esercizio parla anche del teatro come attività che permette di identificarsi in qualcosa abbandonando tutto il resto. Quello che è però difficile fare è riuscire a identificarsi in Giorgia, Mauro e Filippo, non per una questione di realtà della storia, bensì per la loro incredibile coerenza al ruolo da coprire: sembra non sia dato loro lo spazio per uscire dal personaggio.