Costanza DiQuattro: Donnafugata
Milano: Baldini+Castoldi 2020, 208 pp., Euro 17,00
ISBN: 978-889-388-337-5

· Meta Lenart Perger ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-F44F-E

Nel mezzo di un paesaggio dominato da uliveti e carrubi secolari sorge l’enorme castello di Donnafugata, spazio che fa da sfondo all’omonimo romanzo Donnafugata (2020) della giovane scrittrice Costanza DiQuattro. La DiQuattro, che nel 2019 ha esordito con l’opera La mia casa di Montalbano, storia della casa di villeggiatura di famiglia (e luogo noto al pubblico come set televisivo di una serie di film), si cimenta questa volta nel genere storico-biografico e specificamente con un testo che include elementi diaristici ed epistolari, e che nel suo ibridismo di genere si rivela perfetto per la ricostruzione storica e la restituzione della voce del suo protagonista, il barone Corrado Arezzo De Spucches. L’organizzazione del romanzo in veste (semi)diaristica – cioè in forma di vari episodi tratti dalla vita del barone, raccontati con numerosi flashback ma non in prima persona come accadrebbe in un diario vero e proprio, bensì da un narratore eterodiegetico – rende centrale la onnipresente questione del tempus fugit che si nota sia nel tono nostalgico con cui si raccontano momenti sereni ormai lontani, sia nei richiami a spazi ed eventi testimoni ad un’altra epoca, piena di promesse di un futuro felice. Tra questi spazi il ruolo fondamentale spetta al castello di Donnafugata, le cui solide mura costituiscono metaforicamente l’unica costante nella vita del suo proprietario.

Il romanzo si apre con l’episodio in cui si racconta la celebrazione della festa di San Giorgio, il 23 aprile, una festa importante per la città di Ragusa. Corre l’anno 1895 e noi lettori siamo partecipi dell’evento. Si tratta dell’ultima festa di San Giorgio nella vita del barone eppure questi non vuole più parteciparvi: il fascino del mondo è sparito, non c’è più nulla da celebrare e a lui è rimasta piuttosto la stanchezza che la vita inevitabilmente porta con sé: «Sono stanco. In settant’anni ho visto tramontare epoche e sorgere speranze. [...] Ho vissuto, ho gioito, ho pianto, ho ingoiato lacrime e rassegnazione. Ora sono stanco.» (p. 19) È questo il preludio alla storia di una vita, ma anche la storia del paese e della dimora in cui il barone ha vissuto dei momenti felici come pure le grandi tragedie della vita che la voce narrante racconta incarnando la tenerezza di un uomo che ha amato ed è stato riamato, che ha vissuto la vita con gioia, ma è stato spesso costretto anche a parteciparvi come spettatore, passivamente, sentendosi impotente davanti al destino. Nonostante i tragici eventi di cui è piena la vita del barone – la prematura morte della madre, il matrimonio fallito dell’unica figlia e la sua malattia, la morte dell’amata moglie e la delusione nei confronti della situazione politica in Sicilia – il discorso resta segnato da un tono comico che solo in Sicilia può trovare luogo anche nei contesti più malinconici: comicità non scissa quindi da qualcosa di tragico e tale da nascere qui nell’arrendersi al destino. Questo tono tragicomico, che nella sua essenza ricorda l’umorismo pirandelliano, ci invita ad una riflessione su come sono le cose in realtà dietro la loro facciata. Ci invita ad arrivare, come succede spesso nei romanzi siciliani, per dirla con Sciascia1, fino al fondo della sicilitudine, cioè di quella concomitanza così intrinseca ed originale dell’ambiente e del carattere siciliani.

Un lasso di tempo ben definito – l’intero arco della vita del barone, cioè dal 1824 al 1895 – fa da cornice alla vicenda che è situata storicamente in uno dei periodi più tormentati della storia siciliana. In quel periodo cruciale nascono sogni di una Sicilia con migliori condizioni economiche e sociali, sogni di molti nobili che, come il barone Arezzo De Spucches, si sono levigati, coltivando «il sapere [...], ricercando e leggendo» (p. 67), in uomini di chiari ideali politici, ma che, dopo l’Unità d’Italia, si sono resi conto, con amarezza, di esser stati testimoni delle illusioni risorgimentali, di vane speranze mai realizzate. La voce narrante riesce a rendere quasi vive l’atmosfera intellettuale e la forza vitale che regnava tra gli intellettuali di ceto nobile:

Vi era un sottile e costante gioco di ironia e intelligenza, di detto e non detto, di malinconica accettazione delle cose e imperituro desiderio di superarle. Ma vi era soprattutto la voglia di esserci, di segnare un mondo, di viverlo sebbene la vita avesse deciso altro (p. 67),

nonché la malinconia di un senso di sconfitta che si vive volgendo lo sguardo indietro sulla vita: «Se potessi percorrerlo al contrario, mio fedele amico, quante cose non farei …» (pp. 29–30)

La preferenza per la concretezza, sia nell’espressione che nella gerarchia dei valori del protagonista, trova il suo correlato linguistico nell’uso frequente del sostantivo a cui viene ascritto il ruolo principale anche nelle parti descrittive del romanzo; questa scelta stilistica rende il discorso più pittoresco e vivace e contribuisce alla concretizzazione di un luogo ben definito. Inoltre, alcuni sostantivi acquistano una forte valenza significante. È il caso della rosa, metafora della caducità della vita terrena: «Non siamo altro che rose. Duriamo il tempo di un sorriso, di un ricordo da custodire, di una notte da ricordare.» (p. 175) Ed è il caso del castello, che è in grado di far ricordare le cose amene del passato anche quando la memoria non ne è più pienamente capace:

Donnafugata profumava di notte e di primavera, attraversando il loggiato laterale ai salotti il barone risentì quel vociare confuso delle notti annaffiate dal vino e dalle conversazioni. Rivide i suoi amici, le lunghe cene intorno ai suoi piatti preferiti, i dibattiti politici fino all’alba e le tante preoccupazioni che quel corridoio aveva placidamente accompagnato. Per ogni passo, ormai lento, ebbe un sussulto, un fervido ritorno a un passato ormai troppo lontano. (p. 29)

L’assenza di manierismi, la chiarezza del discorso e il tono comico fanno sì che il romanzo piaccia anche al lettore meno colto, mentre il lettore più esigente può apprezzare l’uso di diversi registri espressivi (la coesistenza di un registro più nobile, di patina ottocentesca, e di uno popolare, attraversato da espressioni tratte dal dialetto siciliano), la strumentazione retorica con degli inserti sinestetici (p. es. «la tristezza tangibile», p. 55) e infine il tentativo di ricostruzione della vita del barone alla luce del rapporto tra verità storica e finzione letteraria. Grazie a una solida ricerca storica da parte della scrittrice, che frugando negli archivi ha sottratto all’oblio la vita di quel nobile, la vicenda narrata non si allontana troppo dai fatti storici; ciononostante vi rimangono alcune lacune da colmare laddove i documenti degli archivi non possono dare delle risposte. Queste lacune sono colmate da una minuziosa osservazione dell’animo del protagonista, un uomo erudito, empatico, nobile in ogni senso della parola: il suo diario intimo ci rivela un’ampia gamma di sfumature sentimentali, dalla felicità dell’amore sincero per la moglie alla più cocente tristezza per la morte prematura della propria figlia. Il romanzo è insomma anche - detto con un concetto di Andreas Günther - una vera e propria «storia dei sentimenti» la quale è una componente spesso mancante e – secondo Günther – «la più deplorevole lacuna della ricerca storica».2
Coniugando i fatti storici con l’intimità di una vita, la DiQuattro riesce a dipingere la (tenera) storia di una famiglia con un bell’affresco dell’Ottocento siciliano sullo sfondo, che ricorda a tratti la grande tradizione letteraria siciliana, dai Viceré al Gattopardo.

Un frammento del romanzo, in cui si descrive la prima visita della figlia del barone al teatro d’opera, potrebbe simbolicamente riassumere la vita di quest’uomo che si sentì spesso un mero spettatore del proprio destino. Lo sfarzo della società ottocentesca non era in grado di sovrastare il suo dolore, solo l’ultimo congedo avrebbe portato la pace e l’armonia:

Da quella prospettiva il teatro sembrava l’inferno dantesco. Gironi di dannati allegri si dimenavano in ogni palco, sguardi ammiccanti e pettegolezzi bisbigliati impregnavano quei tendaggi rossi, colonie di zagara e sigari brucianti riempivano l’aria di un intenso profumo. Poi d’un tratto tutto si chetò. (p. 59)

  1. Cfr. L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in Id., La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia (1970), in Id., Opere 1956–1971, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 1987, pp. 961–967.
  2. A. Günther, Amare, ieri. Annotazioni sulla storia della sensibilità, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 9.