Derive

Un frammento

· Francesco Zevio ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-F44C-1

A dire il vero Giulio Ceresa aveva già cominciato a comprendere questa cosa, perché la costanza emotiva nell’incostanza fattuale dei suoi studi aveva in lui sviluppato una sorta di istinto intellettuale che lo portava, per esempio, a riprendere in mano la seconda inattuale di Nietzsche dopo i primi folli e inebrianti giorni di Lika – anche per il fatto di approfittare della sua crescente conoscenza del tedesco per rileggersi il saggio nell’originale.

Il punto è che quando arrivava a quel passaggio sull’unhistorisch empfinden sentiva di avere intuito bene e che quindi aveva già afferrato tutto ciò che c’era da afferrare (e forse era così chissà: ma qualcuno ci avverte che non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso), allora smetteva di riflettere e interrompeva la lettura, saltava su dal pavimento dove stava leggendo e andava di corsa in cucina, dove Lika in foulard polverizzava gusci d’uovo in un mortaio per unirli a fondi di caffè e voleva spiegarle tutto, tutto con foga e il suo tedesco da B1. E d’altronde Lika se lo vedeva arrivare in quello stato euforico mentre polverizzava gusci d’uovo guardando fuori tra gli alberi e pensando a chissà cosa (forse a cosa cercassero ogni giorno le cince tra i rami d’acero… c’erano degli aceri bellissimi in giardino – più oltre cominciavano le file dei binari e la vista dalla cucina al secondo piano, dal piccolo terrazzo dell’appartamento di Ceresa le piaceva da far male) e pensando a chissà cosa, lo ascoltava e si meravigliava che la lettura di un filosofo potesse trasmettere quell’energia, questa cosa di Giulio la affascinava da morire, se lo vedeva arrivare sentendosi dire che lei riusciva unhistorisch zu empfinden, a percepire astoricamente pur senza soffrire in alcun modo di Weltarmut, per così dire, quei termini che Giulio usava e Lika non comprendeva ma andava bene così, perché queste parole usate nell’euforia sono per lei come le spezie che butti dentro al minestrone e non importa sapere cosa sia, se ha un buon odore puoi buttarne un poco e va bene così, potrai informarti dopo, nel tempo della ragione. Lei l’ascoltava rapita e si lasciava contagiare dall’ardore dell’intuizione, soprattutto dopo che Giulio le aveva letto l’intero passaggio e l’afferrava d’improvviso nelle spalle fissandola negli occhi e chiedendole, con sguardo sibillino, se lei avesse l’istinto per capire quando fosse necessario percepire storicamente e quando invece astoricamente.

«Verstehst du? Se manca questo manca tutto.»

«Certo, è vero.»

«Se manca questo è…» tedesco B1, menzione per produzione scritta, «è un casino.»

«Un casino, un gran casino.»

Per un attimo era un silenzio abissale, quel silenzio che con sbigottimento si scopre esistere sempre e ovunque quando in una stanza si smette di discutere su Nietzsche o polverizzare gusci d’uovo. Poi lei abbassava gli occhi – quegli occhi verdi e venati d’azzurro che non sapevano nascondere o mentire, quegli occhi che quando c’era il sole uno si faceva ancora più verde ‒ li rialzava sicura e poi, guardandoti diceva ja, ich hab’s. Continuavano a fissarsi gravi, silenziosi. Duravano così per qualche secondo, poi uno dei due (di solito Lika) cominciava a sorridere e in un istante erano piegati per terra a ridere, la polvere d’uovo si spargeva sul pavimento e loro si contorcevano rincorrendosi e respingendosi come bambini tra le gambe del tavolo e le sedie. Dopo essersi scalciati così per un po’ si calmavano, calmati cominciavano a parlare di sciocchezze sotto il tavolo, toccandosi senza guardarsi, fino a che Ceresa percepiva l’odore d’uovo e realizzava quanto fosse sporco il pavimento della cucina. Allora Lika tornava a sedersi e dichiarava di voler imparare tutto ma proprio tutto di quel genio di Nietzsche che questi cretini ci fanno passare per profeta del nazismo, mentre Giulio si inginocchiava davanti a lei baciandole le ginocchia e dicendo leggiamolo insieme sì, così tu impari Nietzsche e io il tedesco, dimenticando puntualmente i buoni propositi di studio e erudizione perché dopo il riso e l’euforia ricominciavano a toccarsi, i capelli di Lika profumavano d’abete e di rugiada (e un po’ di caffè con guscio d’uovo) e finivano a mordersi le labbra e a far l’amore in qualche parte della casa.

Vivevano così ‒ stretti nel loro mondo e magnificamente estranei alle notizie riportate da internet, televisioni, satelliti e giornali.

C’è da dire che Ceresa ogni tanto cedeva e finiva per ascoltarsi i podcast in latino della radio finlandese o la diretta della rassegna stampa mentre aspettava che venisse su il caffè, la mattina. Era in questi momenti, in questi risvegli al profumo di caffè che quell’altro mondo entrava nel loro creando una sorta di interferenza, interferenza che tendeva a risolversi in più o meno profondi discorsi in inglese (spesso Ceresa era troppo pigro per cimentarsi col tedesco) e poi lasciarli come immobili su una soglia di indifferenza tra la forma della loro vita e i problemi di quel mondo che cominciava oltre il letto dove dormivano e facevano l’amore, oltre il balcone aperto sui binari e gli aceri in giardino, oltre la porta di casa dove gli altri inquilini dell’immobile si accampavano a fumare, dove cominciava quel mondo che era un mondo solo a loro e a nessun’altro.

Ceresa toglieva la moka dal fornello a induzione e prendeva pane e miele, qualche volta un po’ di mandorle e di noci. Lika entrava in cucina qualche minuto dopo, ancora tenera di sonno ‒ i capelli disordinati sul foulard che adesso le avvolgeva il corpo, quasi un sottile poncho. Si piazzava sulla sedia come un uccellino infreddolito, tenendosi le gambe nude con le braccia e appoggiandosi a peso morto contro Ceresa, che nel frattempo aveva cominciato a bere il caffè o spezzare noci a due per due, concentrandosi sulla rassegna stampa e imprecando in italiano.

«Che stronzi.»

«Mmhh…»

«Ma guarda un po’ che stronzi. Ti faccio il tè?»

«Ja bitte.»

«Aspetta un attimo», la baciava facendola appoggiare allo schienale e andava a preparare l’acqua, cercando tè nel disordine di una mensola. Lei si sistemava meglio sulla sedia, puliva il tavolo intorno a sé buttando a terra qualche semino o briciola di pane e cominciava a guardare il computer tentando di indovinare ciò che dicesse l’occhialuto nello schermo. Lika aveva studiato un poco d’italiano a scuola, qualcosa lo ricordava ancora e spesso capitava che per le cose più semplici (come prepararsi il tè e dare degli stronzi ai rappresentanti del popolo) lei e Ceresa riuscissero a capirsi parlando ognuno la sua lingua.

«Warum ein stronzo? Er sieht sympathisch aus…» Guardava lo schermo, assonnata.

«Sembra simpatico, guarda che begli occhiali. Pare uno studente di Religionspädagogik.»

«Ma non lui, quello del servizio prima.»

«Was?»

«Die Reportage. Prima c’era un altro tizio.»

«Wer?»

«Non so, l’ennesimo rappresentante dell’ennesimo partito. Diceva che siamo sommersi da fake news e che i giovani passano troppo tempo a informarsi su internet. Grün oder Pfefferminz?»

«Grüner, non grün. Comunque grüner. Ma perché non è così?»

«Grüner, danke. Certo che è così, però sono degli stronzi perché fanno sembrare che le fake news le abbia inventate internet, quando invece…» Si fermava con il tè in mano, si guardavano. «Ne parliamo?»

«Tanto c’è da aspettare l’acqua.»

«Quando invece…» Ceresa riprendeva in inglese. «Quando invece è chiaro almeno dai tempi dell’esplosione della Maine che l’informazione mente in ogni caso, come pure è chiaro almeno dagli editti di St. Cloud quanto essa sia potente. Questi ce l’hanno con internet perché ha distrutto il loro monopolio, come quei tipi che accusano Zuckerberg eccetera di demolire la democrazia e per carità… ma la democrazia è nata già demolita e Zuckerberg non fa altro che creare nuovi strumenti per nuovi demolitori, questo Enrico Fermi della comunicazione. A quest’altri rode perché non sono più le sole agenzie per la creazione di star del palcoscenico politico, perché se ci pensi ogni categoria di media crea le sue star e gli elettori danno il voto a questi personaggi mediatici e infatti pensaci pensaci…» Beveva un’altra sorsata di caffè. «Pensaci. La grande differenza negli schieramenti politici ad oggi sembra essere la contrapposizione tra personaggi mediatico-politici rappresentativi dei nuovi media e quelli rappresentativi dei vecchi media. Nuovi Eoli e vecchi re dei venti spodestati, decrepiti Myles con il loro regal culo irlandese d’emorroidi. Adesso ci sono altri culi da baciare. Meno raggrinziti forse, ma pur sempre culi. Comunque hai voglia ideologia e programmi… il paradigma elettorale è il confessionale del Grande Fratello, con televoto della classe dirigente. In Italia è chiaro, basta pensare al chevalier de mediaset nei decenni scorsi, a partiti nati su internet e ministri dell’interno che sui social sono più attivi di una dannata tredicenne o fashion blogger, tweet, profili falsi, candidati che si scoprono hipster a qualche mese dalle regionali… e così via.»

«Maybe.»

«Comunque boh, è uno schifo deprimente. Hai una tazza?»

«Nein. Prendimi quella bella coi disegni dei fiori.»

«Questa qui?» – e allora lei gli sorrideva inimitabile, radiosa allungando le mani sopra il tavolo – e Giulio sentiva quella cosa della soglia, quella cosa per cui Lika che sorride per una tazza da tè a disegni floreali era assolutamente da aggiungere alla lista di quella poesia di Borges di cui adesso e in quel sorriso non ricordava il titolo, tra quelle persone che salvano il mondo senza saperlo – dopo un uomo che coltiva il suo giardino come voleva Voltaire e due vecchi che giocano a scacchi in un caffè del Sur. Lo studente di Religionspädagogik continuava a commentare ed evidenziare su un tablet le prime pagine dei giornali, lei si alzava per andare a versarsi l’acqua e poi tornava a sedersi premendo la tazza calda tra le mani, vicina al naso e agli occhi chiusi. Li apriva, lo guardava.

«And so?»

«E allora cosa?»

«E allora come fare per questa cosa delle fake news?»

Giulio si avvicinava, le appoggiava il viso nella curva del collo, sospirandole tra i capelli.

«Bisogna coltivare il proprio giardino.»

«Was?»

«Il faut cultiver notre jardin, è Voltaire. Oppure preferisci giocare a scacchi in un caffè del Sur?»

«Senti, a proposito…» Gettava le braccia indietro, stiracchiandosi e costringendo Giulio a rimettersi dritto. «Mi aiuti a raccogliere un po’ di foglie? Per il campo sai, con Liesbeth…»

Ma Giulio si era alzato e cominciava a cantare su decimali e segni algebrici degli indici di borsa, pagliaccio di guittezza e di blue tango.

«Vuelvo al Sur…»

«Komm!» rideva lei, spintonandolo.

«Como se vuelve siempre a l’amor…»

Lika gli prendeva la testa attirandolo a sé, baciandolo per farlo stare zitto.

«Ahi» – già i denti così, prima del tè? – «es tut weh».

«Nein, denk’ ich nicht.»

«Doch…» Seguiva la pagina economica, con notizia su debito pubblico e spread. Che strana parola spread. Strana e anche un po’ brutta. Spread spread spread (tanto brutta) spread.

«Doch…» Mentre Ceresa riconosceva che no, che in effetti non faceva male ed anzi era piacevole, gli venne da pensare a come sia strano che certe parole mai sentite prima vengano impiegate e si impongano nel linguaggio quotidiano quasi di punto in bianco, nel giro di poco tempo – crumiro: patrimonio comune negli anni ’60 e arcano alla sua generazione, oggi tocca a spread e domani chissà, forse a edenico, forse a teologo o chissà, forse a endemico, a virologo… fossili lessicali nell’ontologia stratigrafica dello Zeitgeist – molto piacevole e forse l’ultimo anno di liceo, o forse in quarta boh una gita a Praga un hotel dopo la pioggia e la città degli alchimisti e questa cosa alle notizie di BUND e BTP a 500 punti con spread spread spread

«Spread.»

«Was?»

«L’ha detto» – decisamente piacevole sì – «l’ha detto il Religionspädagoge.»

«Mmh… e di che parla?»

«Ö» – dio che peste – «Ökonomie.»

«Mmh…»

«Agamben dice che econommh… che economia non è più una parola che esprime un concetto, ma una sortaah, una sorta di imperativo.»

«Aspetta aspetta, devi ah… ancora spiegarmi quella cosa di Voltaire e del caffè al Sur. Und Nietzsche auch.»

«Und Nietzsche auch, stimmh… stimmt. Vuelvo al Sur»


Francesco Zevio – nota bio-bibliografica

Francesco Zevio (Valeggio sul Mincio, 1992) ha studiato a Padova (Lettere moderne) e a Roma (latino e greco antico nella Accademia VIVARIUM NOVUM), in Francia (Aix-Marseille Université), a Verona e in Germania (Europäische Kommunikationskulturen, Universität Augsburg). Ha pubblicato la raccolta di versi Suite dei mondi (Robin Edizioni, 2019) e il libro Latino in cinque minuti (Gribaudo-Feltrinelli, 2019). Con il pianista e compositore Jozef F. Pjetri ha dato vita a Cultura in Atto, associazione culturale con sede a Padova. È inoltre cofondatore della compagnia di poesia, pantomima e musica Mime en Mi Mineur, attiva in tutta Europa. Oltre che con Cultura in Atto, collabora con la rivista Pangea, con Parentesi storiche, con il giornale online Ilsoleitaliano di Monaco di Baviera, ha pubblicato alcune poesie e traduzioni con la rivista internazionale Traduzionetradizione. Cerca di vivere secondo l’omerico di molti uomini vide le città e conobbe le menti – trova che tutto sia magnificamente riassunto ed espresso nell’epitaffio che Stendhal immaginò per sé stesso, recitante: «visse, amò, scrisse».