Elisabetta Rasy: Una famiglia in pezzi. Milano: Mondadori 2017,
ISBN: 978-8891806123, pp. 116, 16,90 EUR

· Meta Lenart Perger ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-CA9C-6

Autrice di molti romanzi, e nella maggior parte focalizzati su questioni femminili, Elisa­betta Rasy affronta questa volta un progetto più personale orientato a trovare le proprie radici. Una famiglia in pezzi è il frutto di una tenace ricerca di pezzi della propria storia familiare, dispersi «dall’orribile angelo della Storia» (p. 15) in varie città europee. Ed è anche un tentativo di conoscere la propria identità. Il lavoro sarebbe nato dal casuale incontro della scrittrice con un uomo sconosciuto che un bel giorno le si presenta come un suo familiare. Quell’episodio l’avrebbe spinta a una meticolosa ricerca per ricostru­ire il proprio passato familiare e dare fisionomia a ricordi slegati. Nel tentativo di racco­gliere episodi biografici di persone della sua famiglia fino a farne un albero genealogico, Elisabetta Rasy si rende conto di non conoscere il proprio passato, così che la narra­zione si svilupperà in gran parte come racconto di un’indagine. Alla costruzione dell’al­bero genealogico, che all’inizio del testo appare come una struttura ancora vuota, è chiamato lo stesso lettore: spetta a lui, infatti, quasi in un gioco a indovinelli, di appen­dervi le informazioni sulle persone di cui si narra nel testo per immaginarsi, poco a poco, una fotografia della famiglia Rasy.

In questo testo di genere ibrido, collocabile forse al meglio sotto la rubrica dei libri di famiglia, un genere non certo trascurato in un’epoca di innovative scritture biografi­che e autobiografiche, l’immersione nel passato è graduale: parte da ricordi personali e da album di famiglia, ma passerà pure per archivi e in particolare per la visita all’ar­chivio di Salonicco alla ricerca di indizi su parenti vissuti in quella città nell’Ottocento. La ricerca documentaria sfocerà in una raccolta di dati precisi, quali date di nascita, di matrimonio, di trasferimento, per intersecarsi con la narrazione di episodi eloquenti emersi dalla memoria, oltre che descrizioni dettagliate delle caratteristiche fisionomi­che e comportamentali delle persone di cui si parla e dei loro oggetti personali, in par­ticolare del vestiario. Non mancheranno aneddoti di vita, siano essi reali o frutto d’immaginazione. Il rapporto tra la verità e la finzione, nel testo, è infatti difficile da stabilire, e tale incertezza diventa un pregio dell’opera.

Poiché l’autrice vede la propria famiglia «in pezzi», il racconto della ricerca del suo passato familiare comincia ossimoricamente con il ricordo di un righello, uno dei pezzi più affascinanti dello studio del padre e meglio impressi in mente. Forse quell’oggetto assume un valore di simbolo. Cercando di uscire da una sorta di amnesia del passato fa­miliare, la Rasy inizia infatti a misurare le sue emozioni di figlia di genitori divorziati che si ritrova a vivere staccata dall’ambiente napoletano dell’infanzia. Ultima antenata di una famiglia di altri tempi, come definisce sé stessa, intraprende un viaggio alle proprie radici che la porterà a Salonicco e soprattutto nella Napoli di un passato non troppo lontano, ma ormai scomparso, e che guarda con nostalgia. I membri familiari vengono presentati spesso tramite la descrizione di fotografie, come se l’autrice volesse compartire con il lettore pezzi del suo passato per facilitargli il lavoro d’indagine che deve svolgere anche lui per poter conoscere quella famiglia. La fotografia viene dunque usata come un mezzo per entrare in contatto con delle microstorie, ma anche con la storia con la esse maiuscola di cui nella famiglia Rasy non si parlava mai; questa era per tutti, come afferma l’autrice, «una grande fiaba, regolata da leggi stravaganti e incom­prensibili» (p. 30). Ma non si tratta solo di entrare in contatto con «fantasmi familiari» (p. 23) ormai sconosciuti, bensì di dare anche una fisionomia al ricordo e alla memoria: di poter collegare, insomma, le immagini ai nomi e restituire vita a familiari defunti, facendoli sopravvivere nella scrittura e salvandoli dalla corrosione del tempo, come di­rebbe Natalia Ginzburg. Seguendo questo obiettivo, Rasy ritorna con la mente alla propria infanzia e cerca di evocare le persone che facevano parte della sua vita napole­tana: suo padre, grande idealista e «sognatore incorreggibile» (p. 13), la nonna, la zia paterna, la bisnonna ecc. Il richiamo a queste persone avviene frugando nella memoria: il ricordo al sapore del lokum le richiama alla mente la figura della nobile zia paterna, mentre gli occhi celesti dello sconosciuto di Marsiglia la rimandano agli occhi del non­no paterno.

Elisabetta Rasy ha scritto anche dei romanzi storici, tra cui merita ricordare L’ombra della luna, e sebbene questa volta si sia dovuta immergere nella storia con un’attitudine più personale, l’intento non pare troppo diverso. Nella ricostruzione del passato entra infatti sempre in gioco quella «pulsione negromantica» di cui parla Domenichelli,1 con­sistente nel desiderio di evocare le voci dei morti attraverso una «caccia all’air du temps» (p. 41). Anche qui l’obiettivo principale resta quello di capire la storia, e nello specifico quella di vicende familiari sullo sfondo della storia dell’Italia novecentesca. Emergono dal discorso anche delle riflessioni su un aspetto particolarmente caro all’au­trice, quello della condizione femminile; le figure parentali di donna, di cui narra, so­no viste spesso proprio da questa ottica. Nel raccontare dei legami coniugali, va detto che l’approccio della Rasy assomiglia a quello della Ginzburg di Lessico familiare2; anche lei infatti non interpreta la coppia come nucleo, bensì vi considera singolarmente il ruolo dell’uomo e della donna, e sottolinea anche alla luce della situazione storica le difficoltà di essere di sesso femminile in quel periodo. Se rievoca alcuni eventi familiari che possono essere stati dolorosi (come separazioni, assenze), non tenta assoluta­mente di costruire dei drammi e nemmeno cerca di darvi un’interpretazione psicologica o d’altro tipo, come se volesse evitare verità parziali.

A livello espressivo, la lingua prescelta è volutamente disadorna e tuttavia capace di evocare in modo vivo il passato. La preferenza per il sostantivo le permette spesso di rendere in modo più tangibile gli oggetti su cui si sofferma. Un’accumulazione di so­stantivi finisce allora per sostituire descrizioni ricche di aggettivi: «Per i miei occhi in­fantili quell’immagine era un concentrato di avventura, temerarietà, ignoto.» (p. 57). La scelta stilistica di concentrare lo sguardo sugli oggetti, quasi per afferrare il perduto, potrebbe connettersi a eventi del vissuto (perdita delle tracce materiali di una parte della famiglia già nella prima infanzia). L’ossessione, per gli oggetti personali degli an­tenati, nel racconto di Rasy bambina, è rintracciabile anche nelle descrizioni così minuziose delle fotografie e dei memorabilia, da permettere quasi di toccare gli oggetti di cui si parla e di cogliere lo spirito di un’altra epoca:

[Nella camera da letto di mia nonna] c’è un cassettone antico, sormontato da uno specchio. Il piano di marmo e tutti gli oggetti che ci sono sopra si riflettono nello specchio: è lì che li vedo rare volte che posso entrare, e sono scintillanti. […] Ci sono molti fili di perle che giacciono in piccole coppe di vetro di un tenue color verde, c’è un anello con due grosse perle che conversano tra loro, un filo di oro bianco con una perla nera […] e accanto all’anello c’è una spilla di oro rosso con tante perline che formano un fiore simile a un anemone di mare. (p. 112).

Il registro espressivo, però, a differenza di quanto si osserva nella più nota opera ginz­burghiana, ad esempio, non riproduce un particolare linguaggio parlato in famiglia, e anche ciò rende conto di una condizione di stacco vissuto dalla protagonista di Una famiglia in pezzi all’interno del suo nucleo familiare. Non avrebbe infatti mai cono­sciuto ‹l’intero lessico familiare› per cui neanche la lingua che rievoca quel contesto la può riflettere.

Il discorso sviluppato nel lavoro pretende che l’ultima Rasy pervenga a liberarsi tan­to dal senso di costante incertezza circa la sua posizione dentro la famiglia, quanto da certi sentimenti vissuti da bambina; allo stesso tempo sottolinea la consapevolezza che alcune risposte rimarranno proprietà del passato. È forse per questa ragione, allora, che l’autrice decide di concludere la storia al «porto dei sogni». Nei sogni, come nei li­bri, scrive, «ogni tanto tutto si aggiusta» (p. 110). Stilisticamente staccato dal resto del romanzo, quest’ultimo capitolo crea una conclusione ambigua che richiama appun­to l’idea di un rapporto fluido tra verità e finzione: è difficile misurare, infatti, il grado di verità nei sogni.

  1. Mario Domenichelli: Lo scriba e l’oblio (Pisa 2011), cfr.: G. Benvenuti, Il romanzo neostorico italiano, Roma 2012: Carocci Editore, p. 7.
  2. Si veda a proposito il contributo di E. Cavina: «Natalia Ginzburg e il tema della famiglia», in Ead.: Non ho inventato niente. Omaggio a Natalia Ginzburg, Ravenna 2011, p. 2.