Federico De Roberto tra Verismo, psicologismo e disillusione

• Marcella Di Franco •


PID: https://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-EAAA-2

Introduzione

Federico De Roberto, romanziere, saggista e giornalista della seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento italiano (1861–1927), è collocato tradizionalmente nella corrente letteraria del Verismo, insieme ai ben più noti Luigi Capuana e Giovanni Verga. Con entrambi strinse un sodalizio affettuoso ed autentico e condivise, almeno fino ad un certo momento, gli ideali culturali e letterari, quasi a comporre una ‹triade› della quale fu il più giovane esponente. Egli stesso dichiarava in un’intervista rilasciata a Lucio D’Ambra: «Dicono tutti che io debba a Verga la mia arte. Può essere e può anche non essere».1 L’espressione lascia trasparire tutta la sua amarezza nel sentire il suo nome sempre associato e, di conseguenza subordinato, a Verga e a Capuana, tralasciando le sue originali e specifiche peculiarità individuali. A distinguerlo dai suoi maestri fu «uno scetticismo in sé coerente, teso a screditare, […] qualunque idea presuntiva di verità».2 Prese subito le distanze dal Naturalismo francese di Emile Zola, con la sua pretesa di «studiare e comprendere razionalmente la vita e l’opera dell’uomo, considerato nella sua natura, mai nella sua storia»3.

L’etichetta di verista è pertanto una definizione molto riduttiva e in parte fuorviante perché, anche se preponderante fu la sua adesione ‹ortodossa› ai canoni di scuola del Verismo italiano, tutto il suo complesso e tormentato percorso letterario fu contrassegnato da una forte componente introspettiva. La minuziosa capacità di indagine interiore di De Roberto riflette l’influenza del romanzo psicologico di Paul Bourget (1852–1935), ‹l’anatomista morale›, conosciuto di persona durante un soggiorno dello scrittore in Sicilia, e di Guy de Maupassant, che lo allontanò progressivamente da quel filone letterario realista, ormai stanco e in declino, preludendo alla nuova temperie culturale del Decadentismo europeo, del Simbolismo e delle tendenze spiritualiste emergenti. Ne conseguì una narrativa senz’altro realista, ma fortemente interiorizzata, pervasa da un soggettivismo spiritualizzante, da un’atmosfera a tratti persino allucinata, ricca di elementi introspettivi e sensitivi, lontani dal Verismo impersonale e oggettivo dei ‹fatti› dominante dell’epoca che sembra proiettarlo più nell’alveo del nascente Decadentismo di fine secolo e avvicinarlo di più alla sensibilità pirandelliana e persino sveviana.

Ma, adombrato dalla fama di Verga, il ben più celebre conterraneo verso il quale egli stesso nutriva un’autentica venerazione, e dal clima culturale realista ormai mutato, in lento tramonto e disfacimento, rimase isolato e obliato, frettolosamente e superficialmente accusato dalla critica del tempo di ‹dilettantismo› sia in vita che dopo la morte.

«Nulla resterà di me, nulla; sono uno scrittore fallito»4 ebbe a scrivere sconfortato a conclusione del suo percorso letterario e di vita, immeritatamente accantonato e frettolosamente dimenticato, se si escludono alcuni studiosi specialisti che hanno scandagliato in ogni aspetto tutta la sua produzione letteraria. Dalla loro attenta disamina emerge che letteratura e vita costituirono un binomio inscindibile ed intercambiabile che lo indusse a scrivere indefessamente ed esclusivamente per tutta la sua esistenza fino a «sacrificarle modestamente la nostra vita [...]. A noi appartiene il dovere di onorare dì per dì la professione letteraria».5 La letteratura diventa ricerca sofferta del senso della vita, disperato tentativo di superare il fluire vano e inesorabile del tempo che scorre e trasforma di continuo la realtà (panta rhei) riducendola a sogno, parvenza effimera e illusoria in cui la vita è vista come una morte continua, oppressa da un’incessante tensione autoanalitica e raziocinante che corrode la volontà e svilisce ogni possibilità di agire. Non a caso L’illusione è anche il titolo di uno dei suoi romanzi che fanno di lui un letterato autentico e straordinariamente profondo, al di là dei ‹limiti› e delle ‹manchevolezze› linguistiche o letterarie che gli furono spesso cucite addosso da critici pedanti e, a volte, poco lungimiranti, pronti a stroncarlo, relegandolo in un limbo oscuro dal quale una disamina attenta delle sue opere, oltre l’apparenza delle trame tardo ottocentesche, fino ad arrivare alla sua opera maggiore e più conosciuta, I Viceré, getta una luce intensa e per così dire, ‹riabilitante› dissolvendo ogni dubbio sulla sua più vera e radicata essenza di letterato, figlio di un’epoca di crisi profonda e di transizione.6

1. La prima stagione letteraria tra tardo Romanticismo e Verismo

La sua stessa esistenza fu deliberatamente appartata e schiva, estranea ad ogni appariscente clamore mondano. Nato a Napoli nel 1861, le sue origini erano siciliane per parte di madre: Marianna degli Asmundo era di Trapani, ma di origine catanese, appartenente ad una famiglia della piccola nobiltà isolana. Il padre, don Fernando De Roberto, era invece napoletano, ufficiale di Stato Maggiore al servizio di Francesco II. A nove anni, rimasto prematuramente orfano, si trasferì a Catania, con la madre e il fratello Diego, vivendo in condizioni economiche modeste ma dignitose. Compì studi irregolari tecnici, appassionandosi allo studio dei classici da autodidatta. Si iscrisse alla facoltà di Scienze matematiche e fisiche di Catania, senza peraltro laurearsi.

Sviluppò un ossessivo attaccamento alla madre, altrettanto gelosa e possessiva. Per uscire dalla ‹prigione› di Catania trascorse lunghi periodi a Milano dove ampliò il raggio delle sue conoscenze letterarie venendo a contatto con letterati e scrittori della cerchia degli Scapigliati, tra cui Giovanni Camerana, Giuseppe Giacosa, Marco Praga, Arrigo Boito e Luigi Albertini, capo redattore de Il Corriere della sera che accolse alcune sue recensioni letterarie, articoli di storia, di geografia, di scienza, di politica e di costume.

Con il pretesto della peggiorata infermità materna, fu più volte richiamato a Catania dai suoi lunghi e vari soggiorni per un decennio (1888–1897) tra Milano, Firenze, Trieste, Roma e Napoli. Frequenti furono pertanto i ritorni nella famiglia d’origine che sempre sostenne sul piano economico con i suoi modesti guadagni letterari, soprattutto perché non riusciva a fare a meno del loro calore affettivo, in particolare dell’amata nipote Nennella, figlia di suo fratello, sposatosi con la cugina Luisa Moncada, a cui fu sempre molto affezionato, divenendo per lei ‹zio e padre› nello stesso tempo, soprattutto dopo la morte del fratello. Per cercare sollievo dalle sue ansie nervose trascorse diversi periodi anche a Zafferana Etnea, un centro a pochi chilometri da Catania, che in seguito gli conferì la cittadinanza onoraria.

Ai ritorni in famiglia si alternarono le numerose ‹fughe› verso le grandi città italiane, dove si sentiva libero e autonomo da quell’ambiente provinciale verso cui mostrava una certa insofferenza, lontano dall’amore assillante della madre che, pur tuttavia, continuava nei suoi ‹ricatti affettivi›, come testimoniato dal loro fitto scambio epistolare, in cui De Roberto appare diviso tra rancore e devozione verso di lei.7 Forse per questo non riuscì mai a formare una famiglia propria, ma coltivò relazioni amorose intense, lunghe e difficili, tutte con donne sposate: la prima durata dieci anni, con una certa Renata (Nuccia), identificata con Ernesta Valle, gentildonna di Milano, moglie dell’avvocato siciliano, Guido Ribera, come emerge da un sofferto epistolario rimasto inedito per quasi un secolo8, la seconda con Pia Vigada a Roma, dove era rientrato nel 1908.9

Ma il legame più tenace della sua vita restò comunque quello morboso con la madre, interrotto solo dalla sua morte, avvenuta nel 1926, all’età di novant’anni, da lui amorevolmente accudita con assoluta abnegazione, sacrificandole il suo tempo e il successo della carriera che mai gli arrise pienamente. È singolare che soltanto l’anno successivo, il 26 luglio del 1927, a soli sessantasei anni, anche De Roberto si spense a Catania, dove si era definitivamente ritirato con l’incarico di sovrintendente onorario ai monumenti. La sua scomparsa passò inosservata a livello nazionale, per la morte concomitante della più celebre Matilde Serao avvenuta il giorno seguente a Napoli, mentre a livello locale ci furono manifestazioni roboanti e cerimonie retoriche, strumentalizzate soprattutto dai sindacati fascisti.

Esordì sul piano letterario alla fine dell’Ottocento fondando nel 1881 il settimanale letterario Don Chisciotte, durato soltanto due anni, i cui articoli furono raccolti in volume col titolo di Arabeschi, editi da Giannotta di Catania. Curò anche la «Prefazione» di una raccolta di scritti di suoi amici, Giosuè Carducci e Mario Rapisarda. Polemica (1881), incentrata sul contrasto insorto tra i due celebri poeti, con cui si augurava la loro riappacificazione, ma che sortì l’unico risultato di suscitare la reazione aspra del Carducci. Seguì una raccolta di sei sonetti classicheggianti, Encelado, ma soprattutto otto novelle raccolte in La sorte (1887), di ambientazione regionalistica e di taglio verista, sul modello di Verga e Capuana, da quest’ultimo recensite entusiasticamente sul Fanfulla della Domenica di Roma, per lo stile asciutto, distaccato e conciso.10 Ma al loro interno già si avverte la predisposizione, tipicamente derobertiana, verso le sottigliezze dell’analisi interiore delle passioni umane, a partire dai livelli più semplici ed elementari per risalire verso i più tortuosi e complessi. In alcune viene persino anticipato il clima di disfacimento de I Vicerè, causato dalla lenta ma costante azione corrosiva del tempo che si esercita su tutto, inclusi i più rigidi e atavici costumi tradizionali, incapaci di adattarsi ai cambiamenti storici in atto.

De Roberto virò pertanto verso opere di stampo psicologico più consone al suo temperamento: Documenti umani fu una nuova raccolta di quattordici novelle edita nel 1888, di connubio tra realismo e idealismo che accese molti dibattiti perché sembrava scardinare i pacifici canoni naturalistici ancora dominanti. Vi si indaga l’esistenza delle classi aristocratiche, in apparenza raffinate ed eleganti, ma nel profondo dilaniate da complessi psicologici che le rendono vittime di se stesse e del ‹destino›. Il taglio, fortemente riflessivo e interiorizzato, scaturisce dal bisogno dell’autore di scavare nei meandri dell’anima umana per vederla nella sua più completa dimensione. Il titolo stesso scaturisce dalla puntigliosa disamina di diari, lettere e confessioni dei personaggi, tutti appartenenti ad una classe elevata indagata nel suo tortuoso psicologismo, ma anche attraverso dialoghi, colloqui, incontri e situazioni cariche di pathos e tensione emotiva che rimandano da un lato alle tendenze languide ed estenuate del tardo Romanticismo e dall’altro sembrano anticipare quelle decadenti e spiritualiste del decennio successivo, care soprattutto a Joris-Karl Huysmans di À rebours (Controcorrente, 1884).

Perplessità da parte della critica ancora più forti suscitò il suo primo romanzo, Ermanno Raeli nel 1889, di carattere intimistico e autobiografico, in cui il protagonista, di cui viene acutamente scandagliato l’animo, appassionato di filosofia e di poesia, vive una sofferta storia d’amore che si concluderà tragicamente con il suo suicidio. De Roberto, ancora una volta, fu tacciato dalla critica di un ritorno ad anacronistiche trame romantiche in cui appare il tipico eroe idealista, sconfitto dall’impatto traumatico con la dura realtà che spazza via ogni illusione, sogno o velleitaria aspirazione umana alla felicità. L’attenta disamina psicologica e l’alterazione dei tempi cronologici tradizionali che danno più risalto al tempo interiore come durata, piuttosto che a quello oggettivo ed esteriore, presenta aspetti di modernità, assimilabili al romanzo di Italo Svevo, Una vita, significativamente pubblicato solo qualche anno dopo, nel 1892.

Seguirono Processi verbali (1890), una raccolta di dodici novelle, salutata dal vivo apprezzamento di Verga, che segna un ritorno ai moduli classici del Verismo in cui la scrittura è intesa come oggettiva trascrizione di fatti, con il sapiente uso della tecnica dell’impersonalità e dell’assoluto distacco dell’autore dalla materia narrata, secondo i postulati di una materia impassibile e documentaria, come si esige specificamente nella redazione degli atti di un processo. I personaggi e le azioni si succedono nella loro scarna essenzialità. La dimensione temporale e la successione cronologica è annullata dalle rapide battute di dialogo, con il loro immediato coinvolgimento di impronta teatrale e scenica. Nella «Prefazione» De Roberto dichiarò infatti i suoi intenti di poetica affermando: «L’impersonalità assoluta non può conseguirsi che nel puro dialogo e l’ideale della rappresentazione consiste nella scena come si scrive pel teatro».11

L’opera successiva, L’albero della scienza, è diametralmente opposta alla precedente e vede di nuovo una deviazione verso la componente psicologica dei Documenti umani, con storie basate sull’amore, immerse in atmosfere visionarie, sofferte, indagate con il distacco dello scienziato che le osserva con occhio clinico e impietoso e che anticipa la serie dei libri di indagine scientifica sull’amore. La società borghese vi appare determinata a difendere le proprie regole e la propria struttura contro la forza dirompente del rinnovamento che sovvertiva anche il ruolo tradizionale di preminenza dell’uomo sulla donna, fino ad allora recepito come un fatto ‹naturale› e non inteso nella sua reale essenza storico-culturale. L’opera segnò il definitivo abbandono di De Roberto del Verismo oggettivo.

Nel 1891 pubblicò infatti il suo secondo romanzo, L’illusione. La vicenda di quest’ultimo, anche se scritta prima del futuro capolavoro, è ambientata in un’epoca successiva alla conclusione de I Viceré. L’illusione, infatti, ruota attorno alla figura della protagonista, la principessa Teresa Uzeda di Francalanza, apparsa bambina e figura positiva nella conclusione de I Viceré. La protagonista, abbandonata dal padre, il conte Raimondo, che ha preferito seguire l’amante, persa la madre, Matilde Palmi, morta per il dolore del tradimento del marito, persa la piccola Lauretta, l’unica sorella per lo stato di salute cagionevole, rimasta senza genitori, è cresciuta e accudita da una zia e dai nonni in Sicilia, tra Milazzo e Palermo. Poco più che adolescente, Teresa, molto graziosa e corteggiata, si lascia presto incantare dal fascino della vita mondana in cui è introdotta: un mondo nobile, ricco e cinico che spreca la propria esistenza dietro vizi, maldicenze, amoreggiamenti e adulteri, un’esistenza inutile e vuota, che porterà anche lei ad accettare un matrimonio combinato che la costringe a rinunciare all’uomo di cui si era innamorata. Un matrimonio infelice e senza amore, nonostante la nascita di un figlio, costellato dai tradimenti del marito e dai suoi sperperi finanziari. Anche il ritrovato amore della gioventù di Teresa alla fine si rivela essere soltanto un’ennesima illusione, un po’ come lo è stata a posteriori tutta la sua vita. Il romanzo si conclude con la morte dell’unico affetto sincero, la vecchia e fedele governante che l’aveva accudita fin da bambina.12

Centrale resta la tematica della passione amorosa, vista come esperienza umana illusoria per eccellenza, analizzata in modo esasperato, attraverso l’introspezione psicologica minuta, i lunghi monologhi e l’uso del discorso indiretto libero, per cui l’opera rientra più che nel filone verista, in quello del realismo psicologico flaubertiano. A differenza però di Gustave Flaubert, De Roberto non emette giudizi, non polemizza contro la società, il milieu e la classe sociale descritti, ma osserva i fatti e le loro nude conseguenze con deliberato straniamento emotivo. L’amore non è mai descritto come eros e corporeità, non è mai accettato come un fatto naturale della vita, quanto piuttosto sublimato in termini intellettualistici ed elucubrati. I personaggi femminili sono connotati dal motivo dell’angoscia esistenziale, tipica del romanzo francese del secondo Ottocento. Benedetto Croce nel 1939 stigmatizzò De Roberto per essere ritornato agli stessi temi di Ermanno Raeli e di avere ricalcato il ritratto di Teresa Uzeda sull’Emma Bovary di Gustave Flaubert.

Come Giacomo Leopardi, molto stimato dall’autore e sul quale nel 1898, per il centenario della nascita, De Roberto pubblicò un saggio critico-biografico, Leopardi, frutto di un lungo lavoro di stesura e di molte revisioni, De Roberto cerca di spiegare l’essenza più vera delle cose e della natura del mondo attraverso l’amore, nel quale ravvisa uno ‹strumento› di conoscenza del reale, anche se destinato fatalmente alla sconfitta e al disinganno. Nel saggio mette in risalto la malinconia romantica del poeta recanatese, ne indaga con profondità psichica la coscienza macerata dal tormento, il senso della fugacità irrimediabile delle cose e la sua sofferenza esistenziale come espressione dell’implicita condizione umana in se stessa, ma anche come manifestazione tipica della temperie storica e culturale ottocentesca. De Roberto perviene alla conclusione che illusorio non è solo l’amore, bensì tutta l’esistenza umana, in sé e per sé, di cui la vicenda di Teresa Uzeda assurge a categoria universale. Predomina il relativismo conoscitivo con le infinite possibilità e variabili combinazioni dell’esistenza in cui la ragione cerca invano di dominare e porre ordine nella ‹follia› e nel ‹caos› esistenziale, ma in cui nulla è dato per certo ed assoluto per sempre: neppure l’amore è eterno e quindi sostanzialmente ‹vero›.

2. I Viceré, I vecchi e i giovani e Il Gattopardo a confronto

Il suo capolavoro, I Viceré, è un romanzo storico pubblicato nel 1894 a Milano.13 L’opera si colloca in una fase di passaggio dal vecchio al nuovo, dal Realismo in declino al nascente Decadentismo e rispecchia il disfacimento del vecchio sistema di idee e di valori del passato.14 Fu il risultato di una lunga fatica creativa, corretto e modificato più volte per raggiungere la perfezione, con una cura scrupolosa nel controllare le fonti documentarie per conferire veridicità al testo, tanto da minare gradualmente lo stato di salute dell’autore, già compromesso dai precedenti disturbi nervosi.

Narra la storia di un’antica e nobile famiglia siciliana, gli Uzeda, vista attraverso la decadenza, le tare ereditarie, la pazzia, la grettezza, i vizi, l’avidità e la sete di potere che la corrode e distrugge progressivamente al suo interno. L’impianto narrativo è ispirato al principio positivistico e naturalistico della race o ereditarietà. L’opera in ventisette capitoli, suddivisibili in tre blocchi di nove capitoli ciascuno, ricalca lo schema usato nel precedente romanzo, L’illusione, con un impianto complessivo rigoroso, ordinato e metodico. Gli Uzeda discendevano dai viceré spagnoli della Sicilia, venuti a Catania nel Trecento, con la carica loro attribuita dal re Carlo V di Borbone. Ma la famiglia è dilaniata nel suo tessuto da rivalità, odi, cupidigie, in cui ciascuno componente è arroccato nella difesa ostinata dei propri privilegi nobiliari e nella propria altezzosa superbia sociale. La famiglia intera è altresì minata da un germe di follia che si manifesta in fisime e comportamenti strani. Consalvo, l’ultimo rampollo, aristocratico borbonico e reazionario, ma con idee di sinistra, è afflitto da ‹mostruosità› morale, avido di potere, arrivista senza scrupoli, ambizioso in modo ossessivo, smodato, cinico, calcolatore ed opportunista. Egli è convinto che l’ordine sociale e politico vigente non muterà mai e che, se i nobili vogliono sopravvivere e conservare il potere nelle loro mani, anche dopo la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, devono sapersi ‹adattare› ai cambiamenti storici in atto nell’Italia degli anni ’50–’80 del XIX secolo.

Non è un caso che nel capitolo conclusivo, il principe Uzeda significativamente afferma:

Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento [...]. Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo [...]. La differenza è più di nome che di fatto [...]. Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano stinchi di santo. E un uomo solo che tiene nelle proprie mani le redini del mondo e si considera investito d’un potere divino e d’ogni suo capriccio fa legge è più difficile da guadagnare e da serbar propizio che non il gregge umano, numeroso ma per natura servile [...]. E poi, e poi il mutamento è più apparente che reale. Anche i Viceré d’un tempo dovevano propiziarsi la folla […]. In verità, aveva ragione Salomone quando diceva che non c’è niente di nuovo sotto il sole! Tutti si lagnano della corruzione presente e negano fiducia al sistema elettorale, perché i voti si comprano. Ma sa Vostra Eccellenza che cosa narra Svetonio, celebre scrittore dell’antichità? Narra che Augusto, nei giorni dei comizi, distribuiva mille sesterzi a testa alle tribù di cui faceva parte, perché non prendessero nulla dai candidati!15

L’inesausta sete di potere induce pertanto la nobiltà ad ogni ‹mostruosità› o mimetismo camaleontico senza farsi alcuno scrupolo, pur accettando in apparenza il nuovo stato liberale e il principio delle elezioni politiche dei rappresentanti del popolo. Le trasformazioni storiche sono viste dagli Uzeda come fenomeni superficiali, ma nulla nel profondo cambia realmente. L’espressione riflette la delusione storica del Sud dopo l’unità e il cinismo opportunistico delle vecchie classi politiche.

La vicenda abbraccia un arco storico ventennale (1853–1872) che segnò la caduta del dominio dei Borboni e la nascita dello stato unitario italiano. Prende il suo avvio dalla morte della vecchia principessa, Teresa Uzeda, vedova di Consalvo Uzeda VII, autoritaria, orgogliosa, dispotica, avida, ingiusta, che deteneva e amministrava tutto il patrimonio della famiglia. All’apertura del testamento si scopre che la principessa, aveva nominato erede universale, tra i sette figli (Giacomo, Lucrezia, Lodovico priore, Angiolina monaca, Chiara, Ferdinando e il conte Raimondo) il primogenito, Giacomo, ma di fatto aveva favorito il suo ultimo figlio prediletto, Raimondo, fatuo e vanitoso, aizzando lo scandalo e la reazione risentita da parte di Giacomo che ordirà trame astute per rientrare in possesso dell’intero patrimonio ritenendo che gli spetti di diritto. Sullo sfondo si stagliano i fatti storici: la pace di Villafranca, i plebisciti dell’Italia centrale, la spedizione di Garibaldi. Il duca Gaspare, filopiemontese e di idee liberali, viene eletto deputato con la mira reale di preservare gli antichi privilegi nobiliari nel moderno contesto storico, anche se poi perderà il favore elettorale di fronte all’ascesa al potere della Sinistra. Ma tutta una catena di eventi tragici, storici e personali, porterà progressivamente allo sfacelo graduale di tutti e sette i figli e, alla fine, alla dissoluzione dell’intera ‹razza› o ‹stirpe› degli Uzeda. La ‹corruzione biologica› e morale è vista quale conseguenza del loro sangue vecchio e corrotto dai matrimoni tra consanguinei attraverso le molte generazioni, che aveva determinato anche deformità fisiche e orribili malattie perché, secondo De Roberto, l’incrocio tra «la vecchia razza spagnola mescolatasi nel corso dei secoli con gli elementi isolani, mezzo greci e mezzo saracini, era venuta poco a poco perdendo di purezza e di nobiltà corporea».16 Affermazioni queste fortemente condizionate dai suoi studi sull’ereditarietà, sulla fisiologia, dalle teorie psicologiche e deterministe dell’Ottocento e dallo studio della filosofia di Taine. Non a caso il titolo iniziale doveva essere Vecchia razza.17 Il conte Raimondo intreccia una relazione amorosa con la bella Isabella, sposata, ospite della famiglia, per la quale lascia la moglie, Matilde Palmi, e le due figlie: Lauretta e Teresa, la protagonista del romanzo precedente, L’illusione. Raimondo fugge con l’amante, ma poi viene da questa abbandonato. Ludovico priore muore. Chiara partorisce un essere mostruoso, subito abortito, e adotta il figlio che il marito, il marchese Federico di Villardita, aveva avuto da una relazione illegittima con una cameriera. Ferdinando misantropo, resta solo e dimenticato. Giacomo, recupera il patrimonio, rimane vedovo, sposa la cugina Graziella, disereda il figlio Consalvo e muore infine di tumore. Consalvo, riesce a sua volta a recuperare tutta l’eredità paterna sottrattagli, si schiera con la sinistra, le classi operaie e popolari emergenti fino a diventare deputato nel Parlamento italiano.

Il fatalismo derobertiano affonda le sue radici nel Positivismo e si basa su una visione meccanicistica della storia, concepita come il prodotto di leggi deterministiche che si ripetono sempre uguali.18 La sua visione esistenziale non è confortata da alcuna verità escatologica, soprannaturale e ordinatrice, e svela lo scetticismo e l’agnosticismo che sempre caratterizzò De Roberto sul piano religioso.

Ma la vera protagonista del romanzo è la storia, senza la quale la trama perderebbe tutto lo spessore della sua sostanza più autentica. Rispetto al romanzo storico tradizionale però, con vicende collocate sullo sfondo, il romanzo è più rivolto all’analisi interiore capillare, documentata e sezionata con rigore scientifico e anatomico per ognuno dei molti personaggi che lo affollano. La storia è fatta dalle azioni dei singoli personaggi che spesso non hanno contezza di dirigerla inconsapevolmente. Essa non è preordinata da un disegno globale e razionale che la guida e sovrasta, prestabilito dall’alto, ma è la conseguenza dell’insieme dell’agire umano a più livelli, alti e bassi, senza una precisa finalità di progresso. La storia è vista come illusione collettiva della condizione umana che spera sempre in un possibile miglioramento:

La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento […]. In politica, Vostra Eccellenza ha serbato fede ai Borboni, e questo suo sentimento è certo rispettabilissimo, considerandoli come i sovrani legittimi... Ma la legittimità loro da che dipende? Dal fatto che sono stati sul trono per più di cento anni... Di qui a ottant’anni Vostra Eccellenza riconoscerebbe dunque come legittimi anche i Savoia... Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gl’interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l’ha travolta... Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi?19

Il concetto di storia in De Roberto è parallelo al senso della grande illusione della vita come lento, continuo, inarrestabile fluire del tempo indifferente che tutto trascina, modifica e trasforma, togliendo all’uomo ogni appiglio di certezza, riducendo tutto ad effimera parvenza come lo stesso confidò il 7 marzo del 1891 in una lettera all’amico Ferdinando Di Giorgi: «Per poco che tu guardi dentro il tuo cervello ti accorgi che non c’è nessuna credenza sicura, nessun concetto indiscutibile, nessuna determinazione incrollabile.» E in un’altra lettera del 18 luglio dello stesso anno:

L’illusione… è la stessa vita, l’esistenza, questo succedersi di evanescenze, questo ‹passare› di fatti, di impressioni, delle quali nulla resta, il cui ricordo non ha nulla che lo distingua dal ricordo delle impressioni e dei fatti sognati ‹inesistiti›.20

Ma la storia non è solo per De Roberto un complesso di fatti, accadimenti osservabili e documentabili che si intrecciano in una fitta rete di rapporti di causa ed effetto, piuttosto è un lento passaggio di cose e persone attraverso lunghi processi di trasformazione biologica, sociale ed esistenziale nel tempo in cui prevale il senso di una crudele fatalità storica che trascina con sé la vita del singolo e dell’umanità intera e in cui la presenza dell’uomo sulla terra resta oscura e insondabile, immersa in un ampio, profondo e misterioso senso della natura.

L’altro filo conduttore è la sete spietata di potere degli Uzeda da conservare a tutti i costi e l’affermazione della loro ‹supremazia› di razza e casta chiusa che rifiuta i valori del Risorgimento italiano, di libertà e di rinnovamento sociale, economico e politico.

Il romanzo ha un’impostazione ‹corale›, per la fitta selva di personaggi che lo popolano, principali e secondari, e per le azioni che rinviano l’una all’altra, con un’attenzione certosina verso il minimo dettaglio. La lingua alterna l’uso del linguaggio parlato e letterario per fotografare le caratteristiche che la lingua nazionale assumeva nelle varie classi sociali con modi di dire familiari, popolari, con proverbi e locuzioni contrapposti al perbenismo espressivo, ricercato e formale degli aristocratici. Il codice linguistico riproduce con efficacia il ‹colore locale›, in accordo con i moduli linguistici verghiani e in opposizione alla contemporanea lingua aulica, musicale e simbolista dannunziana, di cui tuttavia De Roberto ammirava la bravura. L’intreccio è molto complesso, con eventi numerosi che si intersecano secondo logici e ferrei rapporti, ma con un filo conduttore che tutti li unifica e chiarisce in modo chiaro, ordinato e lineare: la vana ricerca del potere e il suo mantenimento. L’autore, in nome della tecnica dell’impersonalità naturalistica, lascia che i fatti parlino da sé, tuttavia traspare il suo giudizio di severa condanna, a tratti sarcastico, persino crudo e impietoso contro l’amoralismo degli Uzeda, la denuncia delle colpe delle vecchie classi nobili, non meno delle successive emergenti ed egemoni, rivelando una visione pessimistica, rassegnata e fatalistica. La tecnica narrativa di De Roberto è però diversa da quella verghiana: manca la regressione della voce narrante a livello dei personaggi con la loro mentalità e il loro modo di esprimersi all’interno della realtà descritta.21 Prevale la spettacolarizzazione teatrale attraverso il dialogo, le informazioni descrittive, neutre e oggettive, i discorsi indiretti liberi, l’enfatizzazione scenica. Rispetto a Verga e a Capuana, c’è maggiore freddezza, distacco ideologico-esistenziale, a volte spietato, ma non indifferenza, a segnare un netto confine di separazione e straniamento tra la visione del mondo degli Uzeda e quella di De Roberto, diametralmente opposta e distante. L’autore si limita pertanto ad esporre ordinatamente i fatti con rigore logico e conseguenziale, come scriveva in una lettera ad un amico: «L’arte è il supremo inganno è […], mettere dell’‹ordine› in questa ‹pazzia› che è il corso della vita umana».22

Sulla linea tracciata da I Viceré di De Roberto, si colloca I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello (1867–1936), il vasto e complesso romanzo sociale e corale, solo in apparenza naturalistico, pubblicato nel 1913.23 Al centro si collocano le vicende della Sicilia sullo sfondo dell’Italia di fine Ottocento, tra il 1892 e il 1894, la miseria delle campagne, la rivolta dei Fasci siciliani guidati dai socialisti, lo scandalo della Banca Romana che travolse le nuove classi dirigenziali dell’Italia, unificata già da trent’anni, la crisi dell’industria mineraria delle zolfare. La storia pone al centro una famiglia aristocratica di Agrigento, i Lauretano, e prende l’avvio dalle seconde nozze tra il capofamiglia, don Ippolito Laurentano, feudatario filoborbonico, e Adelaide Salvo, sorella di un ricco borghese avido e privo di scrupoli. In parallelo hanno luogo le elezioni politiche per eleggere un deputato che rappresentasse gli interessi di Girgenti nel Parlamento italiano. Candidato è Ignazio Capolino del «Partito Clericale Militante», avversario politico del socialista Roberto Auriti, in un contesto di manovre e intrighi che giustifica la mancanza di fiducia nelle istituzioni politiche del tempo: «Nessuno aveva fiducia nelle istituzioni, né mai l’aveva avuta. La corruzione era sopportata come un male cronico, irrimediabile».24

Il titolo allude al contrasto irrisolto tra le vecchie generazioni che, dopo avere fatto l’unità d’Italia, videro il fallimento dei loro ideali e delle loro aspirazioni risorgimentali, avviliti dalla corruzione della nuova classe politica al potere, provati duramente nel loro spirito umanitario e idealistico, disillusi e protesi nostalgicamente verso il passato, e dall’altro le nuove generazioni disorientate, senza più punti di riferimento, che vedono naufragare ogni loro azione di cambiamento che si rivela inutile o velleitaria. È il caso di Lando Lauretano che diventa socialista perché spera in un possibile cambiamento delle strutture politiche vigenti, per un bisogno di vita nuova che spezzi la staticità delle leggi del meccanismo sociale, ma che vede infine miseramente infrante le sue speranze con la repressione cruenta della rivolta dei Fasci siciliani. Tra gli altri e numerosi personaggi principali è Flaminio Salvo, banchiere, proprietario di terre e di miniere, avido di ricchezze, pronto a calpestare tutti, inclusi i suoi stessi familiari, pur di conquistare nuove posizioni di potere e che è vittima di se stesso e delle proprie azioni, il solo rimasto lucido fino alla fine, in una casa sottratta ad altri, ma con una moglie malata di mente e una figlia impazzita. Centrali sono Ignazio Capolino e Nicoletta Scoto, esponenti tipici di una piccola borghesia ambiziosa e arrivista, senza ideali né principi etici, che fonda la propria esistenza sulla finzione e sulle apparenze, personaggi tutti che suscitano, di volta in volta, la compassione o l’esecrazione di Pirandello. Nella conclusione del romanzo tutti risultano vinti: sconfitto è il Risorgimento, come moto generale di rinnovamento del nostro Paese, quello dell’unità, come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate della Sicilia e dell’Italia meridionale; sconfitto è il socialismo, che avrebbe potuto promuovere la ripresa del movimento risorgimentale secondo lo spirito garibaldino; sconfitte sono le vecchie e nuove generazioni. I vecchi non sono riusciti a tradurre in realtà i loro sogni e si trovano a essere responsabili degli scandali, della corruzione e del malgoverno dei giovani, a loro volta guidati dai loro calcoli egoistici ed opportunistici.

La storia, anche per Pirandello, come per De Roberto, non procede secondo un movimento lineare e progressivo, ma circolare. La storia ‹non conclude›: è un costrutto senza senso e scopo.25 Depositario di questa tragica visione filosofica è don Cosmo Lauretano, il patriarca della famiglia, che ha capito il ‹giuoco› della vita, la mancanza di senso dei suoi meccanismi assurdi e che la guarda da lontano, con distacco umoristico nel suo perenne fluire e cambiare, assumendo mille facce istrioniche:

Una cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà.26

Gli ideali, anche quelli più nobili e alti, le passioni, le ideologie politiche, come il liberalismo e il socialismo dell’epoca, sono solo illusioni che l’uomo si costruisce per consistere in una forma statica che si opponga al disgregarsi della personalità e delle situazioni in una miriade di forme diverse e in continua metamorfosi. Ne scaturisce una visione fortemente pessimistica che accomuna Pirandello e De Roberto per cui anche le trasformazioni storiche sono puri fenomeni di superficie, mentre nel magma profondo dell’essere nulla può davvero cambiare. Ma, mentre il fatalismo derobertiano è figlio del Positivismo e di una concezione della storia retta da leggi deterministiche che si ripetono sempre uguali, per cui in lui c’è solo osservazione e analisi oggettiva, senza amore e senza pietà, propria dell’osservatore ‹arido e fisso›, il fatalismo pirandelliano deriva da una visione irrazionalistica dell’esistenza che vede le forme della realtà non come solide e oggettive, ma fluide e mutanti, pure apparenze illusorie prodotte dalla soggettività dell’io, dietro le quali si camuffa il continuo divenire della vita. Questa misteriosa visione metafisica scardina altresì la solidità granitica dei fatti storici all’interno della compagine del romanzo dissolvendo e disperdendo fatti e problemi su uno sfondo infinito, senza un fine e una direzione, come si evince dalle amare e parodistiche parole conclusive di Cosmo:

Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione […]. E pensare che tutto questo passerà… passerà.27

Pirandello svela, senza pietà e falsi orpelli, l’assurdo meccanismo di fondo dell’apparato della vita sociale e delle sue vane apparenze volatili con un atteggiamento beffardo, di irrisione scettica e insieme di compassione per l’ostinata cecità dell’uomo, per la vanità della sua sofferenza nel tessuto mutevole e instabile dell’esistenza. Il caos sconvolge i progetti, anche i più alti ideali e le più nobili aspirazioni, sia nel microcosmo circoscritto della vita individuale e familiare che nel macrocosmo sociale e politico, senza distinzione di classi e di ambienti sociali aristocratici, borghesi o popolari. La follia e il caos restano l’unica paradossale certezza nelle sabbie mobili dell’esistenza.

L’opera è anche apparentabile per i temi trattati con Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896–1957) che lesse con attenzione l’opera di De Roberto e ne rimase influenzato.28 Clamoroso ‹caso› letterario, il romanzo fu dapprima rifiutato da Mondadori ed Einaudi, per l’impianto ritenuto troppo tradizionale e l’ideologia eccessivamente conservatrice e pessimista. Fu pubblicato a cura di Giorgio Bassani da Feltrinelli nel 1958, ad un anno dalla scomparsa del suo autore, e incontrò uno straordinario successo di pubblico, anche a livello internazionale, ottenendo il premio Strega nel 1959. Qualche anno dopo, nel 1963, Luchino Visconti ne trasse il film omonimo. L’autore affronta il medesimo problema della delusione postrisorgimentale, pur adottando l’ottica di un membro del ceto aristocratico e adoperando un linguaggio letterario elaborato, lontano dall’imitazione del parlato, ancora presente in De Roberto, riflesso della cultura vasta e raffinata del suo autore, principe di Lampedusa.

Il romanzo ha in comune con I Viceré lo sfondo storico, sociale e geografico in cui è ambientato: la Sicilia nel periodo postunitario, tra il 1860 e il 1910, tra Palermo e Donnafugata, residenza estiva della famiglia dei principi di Salina. Siamo all’epoca dello sbarco dei Mille a Marsala, quando tutta l’isola era in subbuglio. Il protagonista, il principe Fabrizio Corbera di Salina, colto e aristocratico, di fronte ai fatti nuovi che vengono a sconvolgere la vita tradizionale, osserva ogni cosa da una prospettiva soggettiva, con la sua intelligenza e sensibilità, assume un atteggiamento di fatalistico distacco: pur legato per origini familiari e per la lunga consuetudine ai sovrani borbonici, non ne ignora i limiti e l’inadeguatezza; tuttavia un senso di dignità gli impedisce di tradirli. Con il suo rovello interiore, di impotenza di fronte al reale, percepisce l’angoscia di scivolare verso l’oblio della morte aggrappandosi inutilmente ad un vitalismo sensuale residuo. Tancredi, il nipote prediletto del principe, bello, lucido e spregiudicato, decide invece di arruolarsi: si schiera con le truppe garibaldine rimanendo ferito in battaglia. Il giovane agisce non per l’entusiasmo degli ideali risorgimentali, non perché condivida i valori democratici, ma per puro calcolo, persuaso che sia indispensabile per la vecchia classe dirigente controllare dall’interno i cambiamenti in atto. Per lui occorre infatti prendere le redini della rivoluzione nazionale al fine di tutelare i propri interessi di classe e continuare a mantenere il potere. Nel suo intimo si augura che dallo sconvolgimento dell’assetto esistente esca un nuovo ordine, uguale all’antico, di cui potranno beneficiare coloro che avranno saputo abbandonare i Borboni, ormai sconfitti, come si deduce dalla sua celebre frase che ne racchiude la morale e il preciso disegno politico: «Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi»29. L’espressione cinica sembra echeggiare quella analoga del duca di Oragua ne I Viceré: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri»30 a sua volta rovesciamento paradossale della celebre frase attribuita a Massimo D’Azeglio, nutrita, al contrario, di nobili propositi e patriottismo: «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani».31

Anche la vicenda d’amore e il matrimonio di Tancredi con Angelica, la sensuale e bellissima figlia di un borghese arricchito, con qualche grossolanità negli abiti e negli atteggiamenti da ‹signora›, rispondono a questa logica: nuovi ceti stanno emergendo per cui è con la borghesia in ascesa, incolta ma ricca che bisognava allearsi, per spartire con essa il potere dopo l’unità, impedendo che si realizzassero i generosi presupposti rivoluzionari dell’azione di Garibaldi. Il principe di Salina è più affascinato dai suoi studi di astronomia, dalla caccia e dalle sue riflessioni sulla morte che interessato alla situazione storica e politica in cui sta vivendo, «lontano da tutti nello spazio e ancora di più nel tempo».32 Egli assiste al corso degli eventi con disincanto, cosciente della fatale decadenza della sua classe, convinto della vanità degli sforzi degli uomini, «mosche cocchiere»33 che si illudono di detenere nelle loro mani le redini della storia e di «influire sul torrente delle sorti che invece fluiva per conto suo, in un’altra vallata».34 Il suo distacco aristocratico lo induce a rifiutare anche la nomina di senatore del Regno d’Italia offertagli da Chevalley, inviato dal governo sabaudo, e a consigliare di attribuirla a don Calogero Sedara, il padre di Angelica, sensale, proprietario terriero rozzo e incolto, diventato sindaco, esponente tipico di quella classe di nuovi ricchi, parvenu, arrampicatori sociali, astuti affaristi che appoggiavano le forze liberali e il governo piemontese. Significative in tal senso sono le parole che Don Fabrizio formula congedandosi da Chevalley: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene».35

Durante il ballo in casa Ponteleone per festeggiare il fidanzamento di Angelica e Tancredi, il principe che ha accettato rassegnato l’origine plebea della sua futura nipote acquisita, avverte nelle cose e nelle persone che lo attorniano i presagi della fine del suo mondo. Il declino della famiglia dei Salina procede inarrestabilmente: gli anni trascorrono monotoni e uguali, il principe muore in una squallida camera d’albergo a Palermo, le tre figlie rimangono zitelle, vivono isolate dalla realtà che si evolve intorno a loro, circondate da vecchi ricordi e suppellettili fuori moda su cui si deposita la polvere del tempo, fino a dare l’addio definitivo al passato con un gesto simbolico: lanciano dalla finestra Bendicò, il cane morto e imbalsamato della famiglia, fino ad allora custodito quasi come una reliquia, a simboleggiare la fine di un’epoca quella dei «gattopardi» il cui stemma era un gattopardo rampante, a cui è subentrata una nuova, quella degli «sciacalli»: una scaltrita borghesia, avida di guadagni, ma povera di cultura e tradizioni.

Il Gattopardo, anche se di primo acchito potrebbe dare l’impressione che sia un romanzo storico di stampo ottocentesco e naturalistico, è già moderno e lontano dalla sensibilità verista. È il frutto di tutta la cultura decadente europea del Novecento, segna la fine della stagione neorealistica e l’avvio dell’Esistenzialismo. Eugenio Montale fu tra i primi recensori che, appena pubblicato il romanzo, comprese nel profondo le sue caratteristiche formali innovative e le sue derivazioni europee:

Nulla è più lontano del Gattopardo dagli schemi del romanzo storico. Eppure il senso della storia, il trapasso delle generazioni, l’avvento delle nuove classi e dei nuovi miti, il declinare della nobiltà feudale e l’alquanto ipocrita trionfo delle ‹magnifiche sorti› sono la materia stessa e l’ispirazione del romanzo.36

Descrive il crollo delle classi egemoni trascorse e la reazione ostile delle vecchie classi conservatrici al potere di fronte all’avanzare di quelle nuove, nonché il difficile passaggio della Sicilia da un regime ad un altro che segna i vinti, gli aristocratici esautorati di un potere esercitato per secoli. Sono presenti fatti storici precisi, si coglie il clima dell’epoca, i cambiamenti nei diversi ceti sociali, anche se il punto di vista che il narratore adotta è onnisciente, filtrato dalle parole a dai pensieri del principe don Fabrizio di Salina. È anche un romanzo psicologico, per la cura meticolosa dedicata al personaggio protagonista e per la finezza con cui il suo animo è indagato attraverso la tecnica del discorso indiretto libero e del monologo interiore che scendono nell’animo del personaggio per denudarne i pensieri più reconditi. La focalizzazione è interna per cui, anche se la storia è narrata in terza persona, si serve di un personaggio come ‹riflettore›, adoperando una categoria mutuata da Henry James. Quanto viene raccontato è filtrato attraverso lo stato d’animo, la morale, l’ideologia, la percezione di sé e del mondo del protagonista, pur senza derogare dagli statuti di quello che è stato opportunamente definito «realismo modernista».37 Nel Gattopardo domina un pathos malinconico, un pessimismo nichilistico, sdrammatizzato dal tono ironico e distaccato. Il fallimento risorgimentale descritto assurge a simbolo del divario incolmabile tra speranze e realtà nella storia degli uomini, è la costante delle vicende umane che spesso approdano al fallimento delle illusioni. La negazione della storia, la sterilità dell’agire umano sono i motivi più cogenti dell’opera, come in De Roberto e in Pirandello.

Diverso è però il tono rispetto a De Roberto: questi è severo, impassibile, sprezzante e sarcastico, l’altro è più commosso, partecipe, malinconico, struggente nell’accettare le inevitabili trasformazioni della realtà. La tecnica descrittiva di De Roberto è di tipo inventariale, nel senso che classifica i personaggi in base alla loro diversa importanza nell’economia della fabula, Tomasi di Lampedusa, invece, sceglie tra i personaggi quelli più vicini al suo sentire e alla classe sociale aristocratica di appartenenza, ripercorrendo indirettamente le origini e la storia della sua stessa famiglia. C’è dunque una componente autobiografica che manca in De Roberto, in cui il ricordo è per Tomasi come per Proust recupero memoriale del tempo perduto. De Roberto descrive un periodo a lui abbastanza prossimo, pochi decenni successivi al compimento dell’Unità d’Italia, dopo il lungo Risorgimento. Tomasi riprende, invece, la stessa epoca a distanza di sessant’anni, dopo le due guerre mondiali e la dittatura fascista. De Roberto è più vicino a Stendhal per le lunghe sequenze analitiche, ma al tempo stesso se ne discosta perché non si immedesima mai dentro i personaggi, non ci fa sentire e vedere le azioni attraverso i loro occhi, ma li osserva da una prospettiva molto lontana, una focalizzazione zero, senza lasciarsi quasi mai emotivamente coinvolgere. Anche Tomasi di Lampedusa è scettico nei confronti della storia del suo tempo: crede che i cambiamenti apportati dall’unificazione italiana siano solo apparenti, che nulla cambierà anche se al potere, al posto dei nobili, ci sono i borghesi arricchiti, perché i rapporti di forza sono rimasti invariati, nonostante si sia passati dall’assolutismo al liberalismo politico. Ma in Tomasi di Lampedusa non vi è la persuasione ciclica della storia, regolata da leggi meccaniche di De Roberto. Dietro i conflitti, i progressi e i regressi vi è solo lo scorrere incalzante del tempo che sempre avanza e precipita verso il nulla. Una visione del mondo senza una luce di speranza, impotente, statica, cupa, che è voluttuosamente attratta dalla pigrizia, dal desiderio di stasi che è desiderio di precipitare nel gorgo della morte. Un sistema di idee persino più pessimistico di Pirandello che, scoperto il meccanismo beffardo della vita, si sottrae all’enorme ‹pupazzata› della collettiva recita umana e si abbandona al volubile fluire dell’esistenza nelle sue molteplici forme cangianti, desideroso di obliarsi e trovare la pace, come fa Vitangelo Moscarda nella conclusione del romanzo Uno, nessuno e centomila.

I tre romanzi storici, pur nella loro diversità e specificità, sono accomunati da un’analoga prospettiva data dall’affresco storico-sociale di ambienti, personaggi, mentalità, usi e costumi di tre grandi famiglie aristocratiche del XIX secolo: gli Uzeda, i Lauretano, i Salina. I tre autori si soffermano su quella che è stata definita ‹la delusione postunitaria›, cioè la caduta di molte delle speranze che le popolazioni del Sud avevano nutrito circa il nuovo assetto politico, segnato dalla fine del regno dei Borboni e dalla costituzione del Regno d’Italia. La vittoria della rivoluzione patriottica in Italia fu solo apparente, soprattutto nel Mezzogiorno e in Sicilia.38 Ma il microcosmo della Sicilia degli anni postunitari si innalza a metafora della vita su cui incombe sempre lo spettro della decadenza, della morte e del disfacimento, emblema di un macrocosmo universale, una categoria astratta di ‹sicilianità›, immutabile ed eterna che vede il fallimento dell’ottimismo storico, ovvero il crollo della convinzione che la storia proceda secondo un percorso di ascesa verticale, di miglioramento e di progresso umano che si scontra con l’impossibilità sostanziale del cambiamento nel tessuto immobile dell’esistenza osservato con stanco distacco decadente e sublime indifferenza.39

3. La seconda fase narrativa: L’Imperio

Dopo la conclusione de I Viceré, De Roberto avvertì forte l’urgenza di approfondire un tema centrale e ricorrente nella sua produzione, curando a Milano la stesura di tutta una serie di libri complessi e di non facile comprensione, dedicati al tema dell’amore, indagato sotto vari aspetti: sentimentale, psicologico, filosofico, storico, scientifico e di costume, materia peraltro già studiata da Darwin, Lombroso, Schopenhauer e Mantegazza. Ne derivarono opere di modesto valore letterario, ma utili per comprendere meglio la psicologia dell’autore quali: La morte dell’amore (1892), L’amore. Fisiologia. Psicologia. Morale (1898), Una pagina della storia dell’amore (1898), Gli amori (1898), lettere immaginarie indirizzate ad una nobile lettrice, sugli amori di grandi personaggi della storia (Bismarck, Napoleone, Lassalle) o della letteratura (Rousseau, D’Alembert, Balzac, Goethe), Come si ama (1900), Le donne, i cavalier… (1913) in cui è possibile ripercorrere complicate e sofferte teorie, indagini piuttosto cerebrali sull’argomento dai riflessi autobiografici e con implicazioni moralistiche che attengono forse alle sue personali vicende amorose e al suo difficile rapporto con la madre, la donna ‹sacra› originaria contrapposta alle donne ‹amanti› successive.40 L’amore è visto come un’esperienza illusoria, antiromantica, perché a contaminarne la purezza ideale è l’egoismo che finisce per relegare l’uomo e la donna nella loro solitaria e separata sfera individuale. La natura, come per Leopardi, appare estranea ai meccanismi delle passioni umane e indifferente ai bisogni di felicità dell’essere umano.

Nel 1897 pubblicò in volume il romanzo giallo-psicologico Spasimo, in precedenza apparso a puntate sul Corriere della sera e poi adattato per il teatro con il titolo La tormenta.41 È un romanzo d’appendice ben costruito ma artificioso. Al centro propone le indagini intorno ad un presunto suicidio che solo alla fine si scopre essere un omicidio, di una contessa, Fiorenza d’Arda, vedova del marito anziano, ritrovata morta nella sua villa sul lago di Losanna, a Ginevra. I primi sospetti cadono sul convivente, Alessio Zakunine, un russo in esilio, accusato dallo scrittore ginevrino Roberto Vérod che nutriva una forte passione per la donna della quale viene ricostruito il passato tormentato. Il caso è archiviato e, solo dopo molti anni, si scopre la verità quando il vecchio Zakunine, spinto dal suo nichilismo e anarchismo estremo, negatore di ogni valore, confessa a Vérod di avere effettivamente assassinato la contessa per gelosia e ne ottiene il perdono. Desideroso di espiazione, si costituisce alla polizia russa e viene condannato non a morte, ma all’ergastolo. L’opera, ritenuta non riuscita, suscitò critiche negative, per il suo acceso spiritualismo mistico, derivato dalla letteratura russa di Dostoevskij e Tolstoj, e per il rovello psicologico esasperato, come ebbe ad osservare lo stesso Pirandello, ma senz’altro riflette l’inesausto fermento sperimentale del suo autore.

Nel 1900 uscì una raccolta di articoli sociologici, artistici e letterari confluiti ne Il colore del tempo che rivelano acume psicologico, ma anche diffidenza verso le novità dei tempi nuovi e rimpianto dei sani valori del passato: la patria, l’ordine e la famiglia. Ma dall’inizio del nuovo secolo comincia la sua decadenza creativa, anche se continua la sua lunga, intensa e appassionata attività di giornalista e pubblicista. Collabora con vari periodici e giornali, Roma di Roma. Giornale politico-letterario quotidiano (1896–97), L’Illustrazione italiana di Treves, La Lettura, la Nuova Antologia, il Giornale di Sicilia, ma soprattutto con recensioni di libri e articoli sul Corriere della Sera, dal 1896 al 1910, coltivando la sua amicizia con il direttore del quotidiano, Luigi Albertini. A dividerli fu però l’opposta ideologia: interventista l’uno, non interventista De Roberto, almeno negli anni immediatamente precedenti lo scoppio del primo conflitto mondiale.42

Nel 1901 pubblicò un singolare trattato estetico, L’Arte che sembrò suggerire un ritorno ai valori morali e sociali tradizionali, ma con aperture verso la modernità, la celebrazione della bellezza dell’arte in sé e per sé, le scoperte e le invenzioni della scienza moderna che esprimono la genialità dell’uomo sempre proteso verso il progresso e che possono diventare materia di ispirazione anche per la letteratura, con osservazioni acute che preludono alla nascita del Futurismo soltanto un decennio più tardi. Scrisse anche testi dedicati a Catania, al suo patrimonio ambientale e artistico (1907), nonché due monografie su Catania, Randazzo e la Valle dell’Alcantara.

De Roberto si cimentò con scrupolo nell’adattamento per il teatro di molte sue opere narrative, per farle conoscere ad un pubblico più ampio, ma incontrò difficoltà, diffidenze, riserve e rifiuti che gli procurarono molta amarezza. L’attività teatrale si rivelò sfortunata e fallimentare, anche se utile ad approfondire la conoscenza del profilo artistico dello scrittore siciliano. Come Verga, giudicava il teatro una forma d’arte ‹inferiore› e più ‹primitiva› rispetto alle potenzialità espressive della narrativa, soprattutto del romanzo moderno, sulla linea di James Joyce, di cogliere le più sottili sfumature del vissuto umano, con tutte le sue insolubili contraddizioni. L’attività teatrale incontrò i giudizi tiepidi e incerti del suo maestro e lo scarso entusiasmo di esperti e specialisti del settore.43

La riduzione teatrale della novella Il Rosario, pubblicata nel 1899 sulla Nuova Antologia, focalizza l’attenzione su una madre dispotica con le figlie, mature zitelle, alle quali impedisce di aiutare un’altra figlia che si era sottratta al giogo matriarcale e che per questo era stata ripudiata. La Sicilia arcaica e arretrata descritta non incontrò i gusti del pubblico milanese, abituato ad ambienti ormai borghesi. Più fortunato invece fu l’atto unico Il cane della favola, per il suo andamento agile e divertente.

Nel 1911 uscì il racconto lungo La messa di nozze, di carattere amoroso e psicologico, adattato anche per il teatro, come commedia in tre atti con il titolo provvisorio L’anello ribadito e definitivo La strada maestra, in cui la protagonista, Rosanna Lariani, rinuncia alla sua passione per l’amante in nome della sacralità indissolubile del matrimonio e di valori spirituali ritenuti più elevati e, nel finale, fa celebrare una seconda messa di nozze per riconfermare l’unione con il marito legittimo, mentre l’amante fa persino da testimone e assiste impotente e disperato al naufragio della loro passione sacrificata sull’altare del perbenismo borghese. Ancora una volta De Roberto fu accusato di eccessivo moralismo e di una costruzione artificiosa e improbabile del racconto, soprattutto nella conclusione.

Seguirono le due novelle Un sogno e La bella morte. Nella prima si sofferma sulla passione improvvisa del protagonista per una donna straniera e sposata che l’autore insegue dall’Italia fino a Parigi e che si conclude in una dimensione sospesa tra sogno e realtà. La seconda ruota intorno ad un giovane ufficiale di marina Corleoni, diviso tra il dovere professionale e l’amore di una bella ragazza che, dopo aver subito sanzioni disciplinari, scompare in una tempesta, inutilmente cercato dal padre, il comandante della nave, che rimane duramente colpito nel suo affetto paterno.

Dopo la chiusura nel silenzio narrativo di Verga, De Roberto progettò di scrivere la biografia critica del suo amico e maestro, rimasta incompiuta. Con lo stesso Verga aveva elaborato nel 1919 una versione della novella La lupa in tragedia lirica, sperando di ricavarne un libretto d’opera che invano cercò di fare musicare a Puccini e Mascagni.

La ritrovata vitalità letteraria si spense allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, in seguito al suo rientro a Catania, dove fu nominato bibliotecario della Biblioteca civica. Finita la guerra pubblicò su varie testate nove Novelle di guerra (1919–1923), frutto di un avvenimento totalizzante, ancora avvertito come caldo e sconvolgente, in cui si sofferma sulle classi proletarie e più umili. Pur conservando il suo spirito antiplebeo, con scrupolo documentario e fedeltà al vero, riproduce il linguaggio dei vari strati sociali, tra cui la più nota è la prima La Cocotte e il racconto struggente La paura che narra la storia di un umile soldato che diserta per sottrarsi ad una missione militare pericolosa e che alla fine si toglie la vita per rimarcare, in chiave antiretorica e bellicistica, le tragedie umane, gli orrori, la disumanità e l’ingiustizia di una guerra che destinò alla morte milioni di poveri soldati.

Nel 1919 pubblicò alcuni saggi retorici e patriottici di carattere politico e militare, ma di scarso valore, Al rombo del cannone e All’ombra dell’olivo nei quali sembra ritornare alla narrazione di tipo naturalistico e all’uso di una varietà e mescolanza di registri linguistici, mentre a livello ideologico traspare un certo conservatorismo e nazionalismo, con aperture verso le novità apportate dal fascismo visto con ingenua simpatia, più emotiva che consapevolmente meditata.44

Il romanzo L’Imperio fu concepito nel 1893 come l’ultimo romanzo della trilogia degli Uzeda, e venne pubblicato postumo da Mondadori nel 1929, rimasto interrotto per la morte improvvisa del suo autore.45 De Roberto si era recato appositamente a Roma nel 1908 sperimentando una ritrovata vitalità creativa: frequentò il Parlamento e gli ambienti politici, allargò le sue amicizie letterarie, raccolse materiali sulle abitudini e sui costumi dei parlamentari utili per la stesura del suo romanzo politico. Scriveva infatti: «Ho passato parecchi mesi a Roma a bella posta. Ho in mente un romanzo di vita parlamentare».46 Doveva pertanto trattarsi di un romanzo sull’Italia politica a lui coeva che, nei suoi intenti, avrebbe dovuto avere l’effetto dirompente di una ‹bomba›.

La storia riprende puntualmente le vicende relative all’ascesa politica di Consalvo Uzeda di Francalanza, ultimo discendente della famiglia aristocratica, che dopo essere stato eletto deputato, si trasferisce nella capitale e comincia a frequentare gli ambienti del Parlamento italiano. L’ambiente è oscuro, statico, pieno di complicate e sotterranee manovre di palazzo, un mondo cinico e brutale, in cui ciascuno è chiuso nelle proprie posizioni. Le ricchezze degli Uzeda non servono più a farsi strada in questo nuovo mondo, in cui Consalvo, ancora cinico, ma meno padrone di sé e delle situazioni, sempre più spregiudicato, finisce per degenerare in un semplice avventuriero, si schiera con l’estrema sinistra e su posizioni antisocialiste, ma viene accoltellato da un fanatico socialista e rimane ferito. In seguito all’evento la grande borghesia dei conservatori lo eleva ad alfiere dei suoi interessi e lo nomina ministro dell’interno. Il secondo personaggio chiave, nel quale De Roberto cela il suo punto di vista con riflessi autobiografici, è un giovane idealista di provincia, Federico Ranaldi, da poco laureato, che arriva a Roma con il suo bagaglio di entusiasmi e speranze, ma che presto è costretto a scontrarsi con un mondo arrivista, corrotto e corruttore che stroncherà le sue aspirazioni. Divenuto giornalista, collabora con La cronaca, il giornale fondato da Consalvo Uzeda, di cui sembra incarnare l’alter ego, segreto e tormentato, l’anarchico idealista che rifiuta il mondo dissoluto, disumano, amorale, della classe politica del tempo. Deluso nelle sue aspettative, ritorna a Salerno, dove ritrova una luce di speranza nell’amore di una giovane, la dolce Anna. Consalvo, simbolo di quel mondo deturpato, alla fine è costretto ad arrendersi e dimettersi, vittima egli stesso degli spietati giochi politici dove è sempre il più forte a vincere, secondo le feroci leggi darwiniane. Ma qui, al nono capitolo, il romanzo resta interrotto.

Il pessimismo di De Roberto si fa ancora più accentuato fino al nichilismo, in cui l’annientamento di sé, attraverso il suicidio, l’annientamento del mondo, l’autodistruzione della razza umana, la sua progressiva alienazione, si presenta come unica via d’uscita al problema della vita universale con riflessi che anticipano la conclusione del romanzo di Italo Svevo, La coscienza di Zeno.

La critica non è stata neanche in questo caso favorevole all’autore: non ha tenuto conto che si trattava di un’opera allo stato di abbozzo e non ha colto quegli accenti di modernità novecentesca che la collocano ben oltre il Verismo e il Positivismo, ormai del tutto superati. La narrazione fu infatti ritenuta disorganica, appesantita da numerose digressioni cronachistiche, con scene statiche e uniformi rispetto alla vivacità del capolavoro antecedente.47 Parmenide Bettoli nel 1893 la accusò di eccessiva prolissità, di inconsistenza contenutistica, di improprietà linguistiche e di eccessivi francesismi lessicali. I personaggi secondari rivelano un tratteggio impreciso e sono ritenuti improbabili. Ma, al di là dei suoi limiti tecnici, rivela senz’altro il consueto taglio di analisi impietosa, restituisce al pubblico uno spaccato efficace di storia, analizzato in concreto nei singoli fatti esaminati in ogni loro aspetto. Nodo centrale è la riconferma della delusione postrisorgimentale, naufragata per colpa del nuovo ceto al potere, la borghesia emergente, inetta ad avviare un reale sviluppo economico, sociale e culturale dell’Italia postunitaria, anch’essa chiusa, non meno degli aristocratici de I Viceré, nella difesa ostinata e agguerrita dei propri interessi di parte e che la porterà, a sua volta, ad un’inevitabile degenerazione e progressiva decadenza.

4. De Roberto, precursore della narrativa novecentesca

La figura di Federico De Roberto è rimasta a lungo e immeritatamente in ombra, trascurata dalla critica ufficiale, con qualche ventata di interesse e rivalutazione solo a partire dal secondo Dopoguerra. La critica, soprattutto crociana, fu quasi sempre ostile nei suoi riguardi, con giudizi a volte ingiusti e riduttivi.48 Nella sua vita non ci furono avvenimenti eclatanti, particolarmente significativi, per il suo carattere chiuso e riservato, se si escludono le sue malattie nervose e psicosomatiche, la sua ipersensibilità, il tormento, l’ansia esistenziale e intellettuale che sempre lo accompagnarono condizionando non poco la sua produzione letteraria, molto frastagliata e articolata, a volte incerta negli esiti. Al suo interno si succedettero intensi periodi creativi, di ricerca e sperimentazione, ad altri di decadenza e involuzione che hanno determinato un amalgama di scrittura mutevole, solo apparentemente disordinato e difforme, a volte persino contraddittorio per la compresenza della suggestione verista alternata allo psicologismo accentuato che, protraendosi per tutto il suo arco creativo, ne creò apparenti squilibri, in realtà frutto delle istanze storiche e culturali in trasformazione.49 Lo scrittore conterraneo, Vitaliano Brancati, gli dedicò la sua tesi di laurea50, giudicando negativamente le opere di impianto psicologico, anche se qualche influsso di De Roberto si averte negli stessi romanzi di Brancati, Il bell’Antonio, Don Giovanni in Sicilia, e Paolo il caldo. Positivi, invece, i giudizi dei suoi amici più cari e stimati, Verga e Capuana, almeno per le opere di carattere più veristico e meno introspettivo.

Più lungimirante il giudizio di Carlo Bo che, sulla rivista Oggi già nel lontano 22 settembre 1945, annotava perspicuamente: «Il De Roberto è stato interpretato nell’ordine di una scuola [il Verismo] a cui in fondo non apparteneva, e nel cerchio della luce verghiana»,51 mentre invece andrebbe rivisitato nella giusta prospettiva, nel suo fondo naturalistico-verista inscindibile dal suo complesso psicologismo. La sua corposa produzione andrebbe pertanto più opportunamente inserita in un contesto di maggiore profondità di analisi esistenziale con i suoi tratti antiromantici, simbolici e paradigmatici.

De Roberto ha così anticipato la più moderna narrativa novecentesca in parte a lui debitrice, all’interno di un fisiologico processo di scambio ed osmosi, come dimostrato dagli influssi da lui esercitati su qualche romanzo di Pirandello, Svevo, Brancati e Giuseppe Tomasi di Lampedusa.52 Nonostante il sopraggiungere di nuove correnti culturali e letterarie, il Decadentismo spiritualizzante di Antonio Fogazzaro, quello estetico, panico e lussurioso di Gabriele D’Annunzio, il Simbolismo di Giovanni Pascoli e il Crepuscolarismo di Guido Gozzano, De Roberto continuò con impegno inesausto la sua attività letteraria, anche se ormai letterariamente stanco e sopravvissuto, dalla fama in declino in Italia. Neppure la vita appartata di provincia esaurì la sua ispirazione letteraria per cui non si rinchiuse mai, come accadde a Verga, in un definitivo silenzio sperimentale e artistico.

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  1. D’ Ambra, Lucio: «Tutta la verità di F. De Roberto al Quirino», in: L’Epoca, 1 aprile 1922.
  2. Sipala, Paolo Mario: Introduzione a De Roberto, Roma–Bari: Laterza 1988.
  3. Madrignani, Carlo Alberto: Illusione e realtà nell'opera di Federico De Roberto, Bari: De Donato editore 1972.
  4. Mariani, Gaetano: «Federico De Roberto narratore», in Ottocento romantico e verista, Roma: Giannini 1972, p. 45.
  5. Di Grado, Antonio: La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto, gentiluomo, Acireale-Roma: Bonanno 2007.
  6. Cfr. Carrannante, Antonio: «Federico De Roberto negli ultimi sviluppi della critica», in Otto/Novecento, settembre–ottobre 1991, pp. 153–164.
  7. Cfr. De Roberto, Federico: Lettere a Donna Marianna degli Asmundo, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Catania: Tringale 1978.
  8. Cfr. De Roberto, Federico e Valle, Ernesta: Si dubita sempre delle cose più belle. Parole d’amore e di letteratura, a cura di Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, Milano: Bompiani 2014.
  9. Cfr. De Roberto, Federico: Lettere a Pia, a cura di Teresa Volpe, Roma: Aracne editrice 2015.
  10. Cfr. Di Grado, Antonio, Sardo, Rosaria e Sangiorgio, Placido A.: San Placido, novella tratta da La Sorte, con contributi critici e saggio storico, Cuneo: Nero su Bianco Edizioni 2018.
  11. Cfr. De Roberto, Federico: «Prefazione a Processi verbali», in: Romanzi, novelle e saggi, a cura di Carlo Alberto Mandrigani, Milano: Mondadori, 1998, p. 861.
  12. De Roberto, Federico: L’Illusione, a cura di Nunzio Zago, Milano: Rizzoli 2011.
  13. De Roberto, Federico: I Viceré e altre opere, a cura di G. Giudice, Torino: UTET 2006.
  14. Cfr. Gualdo, Luigi: Decadenza, introduzione di Geno Pampaloni, Milano: Club degli Editori 1961.
  15. De Roberto, Federico: I Viceré, Milano: Mondadori 2001, p. 302.
  16. Cfr. Cavalli Pasini, Annamaria: De Roberto, Palermo: Palumbo 1996, p. 23.
  17. Cfr. Mortilla, Salvatore: Malarazza. Saggio su I Viceré di Federico De Roberto, Gallico: Leonida 2014.
  18. Cfr. Ganeri, Margherita: L’Europa in Sicilia. Saggi su Federico De Roberto, Milano: Mondadori 2005.
  19. De Roberto, Federico: I Viceré, Milano: Mondadori 2001, p. 303.
  20. Di Benedetto, Arnaldo: «Edith Wharton e Bernard Berenson lettori ‹entusiasti› dei ‹Viceré›», in Giornale storico della letteratura italiana, vol. 189, fasc. 625, 2012, p. 129–149.
  21. Cfr. Cantelmo, Marinella: «Silenzio d'autore: mito e modi dell'impersonalità narrativa ne I Viceré di Federico De Roberto«, Strumenti critici, Torino, a. XI, fasc. 3, n. 82, sett. 1996, pp. 449–477 (poi in Gli inganni del romanzo, 1998).
  22. Faenza, Roberto: riduzione cinematografica de I Viceré, 2007.
  23. Pirandello, Luigi: I vecchi e i giovani, a cura di Massimo Onofri, Milano: Garzanti 2007.
  24. Ivi, p. 78.
  25. Cfr. Spinazzola, Vittorio: Il romanzo antistorico, Roma: Editori Riuniti 1990.
  26. Pirandello, Luigi: I vecchi e i giovani, a cura di Massimo Onofri, Milano: Garzanti 2007, p. 156.
  27. Ivi, p. 302.
  28. Tomasi di Lampedusa, Giuseppe: Il Gattopardo, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Milano: Feltrinelli 2008.
  29. Ivi, p. 79.
  30. De Roberto, Federico: I Viceré, Milano: Mondadori 2001, p. 87.
  31. AA. VV., The Risorgimento of Federico De Roberto, a cura di J. Dashwood e M. Ganeri, Oxford-New York-Berlin: Peter Lang 2009.
  32. Tomasi di Lampedusa, Giuseppe: Il Gattopardo, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Milano: Feltrinelli 2008, p. 87.
  33. Ivi, p. 103.
  34. Ivi, p. 115.
  35. Ivi, p. 207.
  36. Cfr. Orlando, Francesco: L’intimità e la storia. Lettura del Gattopardo, Torino: Einaudi 1998.
  37. Cfr. Ganeri, Margherita: Il romanzo storico in Italia, Lecce: Piero Manni 1999.
  38. Cfr. Zago, Nunzio: Racconto della letteratura siciliana, Catania: Maimone 2000.
  39. Cfr. Ganeri, Margherita: L’Europa in Sicilia. Saggi su Federico De Roberto, Milano: Mondadori 2005.
  40. Cfr. De Liso, Daniela: Percorsi derobertiani. Politica. Donne. Spazio, Napoli: Loffredo 2012.
  41. Cfr. Capozzi, Giorgia: La genesi di Spasimo di Federico De Roberto, Catania: C.R.E.S. 2009.
  42. Cfr. Federico De Roberto a Luigi Albertini. Lettere del critico al direttore del Corriere della Sera, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Roma: Bulzoni 1979.
  43. Cfr. De Roberto, Federico: Teatro, a cura di Natale Tedesco e Vincenzo Licata, Milano: Mondadori 1981.
  44. Cfr. Pannunzio, Giorgio: «Sulle novelle belliche di Federico De Roberto», in Studi Medioevali e Moderni, 2, 2000, pp. 119–150.
  45. De Roberto, Federico: L’Imperio, Milano: Rizzoli 2009.
  46. Cfr. De Liso, Daniela: Percorsi derobertiani. Politica. Donne. Spazio, Napoli: Loffredo 2012, p. 53.
  47. Cfr. Castelli, Rosario: Il punto su De Roberto. Per una storia delle opere e della critica, Acireale-Roma: Bonanno 2010.
  48. Carrannante, Antonio: «Alcune proposte per rileggere De Roberto», in Misure critiche, n. 80–81, luglio–dicembre 1991, pp. 71–95.
  49. Cfr. Castelli, Rosario: Il punto su De Roberto. Per una storia delle opere e della critica, Acireale-Roma: Bonanno 2010.
  50. Brancati, Vitaliano: De Roberto e dintorni, a cura di R. Verdirame, Catania: Tringale 1988.
  51. Cfr. Carrannante, Antonio: «Alcune proposte per rileggere De Roberto», in: Misure critiche, n. 80–81, luglio–dicembre 1991, p. 56.
  52. Cfr. Madrignani, Carlo Alberto: Effetto Sicilia: genesi del romanzo moderno, Macerata: Quodlibet 2007.