Franco Baldasso: Curzio Malaparte, la letteratura crudele. Kaputt, La pelle e la caduta della civiltà europea
Roma: Carocci 2019, 119 S., Euro 13,00
ISBN 978-8-8430-9482-0

• Tommaso Pepe •


PID: https://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-EA9C-2

Il minotauro e il labirinto.

Per molto tempo e svariate ragioni, preconcezioni, o tabù ideologici, quello con Malaparte è stato un incontro critico lungamente e tenacemente evitato. Troppo scomoda, o forse troppo imbarazzante la sua difficile parabola di scrittore, intellettuale, polemista, agitatore e animatore culturale di respiro europeo che ha letteralmente perforato uno dei periodi più opachi della storia del Novecento – talvolta, va detto, millantando crediti non suoi; molto più spesso pagando caramente, e in prima persona, gli esiti rovinosi delle sue avventure di autoproclamato «capitano di sventura»1. Dagli anni cruciali del primo dopoguerra all’avvento del fascismo, passando per fasti lugubri del regime mussoliniano, la guerra civile e la difficile transizione verso il postfascismo, alla prova del tempo la figura di Malaparte ha gradualmente rivelato la capacità di porsi – o imporsi – quale interprete sottilmente eterodosso e volutamente ostico della grande crisi europea del XX secolo.

Il pregio fondamentale di questo agile volume di Franco Baldasso è così quello di accumulare argomentazioni in favore della rottura d’un ostracismo ricettivo che ha ripetutamente intralciato una valutazione scevra da sovrastrutture ideologiche e, laddove necessario, spietatamente ma genuinamente critica dell’opera malapartiana. Curzio Malaparte, la letteratura crudele aggancia in tal modo la scia d’un rinnovato interesse verso la figura di Malaparte, di cui hanno rappresentato preconizzazioni decisive da un lato l’inaspettato giudizio positivo riservato da Milan Kundera a La Pelle nella sua più recente raccolta di saggi, Une rencontre, apparsa nel 2009; dall’altro la pubblicazione dell’esaustivo studio biografico di Maurizio Serra, Malaparte: vies et légendes, apparso per l’editore Grasset nel 2011 (senza dimenticare i precedenti di Giuseppe Pardini e Giordano Bruno Guerri, mentre più recentemente andrebbe segnalata l’organizzazione di un convegno, Curzio Malaparte e la ricerca dell’identità europea, tenutosi il 6 e 7 giungo 2019 presso l’Università di Torino).

L’operazione ermeneutica compiuta da Baldasso rivela alla sua essenza una semplicità tanto cristallina quanto indispensabile: se «il personaggio di Malaparte» ha finito per occupare con le sue intemperanze e esagerazioni «tutta la scena», eclissando lo scrittore e intralciando una «accurata ricognizione dei meriti e conseguimenti letterari di quest’ultimo» (p. 8), all’indagine critica spetta allora il compito di muoversi à rebours: travalicando cioè la cortina fumogena d’una biografia folgorante – e quindi pericolosamente disorientante – al fine di lasciar finalmente parlare le opere e i testi. L’obiettivo, in altri termini, è quello di riportare il focus della discussione dalla biografia all’opera, dalle controversie del «personaggio» al lavoro letterario dell’autore: perché Malaparte, come scriveva ormai più di vent’anni fa Giancarlo Vigorelli, «per natura sua e, fatalmente, per le sue troppe avventure, è già un labirinto». L’operazione critica da portare a termine su di lui è, allora, «quella di percorrere e ripercorrere quel dannato labirinto e, se possibile, liberarne il Minotauro-Malaparte» invece che restituirlo «alle sue catene, alle sue tenebre» (le parole sono tratte dalla Testimonianza e proposta di revisione annessa all’edizione delle Opere scelte curata da Luigi Martellini nel 19972). Tuttavia, andrebbe aggiunto, le catene da cui Malaparte va liberato sono spesso catene volutamente autoimposte: muri d’una biografia sapientemente e spregiudicatamente costruita ad arte pour épater le bourgeois e che ha finito per riassorbire, e occultare a più riprese, il labirinto non meno arduo della sua opera. Con un paradosso probabilmente premeditato, e un capolavoro degno da Narciso, Malaparte va così liberato soprattutto da se stesso, e a se stesso – e cioè allo scrittore che è stato – debitamente riconsegnato.

Crudeltà, testimonianza, autofiction.

Il problema del rapporto fra letteratura e vita echeggia così sottotraccia sin dal primo capitolo del libro: «Un personnage qui s’appelle ‹je›». Crocevia dell’argomentazione di Baldasso è il rigetto d’una semplificazione esegetica che vorrebbe in Malaparte l’epigono, virato in chiave espressionistica e grottesca, delle grandi correnti del decadentismo e dell’estetismo europeo che da Baudelaire arrivano sino a D’Annunzio: Malaparte, scrive Baldasso, andrebbe semmai annoverato fra i «seppellitori di tale filone dell’estetica moderna» (p. 21). Oggetto del contendere è in modo particolare il concetto-guida della «crudeltà» che la scrittura malapartiana eleva a fulcro della propria poetica in modo particolare a partire da Kaputt (1944), ma con prodromi significativi rilevabili già dagli anni Trenta. In controtendenza rispetto una lunga tradizione interpretativa surrettiziamente ispirata da una culture of redemption e che va idealmente da Cecchi a Giulio Ferroni, secondo la quale nelle esagerazioni bellettristiche di questo enfant terrible del Novecento italiano andrebbero ravvisati gli strascichi disfatti d’un estetismo tardo decadente, Baldasso osserva invece come la «crudeltà» stilistica e tematica delle narrative malapartiane si definisca non solo «nella comune opposizione all’estetismo e ai suoi numi tutelari», ma come doverosa e improrogabile «resa letteraria di un epocale accertamento storico» (p. 26–27). La scrittura dolorosamente «crudele» di Malaparte rivela cioè, se letta con le giuste categorie interpretative, una radice storica ben diversa dall’estetismo fin de siècle: essa piuttosto configura l’improrogabile strumento estetico per verbalizzare senza improbabili velature moralistiche la crudeltà parimenti irredimibile delle tanatopolitiche in cui fu sprofondata la contemporaneità europea del pieno Novecento. In sintesi – e l’interpretazione di Baldasso poggia sull’uso oculato di un significativo saggio di Leo Bersani, The Culture of Redemption – la scomoda poetica malapartiana prescrive che ad una storia crudele debba corrispondere una letteratura parimenti crudele, pena il rischio di trasformare l’arte in un vacuo palliativo consolatorio.

Ugualmente ricco di spunti di riflessione è il punto successivo dell’argomentazione sviluppata in Curzio Malaparte, la letteratura crudele, che vorrebbe ricollegare la natura obbligata di questa crudeltà letteraria a una dimensione etica e culturale particolarmente impegnativa come quella della testimonianza. «Di fronte alla catastrofe di senso», annota Baldasso, «della storia, delle ideologie, il compito dello scrittore moderno è quello di portare testimonianza» (p. 27, corsivo nell’originale). «La speciale aderenza di Malaparte e della sua scrittura alla realtà testimoniata», continua, «è ciò che ne stabilisce la differenza rispetto ad altri tentativi narrativi di interpretare il periodo più tortuoso della storia italiana moderna, anche quando tale realtà è coscientemente deformata dallo scrittore pratese in gesto postsurrealista» (ibidem); «Malaparte si attiene con notevole forza espressiva al ruolo che si è ritagliato, quello del testimone» (p. 81). Punti d’appoggio teorico di questa rilettura in chiave testimoniale della scrittura malapartiana sono, in maniera non inaspettata, Giorgio Agamben e Jacques Derrida lettore dell’Istant de ma mort di Blanchot. Può la scrittura di Malaparte essere interpretata come scrittura testimoniale, o forse andrebbe sottoposta al vaglio di altre lenti interpretative? Nell’ambito dell’ère du témoin, la nozione di testimonianza assume implicazioni particolarmente onerose. Pur considerando la natura «performativa» dell’enunciato testimoniale (p. 30), per servirsi delle parole di Agamben «il soggetto della testimonianza è quello che testimonia di una desoggettivazione»3: a testimoniare, oltretutto «per conto terzi»4, sono le vittime, e l’oggetto del racconto testimoniale – e la sua «lacuna» – coincidono con un’esperienza di de-umanizzazione di cui i testimoni-sopravvissuti (e non casualmente le due parole condividono la stessa cornice semantica) portano con sé le «cicatrici dello spirito»5. Fino a che punto, o attraverso quale traslazione metaforica, la figura di Malaparte può assumere le fattezze dello scrittore-testimone, di quello che Jean Cayrol avrebbe chiamato nouvelle Lazare? La domanda, naturalmente, resta aperta. Il vincolo costitutivo tra «funzione» e «finzione» del testimone, fra «storia» e «racconto»6 è in Malaparte radicalmente e volutamente abolito, senza che ciò vada a discapito della qualità della sua finzione letteraria. Accade piuttosto il contrario: il labirinto di parole che Malaparte ha sapientemente cucito in tutte le sue opere, specie in quelle a sfondo para-autobiografico come Kaputt o La pelle, appare forse tanto più schiacciante e maledettamente complesso in quanto al suo interno vengono intenzionalmente soppressi i confini fra vero, il falso e il finto, fra l’esperito e l’immaginato. Senza dichiararlo esplicitamente Malaparte si rivela così essere grande e consapevole costruttore di autofiction avant la lettre. Ed è probabilmente, come avrebbe suggerito Manganelli, questa straordinaria capacità nel far uso dell’inesorabile propensione della letteratura a trasformare il vero in finzione, la storia (ossia l’esperienza vissuta, l’Erlebnis, non certo la Storia con la S maiuscola che è già sempre frutto di un emplotment) in racconto, a rendere forse così interessanti per noi lettori postmoderni, ormai abituati a fare i conti con le inestricabili sottigliezze falsificatorie della scrittura, le continue falsificazioni che Malaparte addensa nelle sue finzioni d’autobiografia.

D’altro canto è proprio l’attenzione che Baldasso dedica alla crudeltà e all’enfasi quasi ossessiva che Malaparte riserva a «figure della vittimizzazione e del sacrificio che incarnano la continuità della vita creaturale» (p. 64) a offrire un'altra potente intersezione con uno dei nodi lasciati in eredità dalle grandi catastrofi collettive del Novecento. Tralasciando le derive estremistiche del sadismo, dove crudele è chi trae piacere dall’infliggere sofferenza, la nozione di crudeltà designa nella sua essenza l’esercizio d’una violenza priva di scopo: evitabile, inutile. Non a caso «l’inutilità» della sofferenza costituisce uno dei temi più scabrosi delle grandi narrazioni offerte da Kaputt e da La Pelle, quest’ultima provocatoriamente dedicata alla memoria dei soldati americani «morti inutilmente per la libertà dell’Europa»7 (frase che, per esempio, avrebbe causato non pochi grattacapi all’autore in modo particolare con il suo editore francese, Denoël). Il collegamento possibile, in questo caso, è così con quella nozione di «violenza inutile» sviluppata da Primo Levi nel quinto capitolo de I sommersi e i salvati e che costituisce senz’altro uno dei grandi temi (irrisolti) della filosofia politica del Novecento (laddove la «paura degli inermi» evocata da Malaparte in Kaputt8, in pagine non casualmente dedicate alla descrizione del ghetto di Varsavia, non può non far affiorare alla mente quella «violenza sugli inermi» che Adriana Cavarero ha acutamente identificato come una delle forme più specifiche e inquietanti della violenza contemporanea9). Che la scrittura di Malaparte sia riuscita nel mettere a fuoco con una inusitata forza premonitrice una delle grandi aporie della violenza del XX secolodi cui decenni dopo lo stesso Levi avrebbe offerto, da tutt’altra prospettiva, una definizione concettuale stringente, rimane così ipotesi ancora da saggiare a livello critico.

La presenza onnipervasiva d’una violenza «inutile» diffusa capillarmente in tutto l’affresco allucinato dei romanzi più noti di Malaparte è un tema che Baldasso esplora con grande perizia negli ultimi due capitoli del volume: Una comprensione tragica della storia moderna e Maschere. Riflessioni sul capro espiatorio, dove vengono fissati una serie di risultati ermeneutici di particolare rilievo. Curzio Malaparte, la letteratura crudele si concentra infatti su una delle grandi questioni che fanno da sfondo concettuale a tutta la maturità artistica malapartiana: il rifiuto del «trasferimento dal religioso al politico dell’idea di redenzione», trasferimento in odore di teologia politica, a cui l’autore oppone piuttosto una «concezione tragica della storia» nella quale ogni sacrificio diviene di conseguenza inutile perché slegato da qualsivoglia redenzione escatologica (p. 53, 54, corsivo nell’originale). In netta rottura con le grandi tradizioni culturali che hanno guidato la transizione italiana verso la repubblica e il postfascismo, gli obiettivi polemici di Malaparte appaiono così essere non «soltanto lo storicismo crociano, intriso di neohegelismo, ma anche e soprattutto le narrazioni di espiazione e redenzione nazionale esercitate sia da parte cattolica che comunista, che nella loro opposizione polare hanno avuto grande presa popolare nel secondo dopoguerra in Italia» (p. 11). Chiaro, in altri termini, è il vero e proprio disprezzo che Malaparte avrebbe nutrito verso quel grand récit teso a ricondurre la catastrofe della guerra a una sofferenza ‹utile› – o utilizzabile – ai fini d’una «redenzione collettiva dai crimini e dall’abiezione fascista» (p. 77). Il messaggio verrà rimarcato con una verve rasentante lo scandalo ne La Pelle, nell’invito provocatorio esplicitato sin dal primo capitolo del romanzo ad essere «degni della vergogna dell’Italia», rifiutando quindi ogni scorciatoia morale che vorrebbe intravedere in quella stessa vergogna lo strumento privilegiato d’una riabilitazione surrettiziamente pagata con ‹lacrime e sangue›.

Vergogna prometeica e sacrificio senza espiazione: leggere Malaparte con Anders e Girard.

L’ansia speculativa sottesa tanto a Kaputt quanto a La pelle mira quindi a sgombrare il campo da ogni strascico di «tragedia romantica» e da quella che Luperini ha denominato «ideologia della ricostruzione» (p. 77). L’analisi sviluppata da Baldasso per lumeggiare questa decostruzione malapartiana delle ideologie della redenzione con cui l’Italia avrebbe cicatrizzato la rottura violenta che avrebbe sancito il passaggio dal fascismo alla democrazia si delinea attraverso la messa a fuoco di due temi chiave. Il primo (cap. III) insorge da quella reiterata e ossessiva processione di metafore animalizzate della sofferenza che punteggiano l’architettura di Kaputt, le cui sezioni sono di volta in volta poste sotto il segno d’una differente allegoria animale: cavalli, topi, cani, uccelli, renne, mosche. «La maggior parte delle vittime in Kaputt», nota Baldasso, «sono infatti animali»: nella loro sofferenza è così possibile rilevare qualcosa di «blasfemo, come la rottura di un’arcana alleanza che è intrinseca nella nascita di tutti i viventi» (p. 56). Perché questa insistenza su una vera e propria animalizzazione della sofferenza? La risposta, scrive Baldasso, è «nelle parole di Malaparte»: «la parte animale è il residuale territorio comune della nostra esistenza. Liberarsi della parte animale vuol dire rifiutare il più fondamentale senso d’appartenenza e in fondo ciò che è più umano negli uomini» (p. 58). Il bestiario allegorico che popola la prosa di Kaputt diviene espressione d’una cornice tematica ben individuata, nella quale «il suicidio dell’Europa è così una diretta conseguenza di un’utopia politica ben precisa: sacrificare nell’uomo l’animalità che lo costituisce» (ibidem). L’uccisione della creaturalità animale rappresenta il correlativo oggettivo dell’annientamento della vita creaturale dell’uomo stesso, con un passaggio concettuale che Baldasso legge alla luce di quella che Günther Anders avrebbe chiamato prometheische Scham, la «vergogna prometeica» dell’uomo «di fronte alla perfezione e alla potenza», infinitamente inumana, «delle proprie creazioni tecnologiche» (p. 57).

Tuttavia, nota altresì Baldasso, «nella sua scrittura Malaparte impiega animali come allegorie di Cristo, ed esplicitamente li chiama ‹i nuovi Cristi›»: i loro corpi violati «testimoniano d’uno stringente paradosso, un conflitto tragico che è al centro di tutte le sue successive elaborazioni artistiche» (p. 74). Le figurazioni animali e vittimarie si propongono in altri termini come ri-figurazioni della sofferenza inutile iscritta par excellence nel nucleo della cultura occidentale, quella della passione cristologica. È proprio la questione del «capro espiatorio» – enucleata attraverso una analisi dell’unico film diretto da Malaparte, Il Cristo proibito – ad occupare il centro dell’ultimo capitolo di Curzio Malaparte, la letteratura crudele: Maschere. Riflessioni sul capro espiatorio. Richiamandosi alle ricerche di René Girard sul legame sotterraneo fra sacralità e violenza, Baldasso porta all’attenzione del lettore il valore radicalmente laico della rilettura malapartiana della figura Christi – la cui ombra aleggia ossessivamente in molte e molte pagine dell’autore. Nell’interpretazione girardiana, la passione e la morte sul Golgota desacralizzano il sacrificio cristologico perché ne espongono la menzogna originaria – ovvero l’inutilità dell’uccisione di un innocente. La morte di Cristo, che «muore non in un sacrificio, ma contro tutti i sacrifici», implica l’interruzione definitiva della violenza ciclicamente invocata per porre fine a quelle escalation che Girard chiama «crisi sacrificali» (il riferimento è al saggio Des choses cachées depuis la fondation du monde del filosofo francese, citato da Baldasso). Malaparte tuttavia, e questo è il punto di diversione fondamentale rispetto alle tesi di Girard, «nel sacrificio di Cristo non riconosce la parola di Dio, non riconosce nessuna redenzione» (p. 96). «La rivelazione della violenza originaria», prosegue Baldasso, «attraverso il ‹Cristo proibito› che rimanda al ‹sangue degli innocenti›», non conduce «a nessuna salvazione collettiva ma a una radicale concezione tragica della storia, in cui sia la figura di Cristo – che non viene mai chiamato Gesù – che il meccanismo stesso del sacrificio sono esposti nella loro nudità, nella loro laica crudeltà» (ibidem). Piuttosto che figura redentrice, allora, la figura cristologica diviene espressione ultima e radicale della totale, e scandalosa, inutilità di ogni sofferenza a cui è abbandonata la vita di ogni creatura.

Il «labirinto» dell’opera malapartiana – per tornare a servirsi della metafora proposta da Vigorelli – finirà per suscitare nuove sorprese e nuove acquisizioni interpretative utili ad illuminare la parabola opaca d’una delle grandi figures interdites del Novecento italiano. Molti sono i nodi irrisolti, le zone d’ombra e le complessità dello scrittore Malaparte che attendono ancora un adeguato lumeggiamento critico, improrogabile per sottrarre uno dei grandi (e più scomodi) interpreti della letteratura italiana del XX secolo dalle tenebre a cui, ripetutamente e «a più mani» (Vigorelli), Malaparte è stato per lungo tempo relegato. Nell’aver proposto una mappatura rigorosamente informata della «crudeltà» della letteratura di questo autore, corroborata da una disamina non superficiale delle opere e dei testi, Curzio Malaparte, la letteratura crudele di Franco Baldasso si propone così come punto di riferimento improrogabile per uno studio criticamente aggiornato dell’opera malapartiana.

  1. La locuzione trae naturalmente spunto dalle Avventure di un capitano di sventura, pubblicate da un quasi trentenne Malaparte per le edizioni de «La Voce» nel 1927 e accompagnate da alcune xilografie di Leo Longanesi.
  2. Curzio Malaparte, Opere scelte, a cura di Luigi Martellini e con un saggio di Giancarlo Vigorelli, Milano, Mondadori, 1997, xx.
  3. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 112.
  4. «Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso ‹per conto di terzi›»: le parole sono quelle di Primo Levi, I sommersi e i salvati, ora in Opere, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, p. 1055.
  5. L'espressione deriva da una saggio di Geoffrey Hartmann, Scars of the Spirit: The Struggle Against Inauthenticity, New York, Palgrave Macmillan, 2002. Il concetto di «lacuna» della testimonianza è invece agambiano, cfr. Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 9.
  6. L’endiadi terminologica fa riferimento a una riflessione proposta da Daniele Del Giudice nella sua «Introduzione» alle Opere di Levi, cit., p. xviii-xix.
  7. Curzio Malaparte, Opere scelte, op. cit., p. 965.
  8. Cfr. Curzio Malaparte, Kaputt, in Opere scelte, op. cit., p. 537: «In nessuna parte d’Europa il tedesco m’era mai apparso così nudo, così scoperto, come in Polonia. Nel corso della mia lunga esperienza di guerra, m’ero venuto persuadendo che il tedesco non ha alcuna paura dell’uomo forte che lo affronta con coraggio, e gli tien testa. Il tedesco ha paura degli inermi, dei deboli, dei malati».
  9. Adriana Cavarero: Orrorismo ovvero della violenza sull'inerme, Milano: Feltrinelli 2007.