Gli ebrei di Taormina dalle origini al XV secolo

· Lisa Bachis ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-DA56-3

La presenza di ebrei in Sicilia è stata documentata, da parte degli storiografi e degli eruditi, già a partire dal periodo della Roma repubblicana. Cicerone scrive di ebrei presenti in Sicilia, e Filone alessandrino sostiene che molti ebrei si trasferirono nelle isole del Mediterraneo, a seguito dell’espandersi dell’impero romano e con l’aumento del numero delle sue province. Tale fenomeno si registrò, in particolare, quando Gerusalemme cadde in mano a Roma, alla fine degli anni Cinquanta prima di Cristo; in questo periodo, ci fu un forte flusso migratorio di ebrei all’interno dell’area del bacino del Mediterraneo. Inoltre, lo storico Giovanni Di Giovanni, nel XVIII secolo, riporta la notizia di un nuovo incremento del numero di ebrei nelle province romane avvenuto in seguito alla distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d. C. I primi secoli del Cristianesimo videro, quindi, un ulteriore accrescimento della presenza di ebrei in Sicilia. Molti di questi giunsero nelle città costiere sulle navi da carico romane, in condizioni di prigionia, impiegati nelle attività ludiche e nei giochi circensi dei teatri siciliani di Palermo, Siracusa, Catania, Taormina, e delle altre città isolane, poste sotto il controllo della Roma imperiale. Mentre altri, una volta fatti prigionieri, andarono schiavi al servizio di padroni romani, rendendo i loro servigi alle famiglie abbienti.
Accanto a questi, però, molti altri giunsero in Sicilia in maniera autonoma, pagando il viaggio generosamente. In effetti, diversi gruppi di ebrei, dopo la distruzione del Tempio, fuggirono in Egitto e qui si stanziarono; sino a che, in un secondo momento, presa la decisione di spostarsi nuovamente, andarono in Sicilia, incoraggiati dall’uso di una lingua a essi nota. La zona costiera della Sicilia ionica, infatti, pur essendo sotto il potere romano, continuò a mantenere integre le tradizioni linguistiche del periodo greco. A Taormina, e nelle zone vicine, si parlò il greco dorico sin dopo la conquista da parte degli Arabi. E la lingua greca era già saldamente radicata nel territorio quando, intorno al IV secolo, venne dato l’avvio alla cristianizzazione della cittadina. Perciò la possibilità per gli ebrei di poter continuare a parlare la loro lingua, dato che anche in Egitto era in uso il greco, fece sì che per i nuovi venuti ci fossero maggiori opportunità d’integrazione con il resto della popolazione.

Il mattone fittile di Taormina

Alla stessa epoca, e precisamente al periodo compreso tra il IV e il V secolo d. C., risale una fonte di tipo archeologico che testimonia la presenza di giudei a Taormina. Si tratta di un mattone fittile ritrovato all’interno dell’Antiquarium del Teatro Antico della città. La storia degli ebrei di Taormina va letta tenendo presente che qui, così come in altri centri della Sicilia, il processo di cristianizzazione era già pienamente in atto, mentre la Roma imperiale si avviava al declino, frammentando ancor di più i suoi territori, già colpiti dal passaggio degli eserciti barbari. Anche la leggenda fiorita attorno a Pancrazio – Patrono della Città – il quale, giunto a Taormina, abbatté gli idoli pagani e lottò contro l’eresia degli ebrei, è una dimostrazione dell’azione di evangelizzazione condotta dalla nuova religione. San Pancrazio, uno dei primi vescovi della Sicilia, è il simbolo dell’azione del Cristianesimo nell’isola contro la popolazione dedita al paganesimo e contro gli ebrei, anch’essi presenti sul territorio e accusati di ‹deicidio›. Del resto, non è strano che città costiere, quali Palermo, Siracusa, Catania, e Taormina, contemplassero comunità ebraiche al loro interno, poiché l’eccellente posizione geografica dei siti, consentiva gli affari e favoriva gli spostamenti all’interno dei diversi centri siciliani, senza privarle della possibilità di mantenere i contatti commerciali con gli altri ebrei del mondo tardo-romano, in Egitto e in Nord Africa.
Gli ebrei residenti a Taormina, oltre alla lingua, condivisero con la popolazione del luogo altri usi, pur mantenendo peculiarità proprie della cultura ebraica. La sepoltura dei defunti fu uno di questi, con i cimiteri fuori le mura della città, simili a quelli cristiani. Sebbene non siano stati ritrovati resti archeologici di architettura funeraria ebraica nella zona, di certo, gli arredi delle tombe, si ispirarono alla tradizione religiosa ebraica. Ciò perché esisteva un’iconografia comune al bacino del Mediterraneo. Infatti, uno dei simboli maggiormente rappresentati era la Menorah, il candelabro a sette bracci che rinviava alla tradizione del Tempio, e che è stato inciso sul mattone fittile ritrovato al Teatro di Taormina. Il medesimo simbolo è raffigurato anche sulle lucerne e sulle pareti, di complessi funerari, come quelle scoperte nelle Grotte del Carciofo della Val Di Noto dall’archeologo Paolo Orsi. Il mattone, perciò, avrebbe potuto far parte di un arredo funebre, sebbene non vi siano tracce dell’antico cimitero ebraico né siano state ritrovate informazioni sull’artefice del manufatto. Il reperto è in argilla e su uno dei lati principali, riporta incisa una Menorah stilizzata – aggiunta dopo la cottura – dalla forma cruciforme, con nove bracci anziché sette. La parte inferiore di questa croce è mancante, poiché il mattone è rotto. Insieme alla raffigurazione, nella parte superiore della croce, è stata incisa un’iscrizione che si trova sul braccio più lungo. Quest’iscrizione – anch’essa aggiunta dopo la cottura del mattone – è in greco, e riporta una frase celebrativa del sacro giorno del Sabato. Pertanto, anche gli ebrei presenti a Taormina si esprimevano in greco, mentre l’ebraico e il più antico aramaico, avevano una funzione essenzialmente religiosa.

Taormina bizantina e gli ebrei

Nel 535, sotto Giustiniano, la Sicilia entrò a far parte dei territori dell’impero bizantino, che sotto Costantino aveva consentito al Cristianesimo di ricevere il sigillo di religione ufficiale. Anche la cultura e la lingua greca, in questo periodo, ricevettero nuovo e vigoroso impulso. I bizantini governarono, designando un pretore – dipendente direttamente da Costantinopoli – che si occupava dell’attività amministrativa e della gestione delle finanze. Nel IV secolo, ottenuto il consenso di Costantino, furono istituiti i primi vescovati e la curia siciliana, sotto l’influenza della Chiesa di Costantinopoli, adottò il rito greco invece che il rito latino della Chiesa di Roma. Taormina, ebbe ruolo strategico all’interno dello scacchiere isolano; tanto che, nell’ultima fase dell’Impero, ottenne il titolo di capitale della Sicilia orientale e, con la sua Chiesa, godette di notevole prestigio.
La missione evangelizzatrice del vescovo Pancrazio e dei suoi successori fu essenziale per il radicamento della nuova religione nella Città. Inoltre, la scelta del martirio come via da seguire per tener viva la fede in Cristo, unita al carisma del Santo, spinsero i discepoli a elaborare Una Vita di Pancrazio, che servì a rafforzare il suo mito e avvicinò il popolo alle nuove credenze religiose. Lo stesso Papa Gregorio Magno fu testimone del fatto che il mito di Pancrazio era già diffuso nel secolo VI. Nella Vita, si legge delle imprese condotte dal Santo contro gli adoratori persiani del fuoco e contro gli idolatri pagani; ma si apprende anche del severo giudizio, espresso contro gli ebrei. I quali poiché si opposero al Cristianesimo e lo rifiutarono come autentica e divina religione, vennero detti ‹eretici›. La Vita del Santo è perciò una fonte importante per testimoniare la presenza dei giudei a Taormina.
L’istituzione dei vescovati, rafforzato l’esercizio del potere dei rappresentanti della Chiesa siciliana sulle proprietà fondiarie, permise loro di ricoprire una doppia funzione religiosa e civile, che contemplava la risoluzione delle questioni religiose, non escludendo i problemi di natura giuridica e finanziaria; quali ad esempio: la presenza all’elezione dei magistrati locali, il controllo delle finanze e la tutela dell’ordine pubblico. Su questi latifondi, viveva un gran numero di ebrei – ebraismo rurale – e quando sorgevano problemi, che erano in conflitto sia con le regole imposte dalle autorità, sia con quelle regolatrici della vita della comunità cristiana, era necessario introdurre nuovi principi, per giustificare la loro presenza. Gli ebrei erano fondamentali all’economia fondiaria non solo per le loro produzioni ma poiché pagavano numerosi tributi. Oltre a ciò, era necessario regolamentare le questioni degli ebrei, abitanti nelle città. Di conseguenza, Papa Gregorio Magno, mediante un copioso numero di lettere inviato ai rappresentanti del potere, propose diverse soluzioni alle specifiche questioni poste dai vescovi, fornendo alle comunità ebraiche alcune garanzie, per far in modo che questi non abbandonassero i luoghi di residenza. Le epistole che il Pontefice indirizzò agli alti funzionari siciliani, tra il 591 e il 598, affrontarono i problemi degli ebrei residenti nelle maggiori città isolane, e le questioni dei giudei, abitanti nelle terre boschive e in quelle a destinazione agricola.
Il Pontefice naturalmente non mancò di sottolineare come gli ebrei, in materia di fede, fossero in errore, ma egli auspicò per loro un disegno di futura conversione, in sintonia con le finalità di evangelizzazione cristiana. Essi avrebbero dovuto abbracciare la nuova fede ‹per convinzione› e non perché costretti con la forza. Tuttavia, vista la difficoltà dell’impresa, qualche incentivo era necessario: così, tutti gli ebrei disposti alla conversione, avrebbero ottenuto una riduzione dei tributi. Le agevolazioni economiche, infatti, rappresentavano una forte spinta alla conversione degli ebrei poveri, desiderosi di una vita dignitosa. Inoltre, anche quando i giudei si trovavano in una posizione giuridica a loro favorevole – in quanto minoranza eretica – essi dovevano mantenere il contegno remissivo dei colpevoli – l’atteggiamento dei postulanti – e fare appello al papa.

Il dominio arabo a Tauromenion

A seguito della conquista araba, negli ultimi anni del secolo IX, i bizantini si ritirarono quasi del tutto dall’isola; pur se restavano alcuni luoghi, non ancora caduti nelle mani dei nuovi dominatori. Taormina, fu uno degli ultimi avamposti fortificati ad opporre una strenua resistenza ma, nell’agosto 902, venne assoggettata dall’emiro aghlabita Ibrahim: il quale poiché i cittadini rifiutarono la resa, volle trucidarli e diede fuoco alla città. Si narra anche che il conquistatore, giunto innanzi a Procopio, il vescovo della città, gli avrebbe intimato d’abbandonare la fede cristiana per aver salva la sua vita e di quelli che restavano. Ma il vescovo, conscio del significato di cedere a una tale richiesta, messosi a ridere, contestò l’emiro e la sua autorità; e giunse finanche a dargli del demonio. Ibrahim, allora, accecato dall’ira, diede l’ordine di cavare il cuore a Procopio, mostrando la propria forza a chi avrebbe voluto resistergli. L’episodio sulla tragica fine del vescovo Procopio contiene un dato importante: sotto la dominazione araba, il Cristianesimo perderà il proprio statuto di religione ufficiale.
Dopo la conquista della città, Ibrahim non vi dimorò a lungo e lasciata la ricostruzione nelle mani dei sopravvissuti, proseguì il viaggio di conquista verso le coste calabre. La città godette di un periodo di relativa tranquillità, fino a che nel 962, fu sottoposta a un nuovo assedio, in cui ancora una volta, la popolazione pagò un prezzo altissimo. Nuove uccisioni e nuove deportazioni di cittadini, ridotti in schiavitù, segnarono il suo volto fino a farle perdere il suo antico nome, che fu cambiato in Moezzia. Infine, dopo che gli ultimi fuochi della resistenza si spensero a Rometta, nel 965, l’isola tutta fu sotto il domino musulmano. Taormina, tuttavia, non perse il ruolo di punto strategico per il controllo orientale dell’isola e dagli arabi ebbe anche una profonda impronta culturale e di costume; pur se, con il trascorrere del tempo, questa impronta si mescolò con gli usi e gli stili introdotti dalle successive dominazioni. I nuovi dominatori, anzi, mostrarono di possedere maggiore indulgenza rispetto agli stessi bizantini. Di frequente, le istituzioni locali vennero mantenute e sul piano religioso, le prescrizioni musulmane non pregiudicarono la sopravvivenza né dei cristiani né degli ebrei. Chiamati dagli arabi dhimmi, erano ‹i protetti dal patto› giuridico, voluto dal califfo Omar I, e avevano in comune il Libro, la Bibbia.
Gli obblighi, che vincolavano ebrei e cristiani, erano per lo più di natura fiscale. I dhimmi pagavano tasse più alte rispetto ai musulmani, e tra queste vi era la jizya, o gesia, che permetteva al non musulmano di godere dell’incolumità fisica, sia individuale che collettiva. L’imposta gravava particolarmente sulle classi agiate, ma subì una diminuzione con l’aumento dei prezzi e della soglia reddituale. Oltre alla jizya, i dhimmi, erano tenuti a pagare altre tasse come l’ushr, l’imposta doganale sulle navi che commerciavano con l’isola. Nonostante ciò, gli arabi ebbero il merito d’aver applicato una lungimirante politica economica, che permise il rifiorire delle attività produttive e commerciali. Uno degli elementi di questa politica, fu l’eliminazione dell’imposta sugli animali da tiro, d’ostacolo all’incremento dell’agricoltura e l’introduzione dell’imposta sulla terra, che obbligava i dhimmi a non lasciare i terreni improduttivi. Si può dunque supporre che anche i dhimmi di Taormina seguirono queste norme. Inoltre, data la presenza di ebrei in città, e visti i legami con il mondo africano del Nord, è plausibile che i rapporti economici, commerciali e culturali con i musulmani fossero costanti. Anche perché essi avevano il vantaggio, rispetto ai cristiani, di conoscere l’arabo. La città, del resto, era vicina alla costa e collegata anche alle zone atte all’agricoltura e alla pastorizia. La sua posizione incentivava gli spostamenti degli ebrei, via mare e via terra, mettendoli in contatto con comunità più numerose come quelle di Messina, Catania, Siracusa e con centri minori, come Savoca. Una volta giunti ai porti delle grandi città, i mercanti ebrei taorminesi avrebbero gestito i loro affari con il resto del mondo commerciale, fra cui si trovava il fiorente mercato nordafricano.
In effetti, parte della popolazione di Taormina venne risparmiata dagli arabi, proprio per lasciare a questi la possibilità d’attuare la ripresa economica; e gli ebrei ebbero il loro spazio all’interno di questa ripresa. Essi possedevano competenze tecniche e artigianali, praticate dagli arabi ma ignote alla popolazione cristiana; si pensi ai metodi di irrigazione e di coltura che i musulmani introdussero nell’isola. Questi immisero tecniche idrauliche persiane per la coltivazione dei giardini, trasformando molte zone non degnamente sfruttate, in un magnifico territorio agricolo. Con l’uso delle gebbie – vasche per la raccolta dell’acqua piovana, poste all’interno delle proprietà agricole – e con il sistema delle saie – canali di irrigazione che ancora oggi si trovano in alcuni dei terreni siciliani – la Piana di Tauromenion venne coltivata a limoni e aranci amari. Gli arabi introdussero i semi di cotone e la canna da zucchero; i gelsi e i bachi da seta, insieme al sommaco per conciare e tingere. In altre zone della Sicilia, si coltivò la palma da dattero, il pistacchio, il papiro e il melone. E poiché le terre di Taormina avevano campi coltivati a grano, è probabile che anche qui, fosse posta a semina una nuova varietà di frumento. Gli ebrei, che lavoravano facilmente il cotone, la seta e il lino, crearono una solida industria: quella tessile. Il trattamento delle fibre, la loro colorazione e infine l’arte del ricamo che gli ebrei praticavano da lungo tempo, attecchirono anche a Taormina, nelle sue terre e nelle viciniori. Nel corso dei secoli, si fecero sempre più stretti i rapporti tra Taormina e Messina per la lavorazione della seta, visto pure il ruolo centrale che la comunità ebraica messinese ricopriva nell’arte della lavorazione di tessuti pregiati. Gli ebrei si affermarono nella produzione e nella lavorazione del latte e del formaggio, che insieme a quella del vino e dell’olio, costituivano una buona fetta dell’economia delle varie comunità. Infatti nelle zone limitrofe alla città erano allevate capre e pecore e sin dai tempi dei romani, qui veniva coltivata una vite, detta Euganea, che offriva un vino eccellente, scomparso attorno alla seconda metà del XIX secolo. Anche le piante d’ulivo, rigogliose per il clima favorevole, permettevano agli ebrei di estrarre un olio di qualità, usato per fini liturgici e presente nella loro dieta alimentare. Tra le altre coltivazioni e attività introdotte dagli arabi e portate avanti dagli ebrei, vi erano anche la coltivazione e la lavorazione della pala di fico d’India usata per ottenere fibre, utilizzate per costruire ceste; senza dimenticare l’arte della lavorazione del legno. Il dhimmi, comunque, oltre agli obblighi di tipo fiscale, era tenuto a sottostare ad altri oneri, che rimarcavano la differenza di status con i musulmani. Ad esempio, il musulmano poteva contrarre matrimonio con una donna dhimmi libera, ma non viceversa; e nel caso d’infrazione della norma, era prevista anche la pena di morte. Il dhimmi ebreo o cristiano non poteva avere schiavi musulmani, mentre il musulmano possedeva schiavitù dhimmi, e se qualche ebreo contravveniva alla regola, la giustizia araba chiudeva un occhio. Tuttavia gli ebrei godevano di grande libertà nell’esercizio delle loro attività artigianali e delle loro professioni; e non erano costretti a vivere in determinati luoghi. Ciascuna comunità aveva ampia autonomia e i dhimmi ebrei si trovavano in una zona intermedia, tra musulmani e dhimmi cristiani, in quanto giudicati dagli arabi più simili per cultura e pensiero.

Lo statuto degli ebrei dopo la fine del dominio arabo

Nel 1078, Ruggero il Normanno piegò l’araba Taormina. I saraceni, così, vennero sconfitti e fatti prigionieri dopo aver opposto una strenua resistenza ed esser rimasti a corto di viveri. La società siciliana, frattanto, si avviava verso la piena cristianizzazione; e con il veto alle pretese degli scismatici bizantini, la chiesa romana accresceva il proprio prestigio. Aumentava il divario tra la popolazione a maggioranza cristiana e le altre minoranze (in prevalenza musulmani e giudei). I normanni non abolirono le forme politiche e sociali precedenti, ma le assimilarono rendendole più confacenti al proprio mondo. Questa fusione comprese sia gli aspetti economici, sia quelli artistici e culturali; e portò all’introduzione del sistema feudale nell’isola.
Taormina, fu privata della propria sede vescovile e venne aggregata alla diocesi di Troina, centro urbano amato dal conte. La città si contrasse in una soluzione urbanistica di tipo medievale. La sua antica cattedrale – la chiesa di S. Francesco di Paola, luogo in cui avvenne l’eccidio del vescovo Procopio per mano dei Saraceni – perse via via d’importanza, mentre si provvide a costruire una nuova chiesa all’interno del nucleo cittadino: S. Nicola di Bari, comunemente detta il ‹Duomo›. Le varie attività sociali ed economiche iniziarono a svolgersi nella piazza antistante la cattedrale.
Nel rapporto con le minoranze, i nuovi conquistatori conservarono talune delle tassazioni introdotte dagli arabi e tra queste rimase la gesia: una buona fonte economica che venne richiesta solo agli ebrei. Vi furono trasformazioni anche nella sfera commerciale delle varie comunità ebraiche. Con le Crociate, infatti, le tradizionali vie commerciali del Mediterraneo furono battute soprattutto dai conquistatori cristiani e il commercio iniziò ad acquisire carattere locale e isolano. Nel Medioevo tardo, alle rotte commerciali verso le coste africane e verso il bacino del Mediterraneo vennero preferite le vie interne siciliane, consolidando notevolmente i legami tra le varie comunità ebraiche. Nei centri minori, si fondarono nuove Giudecche, con alterni flussi migratori dalle città più grandi – destinate all’incremento demografico – verso quelle più piccole.
Gli ebrei, nonostante l’arrivo dei nuovi dominatori, riuscirono a tenere posizioni rilevanti nel tessuto economico isolano, in quanto eredi diretti degli arabi. Essi avevano padronanza nell’uso della lingua araba come lingua commerciale, erano i depositari della pratica di un certo tipo di artigianato tessile, quale quello della seta e del ricamo, sapevano coltivare orti e giardini secondo lo stile arabo. Gli ebrei, dunque, sostituirono gli arabi e vennero considerati Servi della Regia Camera: ossia proprietà dei vari regnanti secondo lo schema feudale. I re normanni ‹usavano› gli ebrei e sfruttavano gli utili che da essi ricavavano; in più, avevano facoltà di assegnare una determinata comunità ebraica ad un ‹signore› da loro designato. Spesso era un vescovo locale sulle cui terre la comunità risiedeva. Gli ebrei andavano al feudatario, al pari di tutti gli altri possedimenti reali, e questi esercitava il diritto alla riscossione dei tributi sulle attività e su alcuni prodotti. Fatto salvo per la proprietà delle terre, degli ebrei e di alcuni minerali, che era sempre e solo del re. Questo speciale statuto degli ebrei, ricevette nuove caratterizzazioni sotto il regno di Federico II. Egli seguì la volontà papale per ciò che riguardava i doveri degli ebrei e dopo il Quarto Concilio Laterano del 1215, presieduto da Papa Innocenzo III, dove fu sancito che gli ebrei dovevano indossare un abbigliamento particolare per ‹distinguerli› dai cristiani, nel 1221, promulgò una legge, in cui si comandava agli ebrei e alle prostitute, di indossare abiti distintivi in pubblico, in modo da consentire il loro riconoscimento. Agli ebrei fu posto anche il divieto di tagliare la barba.
Federico II adottò le medesime regole della Chiesa, per ribadire la propria autorità sugli ebrei, e non lasciare un vuoto giuridico che consentisse al Pontefice di esercitare indebite ingerenze nel suo regno. Gli ebrei, obbligati a non poter ricoprire cariche pubbliche, avevano facoltà di seguire i propri affari, che garantivano enormi benefici anche per le casse reali. Inoltre, il controllo diretto sulle attività ebraiche, dava all’imperatore ampio margine di controllo sul potere dei vescovi locali. Poiché Servi della Regia Camera, gli ebrei erano Instrumentum Regni, cosicché anche la professione esercitata non apparteneva loro, ma al re. Del resto, in quanto ‹bene reale›, essi venivano autorizzati a entrare nel palazzo reale per intrattenere la corte con nozioni di astronomia, filosofia e medicina.
Anche la città di Taormina, inclusa tra i centri del Vallo di Demone –, classificazione introdotta dagli Arabi e mantenuta dai Normanni – fece parte del demanio reale, nel senso che fu Città regia con privilegi e prerogative concessi direttamente dal re. Essa godeva di un vasto territorio, venerava il santo patrono, Pancrazio di Antiochia, e possedeva il castello per ospitare il Capitano del Re e il palazzo di città. Infine, poiché era città demaniale, si fregiava di un titolo che il monarca le assegnava per meriti speciali: Taormina era Notabilis, poteva pertanto esser designata per ospitare il Parlamento, come accadde per quello convocato dalla regina Bianca di Navarra nel 1410.

La comunità ebraica di Taormina nel XV secolo

A seguito della Guerra del Vespro, con la disfatta degli Angioini, la Sicilia cadde sotto l’influenza aragonese e le differenze tra ebrei e cristiani andarono maggiormente dilatandosi. L’introduzione di un corpus giuridico dei diritti degli ebrei siciliani, trovò massima realizzazione con l’emanazione dei Capitula di Alfonso d’Aragona, detto ‹il Magnanimo›, in vigore sino all’espulsione del 1492. Tali leggi ruotavano attorno al principio, secondo cui gli ebrei in quanto Servi della Regia Camera, erano soggetti alla giurisdizione del re. Principio questo, introdotto dai sovrani normanni e mantenuto nei secoli successivi. Nella legislazione alfonsina, infatti, rimase inalterato il concetto per cui gli ebrei e i loro beni appartenevano al sovrano e tutto ciò che coinvolgeva le loro comunità, era di esclusiva pertinenza della regia maestà. I giudei delle singole località erano soggetti agli ufficiali di governo, detti Segreti: questi potevano trattare cause che non prevedevano né la pena di morte né la mutilazione degli arti e avevano facoltà di comminare pene pecuniarie, non superiori alle quattro once. Per le questioni eccedenti questi limiti, il magistrato designato era invece, il Magister Secretus del Regno, residente nella città di Palermo. Nei Capitula era altresì previsto che gli ebrei non dovessero essere costretti a seguire le festività cristiane, ed essere lasciati liberi di professare la loro religione pubblicamente. Essi erano liberi di esercitare le professioni e le arti, tranne che per l’obbligo d’astenersi dal lavoro durante la celebrazione delle messe, e nei periodi santificati. In tal caso, dovevano svolgere le loro occupazioni con discrezione – mantenendo le porte chiuse e le finestre aperte a metà – per non recare disturbo ai fedeli cristiani. I giudei dovevano essere lasciati liberi di risiedere nelle loro case e godevano del diritto di spostarsi da un luogo all’altro per svolgere i loro affari e le loro attività, fra cui il commercio e l’arte della medicina. Gli ebrei del Regno potevano esser proprietari di beni mobili e immobili e, su questi, potevano esercitare il diritto di compravendita, avendo facoltà di possedere schiavi, purché di religione non cristiana. Alfonso lasciò gli ebrei, liberi di vestire more judaico, per cui essi avevano facoltà d’indossare i costumi, i segni e gli ornamenti della tradizione. Inoltre, venne accantonato l’obbligo di portare la rotella rossa sugli abiti. L’intendimento del sovrano era quello di favorire l’economia e lo sviluppo nelle terre del Regno poiché gli ebrei, presenti in quasi tutti i settori produttivi, erano considerati una risorsa da proteggere e tenere sotto controllo.
Sulla comunità ebraica di Taormina, in questo periodo, le fonti dimostrano che già nel 1415, durante il regno di Ferdinando I d’Aragona, questa aveva assunto notevole importanza in seno al panorama delle comunità isolane. Si trattava di una delle 52 comunità presenti in Sicilia e al momento dell’espulsione del 1492, al suo interno erano presenti 37 fuochi (famiglie) composti da cinque o sei persone per nucleo abitativo, per un totale di 222 anime; la presenza ebraica era dunque attestabile al 4%. Ancora oggi, tra le strade, è presente un Vico Degli Ebrei, una Traversa Degli Ebrei e una Via Del Ghetto; inoltre, alcune stelle ebraiche, sono visibili sulla facciata di Palazzo dei Giurati, sede del Municipio di Taormina.

Via del Ghetto (priv.)
Via del Ghetto (priv.)

Palazzo Duchi di santo Stefano, Taormina, zona della Giudecca (priv.)
Palazzo Duchi di santo Stefano, Taormina, zona della Giudecca (priv.)
Traversa degli Ebrei (priv.)
Traversa degli Ebrei (priv.)
Vico Ebrei (priv.)
Vico Ebrei (priv.)
Particolare di Stella ebraica su muro del Municipio di Taormina detto anche Palazzo Dei Giurati (priv.)
Particolare di Stella ebraica su muro del Municipio di Taormina detto anche Palazzo Dei Giurati (priv.)

La giudecca, infatti, era infatti localizzata nella zona ad Ovest della cattedrale, confinante con Piazza Duomo, il Corso Umberto I e l’antica Piazza del Tocco, alle spalle del Palazzo dei Duchi di S. Stefano. Naturalmente è plausibile che i confini del quartiere ebraico si estendessero ben oltre Via Damiano Rosso, poiché la Giudecca di Taormina era posta nella zona tra Porta Catania e Piazza Duomo, all’interno del borgo cittadino. Il quartiere quindi si trovava a essere concentrato vicino alle mura e alle vie d’uscita cittadine, dove sono ancora presenti diverse fonti d’acqua. La Giudecca era espressione della Aliama: la comunità etnica e religiosa. All’interno della comunità, l’ebreo realizzava la propria identità e appartenenza al gruppo. La Giudecca aveva i propri amministratori, che si occupavano del bilancio della comunità, della riscossione delle imposte; e lo svolgimento dell’attività giudiziaria avveniva per il tramite di giudici ebrei. Nella comunità erano garantiti servizi essenziali, quali la scuola, l’ospedale, il cimitero, il macello e l’assistenza ai poveri; oltre naturalmente, al culto religioso. Gli amministratori della Giudecca, i Proti, ne costituivano l’esecutivo, con un ruolo simile a quello svolto dai Giurati nella comunità cristiana. Si riunivano in Consiglio, erano eletti annualmente in numero massimo di 12, con delega affidata a tre Proti per volta, che a turno durante il loro mandato gestivano l’amministrazione della comunità. Ma ciascuna Giudecca, in piena autonomia, adattava alle proprie esigenze amministrative il numero dei suoi amministratori interni, per cui ad esempio il numero dei Proti taorminesi era di 6, vista anche la consistenza medio-bassa della comunità ebraica locale. Ciò che concerneva gli aspetti fiscali e tributari, sia nella realtà ebraica che in quella cristiana, era soggetto all’autorità dei Giurati cittadini, in veste di rappresentanti del re. La Miskita – termine di derivazione araba per indicare la Sinagoga – era il fulcro della vita comunitaria e il luogo dove si riuniva il Consiglio. I Proti venivano eletti nella sinagoga ed era necessario essere autorizzati per spostare la sede del Consiglio. Nella casa di preghiera, innanzi all’assemblea, erano ricevuti gli ufficiali regi e venivano lette le ordinanze dei poteri pubblici. Sempre all’interno della sinagoga, si risolvevano le discordie familiari e i problemi dei membri della comunità. Nei centri più piccoli, la sinagoga si confondeva con le abitazioni circostanti. Essa aveva una facciata semplice con poche aperture, l’entrata posta su un lato secondario per non dar troppo nell’occhio. Poteva essere dotata di una serie di costruzioni annesse: come il bagno rituale, la scuola (quando questa non era ospitata al suo interno), il fondaco per accogliere i viaggiatori ebrei e la camera mortuaria. Nei centri più grandi, era prevista anche la presenza dell’ospedale. Lontano e in zona decentrata, erano siti il cimitero e il macello. Relativamente alla comunità di Taormina, le fonti in nostro possesso e l’assenza di resti archeologici del sito, non consentono di dar per certa l’esistenza di tutti gli edifici che sono soliti sorgere nel quartiere ebraico, anche se a parte il macello (che poteva trovarsi in una comunità vicina) e l’ospedale, è assai probabile che questa, vista l’importanza di cui godeva, avesse i servizi fondamentali per il corretto svolgimento del quotidiano. Del resto, è attestato in diversi documenti che la comunità aveva sia la sinagoga che il cimitero. Certamente, per un insediamento ebraico degno di tal nome, era davvero irrinunciabile avere la conferma di poter possedere una sinagoga e un cimitero per la sepoltura dei morti. La fondazione stessa della comunità era valida, solo se entrambi questi luoghi erano individuabili; ma lo stesso può dirsi anche della comunità cristiana, dove la chiesa e il cimitero sono essenziali per la sua reale esistenza. La presenza della sinagoga di Taormina, viene testimoniata anche da un’iscrizione araba, trovata a Messina e risalente al 1450, da cui s’apprende di una donazione, in favore della sinagoga di Taormina e in favore della sinagoga di Messina, consistente in 3 cafisi (47 litri) d’olio, da parte di una certa Azaria de Minisci. Ancora il Di Giovanni scrive che la sinagoga di Taormina si trovava nei pressi del convento di S. Domenico (oggi hotel di lusso), non lontano da piazza Duomo, fuori dalle antiche mura cittadine. A supporto di ciò, esiste una tradizione orale tramandata dai cittadini, che vuole la sinagoga edificata nel luogo ove attualmente si trova il commissariato di Polizia; mentre secondo un’altra, essa era ubicata nella zona delle Piazzette Paladini e Garibaldi. Entrambi questi luoghi, si trovano nelle vicinanze dell’ex Convento di S. Domenico. Tuttavia, poiché è documentata anche la prossimità del cimitero alla sinagoga, azzardiamo l’ipotesi che essa fosse posta un poco più in alto, vicino al burrone S. Domenico, nei pressi della chiesa di S. Michele, e poco distante dall’ex Convento. Secondo le cronache del tempo, i padri domenicani si rivolsero ai loro superiori, perché distratti nello svolgimento degli uffici religiosi, proprio a causa della vicinanza alla sinagoga e al cimitero ebraici; sicché il pontefice fu costretto a intercedere per essi presso il re, affinché questi ordinasse lo spostamento sia della sinagoga, che del luogo per la sepoltura. Di questi fatti, narra, la lettera che Papa Callisto III inviò a re Alfonso ‹il Magnanimo›, il 24 Ottobre 1455. La vicenda venne risolta per mezzo di un Diploma emanato dal re, il 31 Dicembre 1456, e sia la sinagoga che il cimitero ebraico furono spostati. La comunità perciò dovette trovare un nuovo luogo nelle vicinanze della giudecca e in prossimità di una porta d’accesso, per trovar soluzione agli eventuali problemi di ordine pratico e di sicurezza che avrebbero potuto compromettere il corretto svolgersi dei riti. Infatti, il luogo di preghiera, così come quello di sepoltura, doveva essere agevolmente raggiungibile attraverso porte d’uscita secondarie, in modo da poter raggiungere il cimitero in maniera discreta. Tale precauzione si rendeva necessaria poiché erano in aumento gli atti di intolleranza nei confronti dei riti e delle pratiche religiose ebraiche; e di frequente, i cristiani più intolleranti prendevano di mira proprio i cortei funebri. Inoltre, lo Zimbicteri, il cimitero ebraico, pur se nelle vicinanze dell’edificio sinagogale, doveva rispettare i limiti imposti dalla legge e distare 58 metri dalla cinta muraria cittadina. Eppure, la vicinanza ai quartieri cristiani e agli edifici religiosi quali il Duomo, la chiesa di origine normanna dedicata al culto di S. Michele e persino il convento di S. Domenico, indicano la tendenza della comunità ebraica a volersi raggruppare «in un quartiere», senza però privarsi dei rapporti con la comunità cristiana. Non si dimentichi infatti che giudei e cristiani erano fieramente legati al loro ‹esser siciliani›. Per ciò che invece concerne il rito ebraico in tutte le sue varie manifestazioni, esso si fondava su norme religiose che ne formavano l’ossatura etica, e avevano anche valore di norme igieniche: come era per il bagno rituale, struttura prevista in ogni comunità e che comprendeva sia le giudecche più grandi sia quelle di minore importanza. Il bagno rituale doveva essere ubicato nei pressi di una sorgente, affinché lo scorrimento continuo dell’acqua garantisse una corretta pratica igienica, perciò anche il quartiere ebraico di Taormina si trovava in prossimità di diverse fonti d’acqua. Riguardo poi all’esistenza del luogo preposto alla macellazione delle carni secondo il costume giudaico, non si hanno notizie; tuttavia, il macello poteva essere in una località vicina oppure posto anch’esso, fuori le mura della città.
Dagli studi sin qui condotti, sull’organizzazione e sulla struttura della comunità ebraica di Taormina, si è registrato che nella zona del Val Demone, tra le attività professionali di alto livello svolte dai giudei, erano annoverate le arti mediche, quelle degli speziali e il commercio. Vista la centralità e il facile accesso alle vie di collegamento di cui godeva la Città demaniale assieme alle sue terre, ciò non stupisce. Il medico e lo speziale – quest’ultimo può essere considerato l’antenato del farmacista – erano professioni d’eccellenza, che consentivano di godere di un buon prestigio sociale. I medici ebrei avevano grande fama, in quanto interpreti diretti della medicina greca e araba; sicché anche i cristiani più facoltosi si affidavano alle loro cure. Come già trattato in precedenza, gli ebrei di Taormina, che svolgevano attività agricole e di vendita dei prodotti lavorati, conoscevano l’eccellenza delle vigne del posto – vi si produceva un buon vino, apprezzato sin dall’epoca romana ed elogiato dallo stesso Cicerone – ed erano abili nella lavorazione delle olive e nell’ottenimento dell’olio, che insieme al consumo di carni – montone e manzo ma anche agnello e pollame – rientrava, per l’appunto, nella loro dieta alimentare insieme al consumo di formaggio. Vi era pure l’abitudine di fare il pane in casa per poi rivenderlo; tale pratica era assai diffusa nella zona. Le donne, che giungevano dalle campagne vicine per vendere il pane, lo consegnavano a domicilio mentre, più anticamente, la vendita avveniva nelle piazze del paese. Altro esempio di attività svolta dai giudei, era la lavorazione del corallo. Spesso, gli artigiani ebrei venivano impiegati presso le botteghe cristiane per fornire la propria abilità tecnica. Orbene, se si considera che a Taormina la lavorazione del corallo unita all’arte orafa era una tecnica artigianale molto antica, allora si potrà supporre, che essa sia stata, in parte, ereditata dalla comunità ebraica. Ma le medesime argomentazioni valgono per le altre tecniche artigianali (oggi del tutto scomparse) quali la tintura delle stoffe e la tessitura della seta. Sono note, infatti, le vette raggiunte in questo settore dagli ebrei messinesi, ma lo stesso si può dire degli ebrei delle terre di Taormina. Vi erano contadini-allevatori di bachi da seta ed è plausibile che gli artigiani ebrei, acquistata la seta grezza da questi, si occupassero della lavorazione del materiale, servendosi di tecniche particolari, allo scopo di ottenere filati e tessuti di gran pregio. Infine, fra i vari mestieri della Taormina medievale ebraica, continuava a esser praticata la lavorazione del ferro, del cuoio e delle pelli; così come era in uso la lavorazione e l’intaglio del legno, che vedeva impegnati diversi maestri ebanisti. Un significativo contributo, a supporto della nostra indagine, ci è stato offerto dall’analisi di un campione di cognomi di origine ebraica, in cui si sono ritrovati anche dei Ferrari e degli Orefice.

La comunità ebraica di Taormina e gli episodi d’intolleranza

Durante tutto il secolo XV, gli atti d’intolleranza nei confronti dei giudei andarono intensificandosi – si ricordi tra tutti, l’eccidio del 1474 nella contea di Modica – e con l’avvicinarsi della fine del secolo, la società cristiana considerò gli ebrei una minoranza da tenere sotto il controllo delle autorità dato che il loro credo, ritenuto errato e blasfemo, avrebbe potuto nuocere all’integrità della stessa. Nella settimana di Pasqua del 1455, diversi mesi prima della segnalazione da parte dei padri domenicani, riguardo al fastidio arrecato dai riti che si svolgevano nella vicina sinagoga, i cittadini di Taormina scagliatisi contro gli ebrei – ritenuti responsabili della crocifissione di Gesù – penetrarono nella Giudecca con tanto di spade, danneggiando la sinagoga e diverse abitazioni, che furono per giunta saccheggiate, con il manifesto intento di mandare in rovina l’intera comunità. I giudei allora denunciarono il gravissimo episodio all’Arcivescovo di Palermo Simone Bologna, in qualità di Presidente del regno. L’alto prelato per ristabilire l’ordine, provvide ad inviare a Taormina, il commissario Sanzio Marrella affinché in accordo con il Capitano di città procedesse all’individuazione dei responsabili e al loro immediato giudizio. Ma l’episodio succitato, avrebbe potuto benissimo essere evitato, poiché durante le festività cristiane per gli ebrei era in vigore un provvedimento, che avrebbe dovuto proteggerli dagli attacchi dei facinorosi. Però accadeva che gli ufficiali e i giurati preposti alla tutela dei diritti degli ebrei, abusassero del loro potere per vessare le comunità con la richiesta di esose tassazioni. Sempre a Taormina nel 1478 e nel 1480, l’autorità vice regia dovette intervenire a seguito di una denuncia della comunità ebraica contro gli amministratori cittadini. La pretesa di ingenti somme di denaro per la difesa degli ebrei, tuttavia riceveva supporto da una legge che prevedeva, per l’appunto, nei periodi più critici, come ad esempio nei giorni della settimana santa, la tutela da parte delle forze di polizia a patto che le spese per la protezione fossero sostenute dalle comunità. Gli ufficiali, una volta accertato di aver ricevuto l’incarico, facevano sì di svolgerlo in modo superficiale, per piegare i giudei al ricatto. Sempre a Taormina, nel marzo 1485, la comunità ebraica denunziò la malversazione da parte di un ufficiale che si era rifiutato di svolgere l’incarico ricevuto, pretendendo una somma superiore a quella concordata. C’è da dire anche che, secondo le norme all’epoca vigenti, i giudei erano obbligati a star chiusi in casa, con le porte serrate e le finestre socchiuse. In particolare, nei giorni del giovedì, del venerdì e del sabato della Pasqua cristiana, essi non potevano svolgere attività di lavoro all’esterno delle loro dimore. Tuttavia, nonostante le autorità provassero a far rispettare l’ordine pubblico, ciò non impediva ai cristiani di entrare nei quartieri ebraici e lanciare sassi contro le case, colpendo porte, finestre, tetti, e persino chi vi abitava. La pratica denominata sassaiola santa era in uso anche in Umbria. Questi atti oltraggiosi, indirizzati alle comunità ebraiche, trovavano la loro legittimazione anche nell’incremento della predicazione antisemitica dei frati. Molti di questi predicatori erano dei frati itineranti che, spostandosi di continuo, fomentavano l’odio e il disprezzo contro i giudei. Lo stesso re, Alfonso ‹il Magnanimo›, preoccupato dagli esiti nefasti creati dal dilagante fenomeno della predicazione fratesca, decise di emanare un privilegio in favore degli ebrei di Sicilia, datato agosto 1453, in cui autorizzava le autorità ecclesiastiche e quelle secolari a intervenire in maniera risoluta contro la predicazione dei frati diretta contro gli ebrei. Una denuncia particolare venne fatta di nuovo dalla comunità ebraica taorminese, nel novembre 1487. Ma stavolta, l’accusa era rivolta contro il castellano della città. Le fonti riportano la notizia che questi aveva obbligato gli ebrei all’umile servizio di scopatura della fortezza. Ma tale servizio era obbligatorio, solo se a richiederlo era il re in persona; poiché il castello e gli ebrei erano suoi beni. Dunque, se il sovrano non era presente, allora per gli ebrei, il vincolo non sussisteva.
Trascorsi altri cinque anni, il 31 marzo 1492, a Granada, veniva firmato l’editto di espulsione che costringeva tutti gli ebrei dei regni spagnoli ad abbandonare le loro case e la loro terra. Negli atti emanati dalla corte vice regia, era spesso citata anche la comunità ebraica di Taormina che, così come le sue consorelle, si sottopose all’ordine di espulsione. Il processo di unificazione del regno spagnolo posto in atto, protetto dal principio per cui ubi unus rex, ibi una religio, aveva gettato le basi per la formazione dello stato moderno.

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