Indietro, tra le rovine del sogno ‹rivoluzione›.
Brani di storia e di storie del 900 riletti da Davide Orecchio

• Patrizia Farinelli •1


PID: https://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-EAA7-5

Voglia di storia

Nell’ultimo ventennio la narrativa si è votata in gran parte alla storia e lo ha fatto caricandosi non di rado di una finalità informativa. Non che nel periodo precedente, ampiamente segnato dall’estetica postmodernista, fossero carenti narrazioni incentrate su eventi storici, ma in quella fase, più che raccontare pezzi di storia, si sentiva soprattutto l’urgenza d’interrogarne l’affidabilità delle interpretazioni. Ciò accadeva in sintonia con gli orientamenti di studiosi come Hayden White e Frank Ankersmit pronti a riconoscere nella storiografia una parente della letteratura per il lavoro, comune ad entrambe, di costruzione del discorso ovvero di selezione, ordinamento e collegamento dei materiali in base a logiche narrative, le sole capaci d’impartire un senso ai fatti.2

Come segnale del cambiamento di prospettiva avvenuto alle soglie del ventunesimo secolo si potrebbe ricordare, per il contesto peninsulare, la proposta lanciata dalla New Italian Epic in difesa di una narrativa carica d’impegno civile e di volontà documentaria di contro a scritture postmoderniste tacciate di orientamento ludico ed eccessiva autoreferenzialità.3 Che rispondere a tali esigenze incidesse sulle forme del narrare era evidente: orientarsi a una finalità preminentemente informativa poteva comportare, e talvolta ha comportato, un soffocarsi dell’immaginazione, un minore distanziamento prospettico (anche per un minore uso dell’ironia) nonché un contrarsi del potenziale plurisemantico che è valore basilare del linguaggio letterario. Alcune interessanti proposte narrative sono venute semmai proprio da chi, evitando una polemica poco fruttuosa verso il postmodernismo, ne ha elaborato l’esperienza per fare oggetto del proprio discorso eventi storici e biografici senza minare l’elemento inventivo. È questo il caso di Davide Orecchio, «uno dei più arditi scrittori italiani contemporanei»4 e storico di formazione, il quale propone, con Mio padre, la rivoluzione. Storie.5 una riflessione sugli eventi rivoluzionari del 19176 attraverso un lavoro di ampio spessore semantico in cui «storia e letteratura s’incontrano».7 Qui ci interessa rilevare in che modo quell’incontro si realizzi, ma intanto andrà subito rilevato che un tale approccio, per quanto originale nelle modalità in cui si realizza, non risponde solo a una tendenza contemporanea di scrittura ibrida: esso ha infatti alle spalle una tradizione piuttosto solida, rappresentata in Italia da una linea di lavori risalente a Manzoni, dove l’invenzione interagisce mirabilmente con il documento storico portando a integrazioni illuminanti e capaci di porre questioni di senso e sollecitare riflessioni critiche.

Le parti e lʼinsieme

Il curioso titolo prescelto per il volume pare alludere in primo luogo al fatto che diversi tentativi rivoluzionari occorsi dopo il 1917 avrebbero dovuto fare i conti con la madre delle rivoluzioni del ventesimo secolo, qui calata nei panni della figura paterna, rappresentante della Legge. Ma l’immagine del padre, frequentissima nel testo, sta pure per quel passato prossimo con cui spesso è difficile confrontarsi. Non da ultimo essa fa riferimento a una vicenda della biografia familiare dello scrittore, e per l’appunto all’approccio politico del padre.

Prendendo come punto di riferimento la storia del comunismo sovietico, e soprattutto la fase stalinista, e allargando le considerazioni ad altre vicende dell’ultimo secolo che a quella storia si connettono, l’autore considera in questo lavoro il nodoso rapporto tra i sogni rivoluzionari e le loro involuzioni. I pezzi che lo compongono rilevano allora, nel loro insieme, processi di trasformazione e deformazione, fenomeni di stagnazione e irrigidimento, parlano di giganti decaduti e di miti tenuti forzatamente in vita con artifici.

Lontana tanto dal saggio storico, quanto dal romanzo, l’opera si configura come una silloge di narrazioni di genere diverso («storie» le indica il sottotitolo) in cui confluiscono biografie infedeli, riletture di reportage altrui condotte tra il racconto e il commento, pezzi di fantasia formulati ora attraverso il recupero di miti classici, ora sul modello della fiaba, ora ancora guardando al genere epistolare. Al centro del testo appare inoltre una raccolta di citazioni autorevoli sul tema delle rivoluzioni e dei totalitarismi del ’900 che porta il titolo emblematico di «Cast», ed è una scelta orientata evidentemente a presentare le voci attivatevi e a sottolineare al contempo la centralità che ha la citazione in questo lavoro elaborato in gran parte su materiali di riuso, su scritti di chi aveva già interrogato gli eventi del 1917 e il loro seguito. L’autore opta infatti per una scrittura mediata, di seconda mano: riprende fra l’altro diari, lettere, biografie, saggi e manuali di storia e si chiede che cosa i loro autori abbiano visto o voluto vedere in ciò che quell’anno epocale lasciò dietro di sé. Ed è un raccontare teso certamente anche a informare, ma in primo luogo a proporre materia di riflessione rilanciando al lettore delle domande scomode.

Nonostante il coraggioso accostamento di generi così disparati e una ricerca perfino esasperata di stravaganza espressiva che non ne facilita la lettura, il testo trova un’indubbia coesione nella presenza di motivi ricorrenti e di precise strategie retorico-discorsive, oltre che nelle coerenti posizioni difesevi. Per la sua struttura e per la logica che lo impronta non è fuori luogo considerarlo un esempio di macrotesto, visto che ogni pezzo si profila come una narrazione a sé stante e allo stesso tempo si chiarisce meglio, e acquista anche senso ulteriore, in relazione agli altri. L’insieme invita il lettore a ripensare, assieme alle svolte delle rivoluzioni russe del 1917, anche quelle connesse a rigurgiti rivoluzionari registratisi lungo l’arco di un secolo, quasi che gli eventi successi in quel contesto spazio-temporale fossero un termine di riferimento per considerare anche i successivi movimenti o tentati movimenti di rivolta contro forme di oppressione politica e per ideali di giustizia sociale, comprese guerre civili, lotte operarie, movimenti antiautoritari,8 battaglie per la democratizzazione e rispettive involuzioni. E però i rilievi e le domande che trapuntano tale riflessione assumono anche valenza sovra-contestuale, trascendono cioè gli episodi storici via, via affrontati mettendo in rilievo la comune parabola discendente di ogni nuovo evento rivoluzionario in senso lato.

What if? Ipotetiche riletture della storia e delle vite

Apre il volume un testo dal titolo «Una possibilità di Lev Trockij», che propone una resa infedele della vita di Trockij nei modi di quelle biografie già sperimentate da Orecchio in Città distrutte (2012) in cui s’intersecano dati testuali ed elementi d’invenzione.9 Siamo nell’ambito di proiezioni a posteriori sulla storia giocanti con l’ipotesi che determinati fatti possano essere andati anche diversamente. Per quanto muova da un approccio narrativo, una tale proposta rimanda a sperimentazioni promosse a partire dagli anni Novanta nell’ambito della storiografia. Più in particolare essa pare rimandare a quanto sostiene Isabel Burdier, studiosa di storia alle cui posizioni l’autore guarda con rispetto: il biografico, secondo Burdier, risponde a un bisogno di dare ordine e senso a una identità, e in quella operazione sono leciti anche i «‹se› retrospettivi».10

In questo caso viene assegnata al personaggio un’esistenza più lunga di quella vissuta dall’uomo Trockij al punto che lo si immagina seguire con apprensione, dalla casa di Coyoacán presso Città del Messico, i tragici eventi ungheresi del 1956. Nella restituzione di tale vita l’autore riprende strategie narrative a lui familiari, non ultima quella di calare il narratore/ biografo nell’intimità privata del biografato e di insistere sui dettagli legati alla quotidianità. Lo sguardo del suo narratore coglie l’uomo «nel suo studio col fiato grosso e stanco di uno che oggi [di anni] ne compie settantasette.»11 Informato dell’intervento militare russo a Budapest, questo Trockij, in una sorta di doloroso delirio acuminato da delusioni politiche e amarezze familiari, tenta di difendere ancora una volta la giustezza degli ideali per cui aveva lottato da giovane quasi a tamponare nella propria mente la ferita derivante dalla coscienza delle degenerazioni cui era giunto il comunismo sovietico nei decenni a seguire. L’uomo elabora la sua difesa in una lettera che non troverà conclusione per l’incepparsi continuo del discorso: in quelle righe gli eventi del 1956 si confondono con quelli del 1917 e la sua argomentazione s’ingarbuglia in uno sragionare che ha la stessa logica dei sogni (non meraviglia, allora, che nel racconto trovino ampio spazio anche i sogni notturni dove le vicende biografiche ritornano con la loro caratteristica acronia):

E il Vecchio insiste che «sono chiari i fatti recenti, com’è trasparente la storia» e non si accorge d’essersi perso e, al contrario, nell’acqua torbida di un lago che mescola storie, rivoluzioni, generazioni di esseri umani, un lago che impasta il cinquantasei – il biancospino – col diciassette – l’anno garofano –,12 che fa l’amalgama del padre e del figlio, e confonde Budapest con Pietrogrado […].13

Nella difficoltà con cui questo Trockij tenta di giustificare quanto stava accadendo in Ungheria resta espressa l’impotenza dell’ex rivoluzionario a tenere ancora alti certi valori del comunismo che successivi eventi e giochi di potere avevano nel frattempo trasfigurato. Ed è proprio in episodi simili di evidente deviazione rispetto a una restituzione fedele di documenti storici e biografici, e aperta invece all’immaginazione, che la scrittura di Orecchio accentua la possibilità di essere letta in senso antropologico ed esistenziale. A parte il fatto che il pezzo in questione permette di rilevare una volta di più l’attenta strutturazione dell’intero lavoro (al punto che pure un luogo – Città del Messico – e una forma di comunicazione – la lettera – si prestano da elemento di saldatura fra il suo inizio e la sua conclusione), merita attenzione soprattutto il modo in cui viene reso lo sconcerto e il dolore dell’uomo tradito nel progetto in cui aveva creduto. Fin da queste prime pagine è ben rilevabile che la scrittura non viene funzionalizzata a portare nuove informazioni storiche, ma a rilevare semmai come il tempo e gli eventi agiscano su una vita, spossessandola. Non a caso vi è particolarmente insistita la semantica della morte. Con riferimento all’involuzione del comunismo nell’Unione sovietica si parla allora di «rivoluzione imbalsamata», di «fossili», «mummie», «canto funebre», mentre in relazione al consumarsi di una vita viene attivata l’immagine della calcificazione:

[…] il suo corpo è petroso. Le sue idee sono sabbia, la sua scrittura è carbonio, ora Lev Davidovič non vive, sta nell’ardesia, nei sedimenti, la morte di Lev Davidovič è la caverna, laggiù nel carsismo si sbriciola Lev? Davidovič con le sue battaglie, gli esili, i comizi, Lev Davidovič entra nel magma, Lev Davidovič è morto.14

I medesimi campi semantici costituiti da immagini di calcificazione e imbalsamazione caratterizzano anche il pezzo dal titolo «Un poeta sul Volga», il terzo del volume. Ad evocare l’evoluzione in corso nella Russia sovietica sono in questo caso delle citazioni tratte, fra l’altro, dal Breve corso: Storia del Partito comunista (bolscevico) dell’U.R.S.S., manualetto di cui Orecchio escogita anche successive edizioni, rispondenti ad altrettante fasi di un progetto politico sfociato in totalitarismo. In quel bagaglio di referenze ora testuali e ora fittive, una frase, tratta dalla presunta seconda edizione del Breve corso, recita: «Nell’anno diciotto del secolo già bagnavano la rivoluzione dell’acido fenico […].»15 Il motivo della conservazione forzata di qualcosa di già morto trova elaborazione soprattutto in una minuziosa descrizione del corpo mummificato di Lenin, emblema del sostituirsi dei valori della rivoluzione con i suoi simulacri. A convogliare il discorso sulla figura di Lenin è dapprima la rievocazione del mito della caduta dei giganti e successivamente la rilettura delle annotazioni di viaggio di Gianni Rodari che nel 1969, alle soglie del centenario della nascita del leader della rivoluzione bolscevica, si recò in Russia per un servizio giornalistico. Orecchio ricostruisce le impressioni del viaggiatore, compresi i dubbi e la patina di delusione, e lo fa con l’usuale tocco di infedeltà, attingendo tanto al Rodari reporter, quanto al Rodari scrittore per bambini. Osserva tra l’altro che, se alcune note di quel viaggio rilevano «l’impertinenza della storia», altre evidenziano come l’immaginazione si prenda i suoi spazi perfino in un percorso già predisposto come fu quello, le cui tappe erano state prescelte da altri: «guide, sindaci, funzionari del partito sovietico […].»16 Entrato nel «labirinto» Lenin,17 Rodari vive un momento di disorientamento; prende atto tra l’altro che la biografia leniniana si è fatta agiografia. Dalla giungla in cui è venuto a trovarsi, il poeta potrà uscirne solo raccontando una favola – così pretende il narratore di «Un poeta sul Volga». E con sofisticata soluzione ecco allora ripresi e risemantizzati nel testo, per un finale tra il ludico e l’amaro, alcuni brani di racconti dai titoli eloquenti, come «L’omino di niente» e «La strada che non andava in nessun posto», della raccolta Favole al telefono.

Alla libera rilettura del reportage di viaggio in Russia di Rodari fa da pendant il secondo racconto del volume che ha invece per oggetto le note diaristiche del sindacalista americano Abraham Plotkin, stese tra il 1932 e il 1933 durante il suo soggiorno a Berlino. Anche quel viaggio era segnato da aspettative positive, e nello specifico dalla speranza, da parte di chi lo compì, di poter trarre insegnamenti dai progressi della politica sociale tedesca. Simili attese verranno tuttavia disattese e Plotkin dovrà fronteggiarsi in ripetute occasioni con il tangibile cambiamento del clima politico: «Berlino consente gli oltraggi ai portatori di svastiche, entra la provocazione, non c’è serratura, non c’è cancello, l’autorità indossa il mantello che rende invisibili […].»18

Il quarto pezzo che compone Mio padre, la rivoluzione, quasi conseguente seguito di quelli che lo precedono, è un racconto pseudobiografico e narra della nascita di un mostro con due madri, Klara, la guerra, e Keke, la rivoluzione. Attingendo a dei paralleli fra stalinismo e nazismo già affrontati in ambito storiografico,19 l’autore attiva l’immaginazione in forma strabordante e fantasmagorica per dar vita a un essere in cui le vite di Hitler e di Stalin finiscono per intersecarsi. Intitolata «Iosif Adolf Vissarionovič», questa ibrida biografia si modula in parte come parodia di un discorso scientificamente documentato e in parte come parodia di testi e film di science fiction incentrati sul mito primo-novecentesco della costruzione dell’‹uomo nuovo›. Se qui l’immaginario non pare immune dalle suggestioni di un film come Metropolis, in un altro testo del volume, «Bambini raccontano», che è formulato come una favola satirica sul progetto leniniano di costruzione dell’uomo nuovo, vi appaiono degli spunti tratti manifestamente dalla narrativa di Asimov e dai suoi robot positronici.

Altri testi del volume convogliano l’attenzione su biografie di personalità che si confrontarono con il comunismo tra momenti di entusiasmo e altri di dubbio o di esplicita critica. Il discorso ritorna ad esempio sugli ideali di quel medico italiano impegnato nella politicizzazione degli operai che fu Ivar Oddone, cui Calvino si ispirò per il personaggio di Kim nel Sentiero dei nidi di ragno. In un altro caso – e seguendo quella tendenza della biografia contemporanea dove lo scrivere dell’altro tende a intersecarsi con lo scrivere di sé20 – lo scrittore fruga nella vita di suo padre, il giornalista Alfredo Orecchio. Cerca allora di ricostruirne le posizioni politiche sulla scorta dei libri posseduti e anche di un reportage sociologico, Febbre di Sicilia, steso dal genitore negli anni giovanili, durante un viaggio nell’isola che fu per lui un’esperienza deludente, avendo dovuto constatare come tutto stagnasse anche dopo la Liberazione, e la mafia trionfasse con i suoi affari e guadagni anche nel nuovo contesto politico. Dal suo presente, il figlio pretende che il ritorno al padre – dove il termine padre è inteso tanto in senso letterale (il genitore) quanto in senso figurale (il secolo trascorso e le sue cruciali vicende) – non gli sia per nulla ovvio: «il passato non è il mio tempo, conservo la mia estraneità, sono straniero alla storia che interrogo, al tempo del padre […].»21 Il motivo dello iato generazionale trova elaborazione anche nel racconto «Contro nessuno», versione attualizzata degli episodi finali del mito di Ulisse. Parlare del momento in cui Ulisse e Telemaco s’incontrano, e l’eroe riprende il potere nell’isola, è un’occasione per riproporre il leitmotiv dell’opera, quel confronto del presente con un passato relativamente vicino, ma ideologicamente distante, che anche in questa rilettura viene presentato come faticoso e segnato da un senso di estraneità.

Viene ancora in funzione di collegamento del discorso d’insieme il pezzo dal titolo «Lettera ai cittadini sovietici nell’anniversario della rivoluzione» che è formulato di nuovo come un’ipotetica (e utopica) controstoria. Vi si narra, in termini acronici, di una lettera inviata a trent’anni dalla rivoluzione bolscevica da Rosa Luxemburg ai cittadini di un enorme spazio geografico-politico, lo sprawl tra Mosca e Berlino, qui voluto come interamente comunista e garante di una politica di pace e di «rispetto per l’uomo, per la volontà individuale […].»22

Il testo conclusivo rievoca, infine, i tentativi di rivolta popolare scoppiati nel 2006 in Messico, il che porta ad estendere spazialmente e temporalmente il discorso svolto fino a quel punto. Per la genesi di queste ultime pagine l’autore trae in parte degli elementi dalle note di un proprio viaggio nel paese centroamericano e in parte dalla lettura di un’opera dello scrittore messicano Sergio Pitol sulla Russia di Gorbačev (El viaje). Intitolato non a caso «Il viaggio», il pezzo svolge anche un’eccellente funzione di epilogo. Il discorso è strutturato infatti anche qui come una tentata lettera del presente al passato, di un io a suo padre (la rivoluzione) nel tentativo – così si vuole – di raggiungere l’abisso «dove si arruolano i sogni spezzati […].»23 Il riandare mentalmente indietro nel tempo, e in gran parte fra episodi già evocati, per riassumere le ferite di un secolo, si compie a sua volta attraverso la citazione di lettere di persone le cui sorti restano legate a vicende di oppressione politica. Fra tali scritti, che parlano appunto dello stato di terrore subentrato nell’Unione sovietica al magmatico clima della fase rivoluzionaria,24 figurano una petizione dell’argentino Serge a Togliatti perché si facesse mediatore della liberazione dell’anarchico Francesco Ghezzi, finito nei lager sovietici, una lettera di Marina Cvetaeva a Berija, l’impietoso responsabile del Commissariato degli Affari Interni, e un’altra, altrettanto toccante, dell’ormai anziana moglie di Bucharin, Anna Larina, a suo marito – lettera stilata a decenni di distanza della morte dell’uomo e necessariamente con sguardo rivolto al passato.

La storia, il tempo

Attraverso una fitta rete di collegamenti intra- ed extratestuali e un linguaggio che, nel rispetto della funzione polisemantica della comunicazione estetica, dice più di quello letteralmente esprime, emergono in Mio padre, la rivoluzione numerosi elementi di riflessione su storia, memoria e scrittura. Riprendiamoli brevemente per cercare di focalizzare innanzitutto quale visione della storia vi emerga e che rapporto, poi, colleghi quest’ultima, dentro un simile contesto narrativo, alla memoria e alla pratica della scrittura.

Il primo e più evidente rilievo che si può fare è che, mentre fuori dagli ambiti specializzati della storiografia persiste l’abitudine a rappresentare il moto della storia come movimento in avanti (frequenti i termini di cammino, sviluppo, evoluzione), le immagini adottate da Orecchio per parlare di tale andamento – e nello specifico di quello relativo alla storia del comunismo sovietico – sono quelle dell’arresto, della stagnazione, della forzata e trasfigurante conservazione o, ancora, della caduta. Questa abbozzata filosofia della storia orientata a sottolineare processi di deriva viene resa nel testo soprattutto attraverso il ricorso ai campi semantici che circoscrivono fenomeni fisici e organici: un impallidire, eclissarsi, indebolirsi, paralizzarsi, calcificarsi, mummificarsi, un trasformarsi di pianure in giungle, ecc. Anche la lettura mitologica introdottavi per raffigurare precisi episodi storici del Novecento, recuperando il mito della caduta dei giganti, batte sulla stessa idea. Analogamente, le biografie incastonate nell’opera parlano per lo più di esperienze di delusione e disorientamento, della difficoltà, vissuta da molti, a fare i conti con un passato che li tradì. Infatti, non diversamente dal tempo dell’accadere storico, anche il tempo dell’esistere, in sintonia con quanto già emergeva in Città distrutte, vi appare come una forza distruttiva. Nel primo racconto si legge ad esempio: «[…] il tempo è un deposito di sottrazioni, toglie bellezza, toglie manutenzione, poi è una somma d’incuria come un trucco sbagliato su un volto umano, la misura del tempo è l’indigenza di Lev Davidovič […].»25

Ma tornando al divenire della storia che si profila in Mio padre, la rivoluzione, e nello specifico al divenire che segna il comunismo sovietico, valga come esempio della prospettiva seguita dall’autore un brano della prima narrazione in cui quel rapporto tra il prima e il dopo si delinea subito in termini di progressivo oscuramento. Nello stesso brano ci s’imbatte nell’espressione straniante e assai eloquente di «disavvenire»:

L’anno cinquantasei ha una famiglia di peripezie, i suoi fatti esplodono hors ligne, fanno sensazione, illudono i popoli, le oligarchie sbottonano appena il corpetto, s’intravede un capezzolo, i popoli a guardare si eccitano, gli intellettuali guardano e sognano, le oligarchie li schiaffeggiano: […] così era risorto il sole dell’avvenire nell’anno cinquantasei ma subito seguì un disavvenire, una specie d’eclissi di luna; E in questo – argomenta l’anno cinquantasei con la sua voce di slavo diafano – si vede una parentela con mio padre il diciassette, anche se lui ormai è storia, anzi è una mummia, non parla più, ha i portavoce, invece io parlo coi miei carri armati, col presente mio […].26

A mitigare, tuttavia, una simile visione della storia della rivoluzione come «disavvenire» intervengono nel testo due elementi. Uno è connesso alla consapevolezza di un rigenerarsi, di tempo in tempo, degli ideali di giustizia politica e sociale per cui l’umanità da sempre combatte – consapevolezza sottolineata certamente anche dalla ripetuta metafora generazionale: «Nessun regno dura per sempre.»27 L’altro fattore, invece, fa leva sull’imprevedibile. Proprio la riscrittura di alcune vicende storiche e biografiche condotta sotto il segno dello what if? fa passare la tesi che il corso degli eventi non è segnato a priori. Inutile dire che, anche in relazione ai percorsi di singole esistenze, s’impone con chiarezza nel discorso, e non senza espliciti richiami a Borges,28 il peso che vi ha il caso, l’accidente, elemento riconosciuto costitutivo nel costruirsi di un destino.

Ma sull’approccio alla storia profilato in Mio padre, la rivoluzione merita rilevare ancora un aspetto non irrilevante. Lo si potrebbe mettere a fuoco ripescando nell’incipit di quel pezzo intitolato «Il partigiano Kim». La storia, recita quel passo, non si rende leggibile finché il suo racconto non si concretizza come storia di una singola vita.29 Che tutta la scrittura di Orecchio, così fortemente incentrata sul biografico, tenda ad attualizzare tale convinzione, non v’è dubbio. Il recupero della storia ha luogo nel suo lavoro attraverso l’assorbimento di percorsi di vita. In forma narrativa lo scrittore pare allora rispondere anche a quanto auspicava una ventina d’anni fa Aleida Assmann quando sosteneva (e però in riferimento alla storia della cultura) che sarebbe stata assai fruttuosa una più intensa interazione fra due modalità diverse del ricordare: quella che passa per la registrazione di dati («das Archiv») e quella della memoria («das Gedächtnis»).30 È quest’ultima, la storia nutrita dalla memoria, e nel caso in questione dalla memoria di singole vite, che lo scrittore va a cercare nei testi altrui e rielabora con tocchi di infedeltà facendovi risaltare dei lati (dubbi, contraddizioni, paradossi) che tendono altrimenti a restare in ombra.

Scrittura e memoria

Anche in Tempo di seconda mano di Svetlana Aleksievič,31 opera di straordinario interesse e giustamente apprezzata, costruita come collage di interviste sulla perestrojka e sulle delusioni che vi seguirono, la storia prende visibilità attraverso la memoria del vissuto. La scrittura della Aleksievič, ben inteso, è un altro pianeta rispetto a quella di Orecchio, ma un breve confronto non è inutile perché contribuisce a evidenziarne i tratti specifici. Ben più radicale nel lasciare la voce ad altri, in quanto evita nel suo discorso il filtro di un narratore come pure spazi d’invenzione, Svetlana Aleksievič si rintana nel ruolo di autrice del montaggio, per quanto nella presenza silenziosa di chi trascrive parole altrui – episodi di vita, giudizi, emozioni, dubbi, tradimenti – sia ugualmente possibile avvertirla presente e partecipe ai sogni e disincanti che raccoglie e rilancia. A Davide Orecchio le testimonianze su cui lavora arrivano invece nella stragrande maggioranza dei casi in forma scritta e non orale, né sono quelle dell’uomo di strada. Ma soprattutto il narratore/ biografo attivato nei suoi testi filtra e riplasma inventivamente la materia raccolta e il risultato di tale operazione non vuole essere una polifonia. Altro fattore rimarcabile di differenza è il fatto che la scrittrice bielorussa interviene su un pezzo di storia che ha vissuto in prima persona, dalla prospettiva di chi conosce per esperienza diretta le situazioni di cui parla. Nel capitolo prefatorio osserva: «Avevamo tutti una sola memoria, la stessa: quella comunista. Siamo dei vicini di memoria.»32 Orecchio scrive invece dalla prospettiva di chi non ha condiviso le vicende trattate. La questione non taciuta nel suo lavoro – ed è assai interessante che vi venga posta esplicitamente – è allora come sia possibile avviare, dalla dimensione del presente, un’interrogazione su un passato anche vicino ma non condiviso e verso il quale sussiste un rapporto di estraneità. Si vive solo nel presente e il passato della rivoluzione non gli ha fatto né bene, né male afferma l’io narrante dell’ultimo pezzo di Mio padre, la rivoluzione. Non è scontato, dunque, allacciarvi una comunicazione, come si sottolinea anche in altri passi del volume tanto in modo esplicito che figurato. La scelta di rappresentare un tentato rapporto col passato in forma di lettera, genere letterario in cui interrogare l’altro coinvolge sempre anche il sé, potrebbe allora collegarsi anche a tale difficoltà e segnalare indirettamente una modalità di approccio in cui la domanda sull’altro è anche una domanda su sé stessi. La comunicazione epistolare tasta infatti il cosa, il dove, il come del mittente non meno di quanto indaghi il cosa, il dove, il come del destinatario. Più facile ascoltare un passato prossimo, relativamente estraneo, nella consapevolezza che quanto racconterà potrà forse dare, per analogie e differenze, una qualche visibilità anche al presente, alla sua momentanea identità.

L’io (a tratti autobiografico) che parla nell’ultimo pezzo del volume segnala di voler riferire alcuni episodi di ingiustizia sociale in risposta a un appello ricevuto e alla promessa che ne seguì. Che un intento di testimonianza possa ben rientrare fra altre possibili motivazioni di un libro come Mio padre, la rivoluzione è ben plausibile, immaginarlo invece come l’intento guida è meno persuasivo: lo scopo di testimonianza resta infatti un po’ sconnesso rispetto alle motivazioni che si delineano implicitamente nel testo attraverso le strategie narrative adottatevi. Strategie che prevedono, tra l’altro, un sovrapporsi di spazi e tempi differenti al fine di far emergere le costanti di determinate dinamiche della storia (su piccola come su larga scala, nel passato e nel presente)33 e che prevedono altresì l’adozione di un narratore oscillante tra l’io di una vicenda autobiografica e un io sovra-individuale (il tempo) in modo da rendere possibili plurime letture del narrato: biografiche, storiche e sovra-storiche. Di simili operazioni potrebbe forse anche fare a meno un discorso orientato in prima istanza a registrare dati e situazioni «per non dimenticare».34 Così come è configurato in Mio padre, la rivoluzione, il discorso si carica anche e soprattutto di un tentativo di comprensione delle complesse dinamiche dell’accadere per dare visibilità nello specifico all’impertinenza della storia nei confronti del sogno ‹rivoluzione›. Proprio perché lievita oltre il contesto specifico di cui parla, questa scrittura, nel segnalare la traiettoria di un recente passato, suggerisce dove si trovi anche il presente. Narrazione della storia e delle storie come ricerca di orientamento.

Bibliografia

Aleksjevič, Svetlana: Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo, trad. it. a cura di Nadia Cicognini e Sergio Rapetti, Milano: Bompiani (Vintage) 2016.

Ankersmit, Frank: Narrative logic. A semantic analysis of the historian's language, Den Haag: Nijhoff, 1983.

Assmann, Aleida: Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, trad. it. di Simona Paparelli, Bologna: Il Mulino 2002 (Erinnerungsräume, Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnisses, München: Beck 1999).

Burdiel, Isabel: «Il perché delle biografie», trad. it. a cura di Davide Orecchio dell’articolo «El porqué de las biografías», in: El Pais (Babelia), 19.08.2006, https://www.nazioneindiana.com/2012/10/24/il-perche-delle-biografie [ultimo richiamo: 12.07.2020].

Farinelli, Patrizia: «Feconda infedeltà. L’innovativa prospettiva biografica di Davide Orecchio», in: Soliloqui e tradimenti. Narrativa italiana tra modernismo e postmoderno, Roma: Edizioni di Storia e Letteratura 2017, pp. 135–158.

Iovinelli, Alessandro: «Il rinnovamento della biografia letteraria in Italia (1970–1995)», in: Studia romanica et anglica zagrabensia (STRAZ), XLV–XLVI, 2000–2002, pp. 255–295.

Orecchio, Davide: Mio padre, la rivoluzione. Storie, Roma: Minimum fax, 2017.

Orecchio, Davide: Città distrutte. Sei biografie infedeli, Roma: Gaffi 2012.

Polenchi, Filippo: «Meccanica quantistica» (recensione a Mio padre, la rivoluzione), In: Lindice dei libri, XXXV, 3, 2018, https://www.lindiceonline.com/letture/narrativa-italiana/davide-orecchio-mio-padre-la-rivoluzione/ [ultimo richiamo: 06.07.2020].

Šklovskij, Viktor: Viaggio sentimentale, Milano: Adelphi 2019.

White, Hayden: Tropics of Discourse: Essays in Cultural Criticism, Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1978.

Wu Ming: New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino: Einaudi 2009.

  1. Questo lavoro rientra nelle attività del progetto di ricerca P6-0239 sostenuto finanziariamente dall’Agenzia per la Ricerca della Repubblica di Slovenia, ARSS.
  2. Cfr. White, Hayden: Tropics of Discourse: Essays in Cultural Criticism, Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1978; Ankersmit, Frank: Narrative logic. A semantic analysis of the historian's language, Den Haag: Nijhoff, 1983.
  3. Elemento unificante della NEI (nuova epica italiana) è individuato in «un'etica, un forte senso di responsabilità da parte di narratori stanchi di ‹passioni tristi› e / o giochetti tardo-postmoderni […]» Wu Ming: «Premessa» a New Italian Epic, 2009, p. IX.
  4. Polenchi, Filippo: «Meccanica quantistica» (recensione a Mio padre, la rivoluzione), in: L’indice dei libri, XXXV, 3, 2018.
  5. Uscita presso minimum fax nel 2017, l’opera comprende 12 prose intitolate rispettivamente: «Una possibilità di Lev Trockij», «Plotkin», «Un poeta sul Volga», «Iosif Adolf Vissarionovič», «Cast», «Contro nessuno», «Il mondo è un’arancia coi vermi dentro», «Partigiano Kim», «Bambini raccontano», «Lettera ai cittadini sovietici nell’anniversario della rivoluzione», «Zimmer Man», «Il viaggio».
  6. In concomitanza con il centenario della rivoluzione russa sono usciti anche in Italia diversi saggi sull’argomento, fra cui quelli di Flores, Marcello: La forza del mito. La rivoluzione russa e il miraggio del socialismo, Milano: Feltrinelli 2017; Strada, Vittorio: Impero e rivoluzione. Russia 1917–2017, Venezia: Marsilio 2017; Mauro, Ezio: L’anno del ferro e del fuoco. Cronache di una rivoluzione, Milano: Feltrinelli 2017 (opera divulgativa, quest’ultima, orientata a catturare l’attenzione di un ampio pubblico anche tramite alcuni passaggi romanzeschi). Fra tali pubblicazioni rientra anche una nuova edizione dellʼopera di Curzio Malaparte: Il buonuomo Lenin, Milano: Adelphi 2018, proposta a molta distanza dalla versione originale in francese (1932) e anche dalla sua prima edizione in traduzione italiana (1962). Nel 2019 è uscita, poi, sempre per Adelphi, la traduzione italiana di Viaggio sentimentale di Viktor Šklovskij, volume che raccoglie scritti autobiografici degli anni 1917–1922 incentrati proprio su quella fase magmatica della storia russa.
  7. Orecchio, op. cit., 2017, p. 228.
  8. Gli ideali antimilitaristi e di giustizia civile che improntarono gli anni ʼ60 ritornano nel volume in un pezzo su Bob Dylan – anch’esso formulato come biografia infedele. Il titolo assegnatovi («Zimmer Man») gioca con il cognome anagrafico del cantante. Si crea così un rimando alla Odessa di una Russia prerivoluzionaria da cui proveniva il nonno del cantante e che fu città di riferimento anche per il giovane Trockij.
  9. Per un’idea del primo lavoro in volume dello scrittore cfr. Farinelli, Patrizia: «Feconda infedeltà. L’innovativa prospettiva biografica di Davide Orecchio», in Soliloqui e tradimenti. Narrativa italiana tra modernismo e postmoderno, Roma: Edizioni di Storia e Letteratura, 2017, pp. 135–158.
  10. Burdiel, Isabel: «I perché delle biografie», trad. it. a cura di Davide Orecchio, [https://www.nazioneindiana.com/2012/10/24/il-perche-delle-biografie](https://www.nazioneindiana.com/2012/10/24/il-perche-delle-biografie) [ultimo richiamo: 12.07.2020].
  11. Orecchio, op. cit., 2017, p. 11.
  12. Meno riuscito connettore formale fra i vari testi che compongono il volume è l’uso di una manierata metafora floreale con cui si fissa l’identità di alcuni anni chiave del Novecento. Il 1917 è definito ad esempio anno del garofano, il 1943 anno del fiore di palma; il 1947 anno della rosa; il 1956 anno del biancospino; gli anni 1980 anni orchidea, ecc.
  13. Ivi, p. 26.
  14. Ivi, p. 43. Manifesto in questo brano l’uso enfatico della ripetizione, stilema usuale allo scrittore.
  15. Ivi, p. 77.
  16. Ivi, p. 83.
  17. Ivi, p. 93.
  18. Ivi, p. 54.
  19. Le fonti in questione sono puntualmente riportate da Orecchio nelle note finali del racconto. La stessa prassi è riscontrabile anche negli altri suoi testi.
  20. Negli studi sulla biografia (particolarmente numerosi nell’ultimo ventennio del Novecento) tale fenomeno viene spesso rilevato. Alessandro Iovinelli, ad esempio, vede nella biografia anche una forma di prolungamento dell’esperienza autoriale. Cfr. «Il rinnovamento della biografia letteraria in Italia (1970–1995)», 2000–2001, specie le pp. 263–268.
  21. Orecchio, op. cit., 2017, p. 21.
  22. Ivi, p. 247.
  23. Ivi, p. 264.
  24. Restituisce un’idea di quel clima esplosivo il diario di Šklovskij «La rivoluzione e il fronte», che registra gli eventi e le carambolesche avventure in cui fu l’autore coinvolto nel biennio 1917–1919 e con un’esplicita prospettiva soggettiva, inscritta del resto nel genere dello scritto: «racconterò tutto quello che è successo così come l’ho capito io» (Šklovskij, op. cit., p. 83).
  25. Orecchio, op. cit., 2017, p. 32.
  26. Ivi, pp. 12–13.
  27. Ivi, p. 307.
  28. Cfr. ivi, p. 257.
  29. Cfr. ivi, p. 217.
  30. «Tutti riconoscono ormai che non esiste narrazione storica che non sia, al contempo, anche un lavoro di ricostruzione basato sulla memoria e, quindi inevitabilmente legato alle condizioni dell’interpretazione, alla parzialità e all’identità.» Assmann, Aleida: Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, trad. it. di Simona Paparelli, Bologna: Il Mulino 2002, p. 149.
  31. Aleksievič, Svetlana: Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo, trad. it. a cura di Nadia Cicognini e Sergio Rapetti, Milano: Bompiani (Vintage) 2016.
  32. Ivi, p. 9.
  33. Nell’ultimo racconto finiscono per sovrapporsi violenze commesse in Messico durante la dominazione spagnola con altre che rimandano alla Russia sovietica, e ciò non diversamente da quanto accade negli altri pezzi del volume dove situazioni occorse durante la dittatura stalinista s’intersecano con altre del nazismo, eventi pietroburghesi del 1917 s’incrociano con quelli della Budapest del 1956/57, ecc.
  34. Cfr. ivi, p. 204.