Intervista a Pap Khouma

• Simonetta Puleio •


PID: http://hdl.handle.net/0000-0007-F986-9

Simonetta Puleio1: Carissimo Pap Khouma, grazie ancora per aver accettato l’invito per l’intervista. Dunque, come ti dicevo al telefono, il nostro progetto iniziale era quello di organizzare un convegno a 30 anni dall’inizio della letteratura della migrazione; però abbiamo dovuto ridimensionarci a causa della pandemia; quindi faremo una raccolta di articoli sul tema che poi pubblicheremo su una rivista online di cui poi ti manderò naturalmente le bozze, il successivo link. E la riflessione che volevamo fare insieme, per cui tu sei naturalmente il più titolato, è quella di effettuare un bilancio su questi 30 anni di «letteratura della migrazione in lingua italiana». Siamo a trent’anni dopo il tuo primo libro Io, venditore di elefanti, che è considerato il primo testo di questa cosiddetta letteratura della migrazione. Qual è il bilancio che si può fare? Qual è la tua riflessione su questa letteratura a distanza di 32 anni?

Pap Khouma: Allora, grazie per l’invito. Riguardo al libro Io, venditore di elefanti, tengo a sottolineare che c’è stata una fortunata coincidenza: nella stessa settimana è uscito anche il volume Immigrato di Salam Methnani e Mario Fortunato. Ecco, la stessa settimana del mio libro. Ecco, se non erro, perché è passato del tempo, Io, venditore di elefanti e Immigrato, se non sbaglio perché non sono più andato a controllare, sono usciti la stessa settimana, comunque lo stesso mese, ecco lo stesso mese in Italia. Ma non è stato un puro caso. Dobbiamo tener conto che all’epoca noi scrivevamo a quattro mani. Ecco i primi libri usciti in quell’epoca sono tutti scritti a quattro mani, perché comunque noi arrivavamo da altre lingue, eravamo di altre madrelingue, venivamo dall’arabo, dal francese, dall’inglese. Ecco per dire, ma ancora adesso chi arriva in Italia difficilmente parla l’italiano. Ecco, perché, ahimè, l’italiano non è una lingua internazionale come l’inglese o il francese, non è una lingua ufficiale di altri paesi sparsi nel mondo come lo spagnolo, il portoghese oppure le altre lingue europee, il francese, l’inglese. Quindi noi, ecco, noi abbiamo dovuto imparare, almeno io parlo per me, ho dovuto imparare l’italiano una volta che ero qui. A questo punto sono usciti degli altri libri e anche gli editori, altri editori hanno visto che c’è stato un grande successo avuto da questi due libri, e quindi anche altri editori si sono messi a pubblicare libri scritti a quattro mani. Ecco quindi la situazione di quell’epoca. Io non mi aspettavo tutto quell’impatto che ha avuto il libro Io, venditore di elefanti, perché io non avevo delle velleità letterarie, io volevo soltanto raccontare tranquillamente la vita degli immigrati anche attraverso la mia vita, la mia esperienza e quella dei miei amici, io volevo solo raccontare quella. Quindi alla fine il libro ha avuto un impatto molto forte, ancora oggi, dopo più di trent’anni, il libro è tradotto in inglese, è stato adottato nelle scuole e quindi chi sono io per dire che ecco io avevo tutte quelle aspettative per me. E poi dopo, dobbiamo dirla la citazione «l’appetito vien mangiando», ecco io ho continuato a scrivere, non più solo romanzi a quattro mani, ma anche a scrivere articoli. Poi ho iniziato a collaborare con riviste come Linus ecc. ecc., allora fino a diventare anche giornalista.

S. P.: Certo, complimenti. Sì, io ho letto molte tue cose in questi anni. Adesso ti chiedo: c’è un po’ di rimpianto, oppure di nostalgia di quei tempi? Dell’Italia com’era in quegli anni?

P. K.: Ma non ho nostalgia di quei tempi, perché non erano proprio tempi belli, no, non erano belli. È vero che noi eravamo giovani, non avevamo ancora la famiglia e così quello che subivamo lo subivamo sulla nostra pelle e non su quella dei nostri figli. Però, non erano neppure tempi belli, perché io ero appena uscito anch’io dalla clandestinità, perché mi sono fatto tre anni di clandestinità in Italia prima di diventare quello che racconto nel libro. Ecco quindi, quello che racconto nel libro, anche se sono solo dei racconti, una narrazione molto leggera, no, ma anche ironica, ecco, anche in maniera ironica, non vuol dire che sotto non ci sia l’amarezza. Ecco, io ho cercato di raccontare una vita amara col sorriso sulle labbra, ecco. Mettendomi a ripensarci personalmente, anche i miei amici erano dei clandestini, buffo perché a pensarci dopo ho detto, ma noi lo eravamo perché io lo sentivo dire perché noi eravamo clandestini, ma si diceva che i clandestini sono tutti dei delinquenti e clandestino è sinonimo di delinquente e io a questo punto dico: ma noi siamo stati clandestini per tre anni, quindi siamo stati dei delinquenti. Eravamo proprio ingenui. Ecco, facevamo delle cose ingenue, di un’ingenuità incredibile!

S. P.: Posso immaginare, però erano anche altri tempi. In Italia, per esempio mi riferisco all’episodio del funerale di Jerry Masslo nel 1989, che anche questo viene sempre citato in tutti i testi come, diciamo, l’episodio che di fatto ha messo sotto gli occhi dell’opinione pubblica italiana il fatto che ci fossero tanti immigrati, cioè che l’Italia non era più solo un paese di emigrazione, ma era diventato un paese di immigrazione, perché negli anni ‘80 veramente erano ancora pochissimi gli stranieri e appunto, al funerale di Jerry Masslo arrivarono tantissimi italiani, addirittura le autorità, il ministro dell’Interno, il ministro della Giustizia eccetera. Ecco, io mi riferisco all’Italia di quegli anni dove c’era forse più un senso di solidarietà. Che cosa ne pensi di questa mia affermazione?

P. K.: Allora, di sicuro eravamo un’Italia politicamente diversa. Possiamo dire che c’erano dei partiti politici che ora non esistono più: c’era il Partito Comunista Italiano, la Democrazia Cristiana, i socialisti, c’erano i liberali. È vero che c’era anche l’MSI: all’epoca l’unico partito che si poteva definire di destra era il Movimento Sociale Italiano. All’epoca quindi erano queste le persone che facevano politica. Eh, è vero che i politici fanno anche propaganda, ma è un’epoca quella in cui i politici facevano meno propaganda, i politici tipo Andreotti erano occupati a fare altro che a bastonare l’immigrato, Bettino Craxi non bastonava gli immigrati, no, c’era anche Achille Occhetto. Ecco, io posso citare anche Ingrao, Ecco. Come erano? Ecco, erano dei giganti rispetto a quelli di oggi. No, non c’è paragone. Ecco, non usavano l’immigrazione per raccattare voti, è lì la differenza, e neanche l’MSI dell’epoca, usava gli immigrati per raccattare voti. Ecco Almirante era un politico negli anni ‘80 (la moglie è morta la settimana scorsa); anche se non condividevo le loro opinioni, non è che basavano la loro crescita, ecco, sulla caccia agli immigrati come adesso. Non facevano quello che fanno adesso. Uno mi può rimproverare dicendo ma guarda che i numeri erano diversi, qualcuno me lo può dire, mi può benissimo dire sì, è vero, i numeri erano ben diversi. Ecco questo è vero, però all’epoca l’Italia aveva bisogno di lavoratori, aveva bisogno di mano d’opera. Perché? Perché la maggior parte degli italiani del sud era emigrata al nord, quindi eravamo ancora in pieno boom economico e l’Italia aveva bisogno di giovani che lavorassero nelle fabbriche italiane, le fabbriche italiane avevano bisogno di giovani. Io mi ricordo che all’epoca i giovani italiani non volevano più fare i panettieri, non volevano andare nelle fonderie, non volevano fare i pasticceri, gli infermieri, non volevano fare gli infermieri. Io me lo ricordo. Però se andiamo a vedere i dati Istat, l’Italia ha bisogno ancora di lavoratori, di mano d’opera giovane, perché ha una popolazione molto vecchia, tra le più vecchie d’Europa. No, quindi anche se ci sono i numeri degli immigrati che sono aumentati, l’Italia ha ancora bisogno di mano d’opera che non può che arrivare dall’estero.

Però che cosa fanno i politici adesso? E non è soltanto la Lega, la Lega è il numero 1, ma anche nei partiti di sinistra, anche all’interno dei partiti di sinistra si trovano delle persone che bastonano. Io sto parlando di propaganda, che usano comunque la questione dell’immigrazione sempre in chiave elettorale. Io posso ricordare circa dieci anni fa, forse otto, non mi ricordo più esattamente, c’era un ministro molto di sinistra che si chiamava Marco Minniti, molto di sinistra e faceva gli stessi discorsi che fa la Lega.

Quindi poi si è visto che si possono avere dei voti usando la presenza degli immigrati, allora la situazione è cambiata. Quando morì Jerry Masslo è vero che Cossiga all’inizio ha cercato di dire che non c’entrava il razzismo. Io me lo ricordo bene cosa diceva perché era dopo Pertini ed è arrivato il Presidente Cossiga, no? Un balordo, lo ha ucciso un balordo, diceva il presidente Cossiga, non è razzismo. Mentre prima di essere ucciso, qualche tempo prima, lo stesso Jerry Masslo, se si va a vedere negli archivi Rai, in un’intervista Jerry Masslo diceva che non era nessuno, perché non era ancora morto, ma lui, diceva che lui è scappato dall’apartheid in Sudafrica per venire qua in Italia. Ma dicevo, ma guardate qui, no? Voi vi accorgerete di noi solo dopo che saremo stati uccisi, diceva lo stesso Jerry Masslo. Ecco, faceva questo discorso, no? No, e guarda caso lui è stato ucciso. Quindi il problema più grosso è la gestione, non un problema di numeri, che prima erano di meno, e adesso sono molti di più. Ma come è stata gestita? Ecco, i flussi migratori come sono stati gestiti, per un grandissimo paese come l’Italia. Attenzione, l’Italia è un paese accogliente. Io questo non lo metto in dubbio, l’Italia è un paese accogliente, e ci tengo a sottolinearlo. Adesso con l’immigrazione i flussi migratori sono gestiti, chiedo scusa per il termine che sto usando qui, sono gestiti alla «cazzo di cane».

S. P.: Sì, eh vabbè, lasciamo perdere non è la sola cosa ad essere gestita in quel modo. Sì, vedo che il tuo italiano è magnifico, riesci a padroneggiare anche questi modi di dire…

P. K.: C’è anche questo, come viene gestito, come è possibile che sia gestita così male? Io non so, allora io da fuori non lo posso vedere, non lo so cosa succede da voi in Germania, ma la Merkel in una settimana, in dieci giorni, non in dieci mesi, dico in dieci giorni, ha accolto quasi più di un milione di siriani, non tutti lo hanno saputo fare, hanno avuto il coraggio politico di farlo.

S. P.: Sì, nel 2015, ma è stata anche molto criticata, però nel 2015 ha avuto il coraggio di accogliere così tanti rifugiati.

P. K.: Ma è questo che sto dicendo, non di dire: io dico e faccio quello che vuole l’opinione pubblica così mi vota, no? Ecco, è questo che è successo in Italia?! Ecco, pur di avvelenare la società, pur di creare dei conflitti, no? In questo momento l’opinione pubblica desidera questo, no? e io faccio quello che vuole l’opinione pubblica. Non ho il coraggio della Merkel che disse, io accolgo, so che l’opinione pubblica è contraria, ma io me ne frego, io sono un politico, mi comporto da politico. No, allora qui noi in Italia abbiamo visto un ministro dell’Interno che va a far bloccare delle navi bloccate al largo, ecco al largo del Mar Mediterraneo mentre stanno morendo, perché c’è gente che applaude e chi non applaude, e chi non era d’accordo? Chi non era d’accordo non aveva il coraggio di alzare la voce, anche se aveva la maggioranza. Sto parlando della maggioranza della gente che non aveva nulla in contrario, che voleva l’accoglienza, ma lo diceva sottovoce. La minoranza che non lo voleva lo urlava, quelli si sentivano di più. Ecco queste persone. È questo che sto dicendo? Io non sto dicendo che attenzione, io non sto dicendo che la gente deve per forza lasciare il proprio paese e venire in Europa. Io non sto dicendo queste cose, prendiamo com’era allora. Se un paese come il Senegal, lasciamo da parte i paesi dove c’è la guerra, dove c’è la gente che è costretta a scappare come stiamo vedendo in Ucraina in questo momento, perché lì stanno buttando le bombe, no, come succede in Sudan, come succede in Siria, come succede anche in Iraq. E sono bombe occidentali in Iraq e la gente scappa da dove buttano le bombe? No, no, non sto dicendo questo. Sto parlando dei paesi dove non ci sono le bombe, parlo degli immigrati economici. Io lo rivendico, io sono un immigrato economico, io l’ho sempre rivendicato. Chi sono io? Allora io sono stato formato dalla scuola materna fino alla fine dei miei studi da un paese povero che ha investito dei soldi su di me. Se io lascio questo paese per andare a servire da un’altra parte non è che il paese che mi accoglie ci guadagna e basta. Il paese che mi ha formato è un paese povero e quanto costa formare una persona? Quindi anche i paesi di partenza ci rimettono.

S. P.: Certo, ma è come per l’Italia con tutti i laureati che vanno via ancora, capisci, è la stessa cosa. La stessa cosa, certo.

P. K.: Ecco, è questo che sto dicendo. Ecco anche i paesi di emigrazione hanno qualcosa da perdere, no? Ecco, ecco proprio questo sto dicendo. Poi se vogliamo, ritorniamo alla letteratura, perché se tocco il tema dell’immigrazione io mi infiammo, ecco. È meglio se torniamo a parlare di letteratura e non di politica.

S. P.: Si, infatti, infatti il discorso politico è molto, molto complesso. Torniamo alla letteratura. Allora tu, dopo Italiani neri nel 2005 hai pubblicato Nonno Dio e gli spiriti danzanti. Sì, che questo che è il contrario, cioè ritorni giustamente nella tua, nella tua terra natale, il Senegal. Ci fai conoscere la tua terra, ci fai conoscere appunto il posto da dove sei venuto: è molto anche bella quella serie di racconti. Poi nel 2010 Noi italiani neri, bellissimo anche questo titolo perché da «IO venditore» passi a «NOI italiani neri» e il prossimo sarà «LORO», non lo so? Ecco questi sono i titoli. La scelta dei titoli, Io, venditore di elefanti e Noi italiani neri, storie di ordinario razzismo è estremamente interessante. Venti anni dopo il tuo arrivo in Italia, dici giustamente noi italiani perché nel frattempo sei diventato cittadino italiano. Quindi è molto interessante anche questo, questa serie di storie che di questo libro sono il nucleo centrale e ancora concludi anche parlando del Senegal, quindi diciamo che è un po’ come chiudere il cerchio iniziato da Io venditore di elefanti. E adesso quali sono gli altri progetti? A parte la traduzione di Dante, della quale parleremo dopo, adesso stai scrivendo qualcos’ altro? Sempre su questo tema.

P. K.: Allora, prima tra queste cose, prima citerò la rivista El Ghibli, perché ecco, nel 2002 noi abbiamo notato che sembrava, ecco sembrasse per la casa editrice che la moda dello scrittore arrivato da fuori, fosse passata no, perché negli anni ‘90, fino a circa il 2000 l’attenzione sulla cosiddetta narrativa dell’immigrazione fosse calata, quindi avevo notato e questo lo denunciavo, cioè vedevo che l’editoria, il mondo editoriale italiano preferiva quello che io definivo l’esotismo degli altri.

S. P.: Sì, certo, nella prima fase sì.

P. K.: Ecco cosa perché? Perché io ho visto che ecco, ho visto che dopo di noi, l’editoria si metteva a tradurre dall’olandese e dall’inglese, dal francese libri scritti da emigrati, non dico da inglesi neri, oppure da olandesi neri no comunque da immigrati, ma anche, ma anche dei bei libri. No anche dei BEI libri, di iracheni, di marocchini che erano di prima emigrazione in quel paese e chi scriveva qua in Italia in italiano, raccontando più o meno le stesse storie, veniva snobbato.

S. P.: Le mode, le mode.

P. K.: Però, nel frattempo, nel frattempo i ragazzi nati qui negli anni ’80, o alla fine degli anni ‘70, cioè hanno fatto le loro scuole qui quindi erano di madrelingua italiana, anche se i genitori erano somali oppure africani, oppure brasiliani, hanno iniziato a scrivere anche i giovani in italiano e rispetto a noi, l’italiano è la loro lingua. Ecco, è la loro lingua, l’italiano. Quindi ho iniziato. Quindi c’erano delle difficoltà per pubblicare, e a questo punto noi abbiamo creato la rivista online El Ghibli e davamo molto spazio a tutti i nuovi italofoni, lo spazio per pubblicare. Alcuni che sono poi diventati famosi in Italia, hanno iniziato a pubblicare su El Ghibli che era nato per dire noi vi diamo lo spazio. Benissimo, ah, ecco, questo era El Ghibli, quindi io sono rimasto in contatto con tanti di questi scrittori e futuri scrittori, di alcuni purtroppo non mi ricordo più neanche il nome. Quindi io ero al centro perché ero il direttore di El Ghibli, ero al centro e la rivista era letta in America, in Germania, in Russia e perfino in Cina: era nata come rivista online. Rivista online, è rimasta rivista online. Certo è un vantaggio. Ecco, abbiamo avuto la fortuna che all’epoca non esistevano Tik Tok e altre cose che ci sono oggi in rete, non esistevano ancora. Ecco nasceva appena l’epoca dei blog. E poi, quando ognuno poteva farsi il suo proprio blog, allora alcune cose sono cambiate. Però esistiamo da vent’anni. Esiste, la rivista esiste ancora da vent’anni.

S. P.: Ah ecco, perché no.

P. K.: Poi, adesso che cosa scrivo? Io durante il lockdown ho scritto molto, essendo chiuso in casa, perché in Italia siamo stati più reclusi perché il covid è proprio partito da qui in Lombardia, io ho scritto molto e inizierò a pubblicare progressivamente, io ho scritto per delle riviste, per Oxford ho scritto per delle antologie, però sono degli scritti e racconti che sono letti soltanto da voi studiosi. Ecco, sono racconti.

Adesso scrivo soprattutto per gli studiosi, l’ho fatto per la New York University, l’ho fatto anche per una rivista tedesca di cui poi ti manderò il nome. Adesso sta per uscire anche un altro contributo, ma non mi ricordo come si chiama un’altra rivista tedesca, se la trovo te la mando. Poi ho finito una serie di racconti che ho scritto, che non ho ancora pubblicato perché dovevo pubblicarli nel 2020. Mi hanno detto, è meglio aspettare il 2021. Arriva il 2021, la situazione in Italia non era cambiata perché non si poteva neanche andare a presentare un libro nelle librerie. Ecco, da nessuna parte. Adesso siamo nel 2022. E inizierò progressivamente a pubblicarli; inoltre ho ripubblicato Noi italiani neri. Ecco che dovevo ripubblicarlo perché ci sono ancora dei refusi. Quel libro è nato con i refusi e continua ancora con altri refusi.

Eh ecco poi ho fatto una graphic novel tratta proprio dal racconto che avevo mandato alla Oxford University, quindi ho pubblicato questo, poi ho pubblicato un libro di graphic novel, bisogna andare sul sito di Edizioni Kanaga per ordinarlo.

S. P.: Per quanto riguarda la traduzione in wolof di Dante: com’ è nato questo fantastico progetto?

P: K.: Mah, io non sono così pazzo da dire di punto in bianco: mi metto a tradurre la Divina Commedia di Dante. Eh, mi è stato proposto dall’Istituto Italiano di Cultura di Dakar, in Senegal. E io ho detto sì, senza pensarci. Perché credevo di conoscere anch’io Dante, perché chi vive in Italia dopo un po’ sente talmente tanto parlare di Dante, ad esempio alla televisione, mentre c’è un dibattito, si sente qualcuno buttare dentro citazioni, ad esempio: «nel mezzo del cammin di nostra vita», oppure un’altra cosa di Dante. Alla fine uno che segue l’attualità, la cultura, che va alle presentazioni di libri, sente una citazione di Dante di qua e una di là e dopo trent’anni uno dice, ma io lo conosco, dai. No, sembra che sia quasi il vicino di casa. Però, a questo punto quando ho detto di sì, non avevo preso in considerazione alcuni aspetti, ecco ad esempio che Dante è scritto in volgare e ho dovuto fare anche delle considerazioni perché ho detto: io devo tradurre Dante direttamente dal volgare al wolof, non cerco una scappatoia nell’andare a prenderlo dal francese, dalla traduzione in francese. Perché sarebbe troppo semplice, anzi, anche alla versione in italiano moderno ho detto no. Io non ho mai letto Dante nella versione francese: sarebbe stato più facile per me, perché sono stato cresciuto con il francese, ma ho detto di no. Non andrò a vedere quella francese, non andrò a vedere l’interpretazione in lingua italiana moderna. Io parto dal volgare per atterrare, se vogliamo approdare, sì proprio atterrare nella lingua wolof del Senegal, che è la lingua più parlata in Senegal. E poi mi sono reso conto che eravamo in pieno lockdown e che le librerie e le biblioteche erano chiuse, tutte le librerie e tutte le biblioteche erano chiuse. Quindi per avere delle edizioni annotate per andare, avere del materiale dovevo accontentarmi di Google che non basta, perché non si poteva andare in biblioteca. Avevo per fortuna due brochure a casa, dall’italiano al wolof fatte dai miei amici anni fa. Quindi questo era l’unico materiale da consultare che avevo sottomano. Quindi io sono partito così, erano questi diciamo i materiali su cui basarmi, perché io non sono stato cresciuto nella mia lingua madre, a scuola abbiamo studiato in francese. Perché nella nostra scuola e ancora adesso nelle scuole, dalla scuola materna fino alla maturità non esistono corsi nelle lingue locali, nella lingua del paese, ma solo in francese. È più facile in Senegal imparare il tedesco alle medie, il tedesco o il russo, ma non si trovano le lingue locali perché sono lingue principalmente orali. Mancano le regole scritte di grammatica per impararle proprio in maniera sistematica. Si parla solo fuori dalla scuola. Certo, ma come un dialetto, come i dialetti, cioè anche da noi in Italia si impara, cioè si studia in italiano e i dialetti, quelli più stretti non sono imparati a scuola, ma solo a casa, in famiglia. Ma i nostri non sono solo dialetti. E allora il problema è che non ha la grammatica codificata. Non sono dialetti, abbiamo dei dialetti, ma abbiamo anche delle lingue, c’è una lingua che è una lingua parlata solo in Senegal. Il pulaar, in Nigeria lo chiamano fur e furani e in Senegal lo chiamano tutti fur. In Guinea lo chiamano papel. Per dire che si parla dal Senegal fino ai confini della Somalia. Ma questa lingua non è insegnata nelle scuole.

C’era un generale francese, credo alla fine dell’Ottocento, quando si faceva il dibattito su lingue e dialetti e i linguisti erano lì a fare dibattito in Africa e lui era lì per colonizzare, ma si è portato anche i linguisti, erano tutti lì e si trattava su qual è la differenza tra dialetti e lingue? Erano lì e voi studiosi eravate lì a dire, ma questo è dialetto, questa è lingua, gli hanno chiesto. Qual’è la differenza? E lui disse, «Sapete che cos’è una lingua?», chiese lui, il militare generale. Esatto, ha detto che una lingua è un dialetto armato, punto. Ha detto lui. Si parla francese, si parla francese perché noi lo stiamo portando con le armi.

E lo stiamo imponendo, quindi una lingua è un dialetto armato, per lui tutto lì. La lingua che è più forte di tutti i dialetti è quella che ha un esercito alle sue spalle.

Certo, come in Somalia è stato con l’italiano e in altre zone c’era l’inglese. Insomma come in Sudafrica c’erano l’olandese, il boèro. Ma negli Stati Uniti d’America nonostante ci fossero milioni di persone che parlavano il francese è stato impedito. Ecco, nel sud degli Stati Uniti no. Lì si parlava anche francese, perché alcuni Stati erano colonizzati dalla Francia che poi li ha ceduti. Ecco, parlano ancora francese a Baton Rouge, basta sentire il nome, Baton Rouge. Io ho sentito dei discendenti di lì che hanno conservato il francese, pochi li ho sentiti parlare alla televisione, in francese, ma parlavano un francese, ahimè, che faceva ridere. Mi facevano ridere. Ecco però allora dicono che clandestinamente queste sono storie di cui forse se ne parla ora meno, ma sono stati costretti a parlare inglese. Ma fino agli anni ‘20 erano liberi di parlarlo e di insegnarlo. È negli anni 20 del secolo scorso, cento anni fa, che è stato vietato il francese come lingua ufficiale.

Ecco, sto parlando di due, tre generazioni. Il Québec, ecco il Québec. Ha fatto di tutto, ha sudato per conservare il francese. Ecco per dire, perché sono loro, sono discendenti dei francesi, non sono quelli colonizzati, sono i colonizzatori francesi che sono andati lì. Alla fine sovrastati dall’inglese. Forse 1/3 della popolazione in Argentina è di origine italiana che non parla più l’italiano. Eppure ci sono le scuole italiane, sono andato in Argentina e ci sono ancora delle scuole italiane.

Tornando a Dante, quindi, ho dovuto fare questo lavoro iniziando con due, tre cose e un’amica mi diceva: «guardati Sermonti se vai a consultare l’archivio Rai, vai a sentire la sua interpretazione, al di là della traduzione, cosa dice Sermonti? Che cosa dicono i dantisti che c’erano all’epoca?» Credo, quando me l’hanno chiesto c’erano anche delle conferenze al Duomo di Milano, che si potevano seguire anche online per andare a sentire come venivano interpretati i canti. No, quando io capitavo sui siti di alcuni diciamo dantisti famosi, dopo un po’ vedevo che c’erano anche dantisti famosi che avevano figli che contestavano l’interpretazione del proprio padre.

Quindi, quando si parlava, ecco della Lonza, ma che cavolo vuol dire la parola «lonza»? Ecco, al di là dell’aspetto allegorico, no, ma ci sono diverse interpretazioni. Che cosa sono? E quando si parla della Lupa? No, uno dice bene, io traduco «Lupa» e non mi metto lì a torturarmi, Lupa è lupa, Leone è leone.

Traduco, anche se dietro ci sono altre interpretazioni, mi sono reso conto che nella mia lingua materna non c’è la parola «lupa»o «lupo», perché dalle mie parti non ci sono, i lupi non sono mai esistiti. Allora che cosa faccio, metto la parola loup in francese? Che comunque lo abbiamo visto alla televisione, al cinema. Era sempre chiamato un loup alla francese, oppure devo trovare un’altra spiegazione. Io ho dovuto dire che è un animale che somiglia allo sciacallo perché gli sciacalli ne abbiamo, gli sciacalli rubano le galline, anche i lupi. Rubano le galline, quindi tutti li conoscono, quindi io ho dovuto tradurre: lupo come una sorta di sciacallo. Anzi, non è finito. Una parola banalissima, come la montagna: io arrivo da una zona dove non esistono le montagne. Come faccio a tradurre la parola «montagna»? Mi sono reso conto che per il senegalese, soprattutto nella zona del wolof, se si butta giù un palazzo e si mettono i mattoni uno sopra l’altro, ecco, la massa di detriti per un senegalese, ecco, questa è proprio una montagna. Perché non le abbiamo mai viste le montagne, io le mie prime montagne le ho viste solo quando sono arrivato in Italia.

Quindi mi sono dovuto documentare. Ecco su queste cose mi sono dovuto documentare, e quando sono arrivato al leone allora lì giocavo in casa perché il simbolo del Senegal è il leone, no? C’è un’allegoria, se vogliamo, bisogna interpretare questo, però quando si tratti di tradurre oppure di interpretare, come dice il prof. Umberto Eco che la definisce come un processo di interpretazione, diciamo un battibecco perché sono andato ancora anche a leggere il professor Eco sulla traduzione ecco quello che diceva sulla teoria della traduzione. E sul leone è stato più facile perché è il simbolo del Senegal, il leone del Senegal: dovunque c’è lo stampo del leone, la squadra di calcio si chiama i leoni, ecco tutto è leone in Senegal.

Quindi lì, nella pura tradizione letteraria, non ho incontrato dei problemi, no, alcune cose le ho dovute interpretare. E le terzine, le terzine… C’ho provato, però mi hanno detto: «Senti Pap, chi te l’ha chiesto?» E lì non l’ho ancora detto, me l’ha chiesto l’Istituto Italiano di Cultura che mi aveva chiesto di tradurlo al volo l’anno scorso per il 700° anniversario della morte di Dante, e così sono andato anche a presentarlo, quindi per le terzine mi sono confrontato con dei cultori del wolof anche in Senegal. Anche qui no? E le terzine alla fine mi hanno detto soprattutto all’Istituto di Cultura, noi abbiamo visto delle traduzioni in altre lingue non latine, europee non latine. E hanno riproposto le terzine ma forzando, con il rischio di forzare, di fare delle forzature e che cercando di conservare le terzine in, come dire in volgare, ma nella trasposizione in wolof. Quindi io ho privilegiato il ritmo e non le terzine in rima.

S. P.: Sì, giusto, giusto, no, ma anche in tedesco non c’è la rima, non ci sono le rime delle terzine perché è impossibile. Cioè hanno provato perché ci sono tante traduzioni, per esempio in tedesco, ma diventa una cosa forzata. Spesso le traduzioni, più che traduzioni, sono quasi parafrasi in cui si spiega, ma perché è impossibile tradurre letteralmente. Quindi tu hai fatto un’ottima operazione, un ottimo lavoro, io penso. C’è stata una diretta su Facebook quando avete fatto la presentazione all’Istituto Italiano di Cultura di Dakar. Avevo visto, sì, c’è stata una diretta anche davanti alla tomba di Dante.

P. K.: A Ravenna sì, a Ravenna. Anche lì è stata una roba veramente di alto livello.

S. P.: Comunque sì, sono rimasta molto ammirata. Perché insomma, è stata un’operazione estremamente coraggiosa e di ottimo risultato, complimenti.

P. K.: E poi il libro, abbiamo fatto un libro, sempre sul sito di Edizioni Kanaga, secondo me si può richiedere gratuitamente il libro perché lo abbiamo fatto insieme al teatro Albe, il teatro di Ravenna. Ecco il libro è stato fatto insieme, curato da Tahar Lamri, un poeta di origine algerina che vive a Ravenna. È lui che l’ha curato insieme alla mia traduzione e altri saggi con anche altri contributi sul teatro.

S. P.: Molto interessante grazie. Poi un’ ultima curiosità, cioè quali rapporti hai adesso con altri scrittori, appunto stranieri, cioè cosiddetti migranti, insomma che scrivono in italiano, che come te che sono quarant’ anni che stai in Italia, come si fa a dire migranti? Insomma, è una forzatura. Però diciamo che per esempio in Germania si usa un termine speciale per indicarli, si chiamano appunto autori con un passato di immigrazione, con un substrato di immigrazione, vengono chiamati in questo modo, con uno sfondo migratorio, ecco.

P. K.: No, qui i ragazzi, i giovani nati qua soprattutto mi interessano. Come Igiaba Scego e Cristina Ubah Ali Farah sono le mie preferite, quelle due ragazze sono brave. Ce ne sono altri, spero che gli altri non mi sentano ma sono proprio le mie preferite. Proprio adesso sto leggendo La linea del colore di Igiaba Scego. Mi era sfuggito, ancora non ne avevo avuto il tempo, lo sto leggendo proprio adesso. Sono le mie preferite.

S. P.: Beh, fantastico! Ecco, io trovo e lo dico sempre agli studenti che questa letteratura voi siete, quel cioè la letteratura più interessante del momento, perché gli scrittori italiani sono molto, come dire, si guardano molto il proprio ombelico, no? Cioè, sono pochissimi quelli che scrivono cose un po’ più di apertura verso il mondo esterno. Voi invece fate anche una ricerca, per esempio Igiaba con questa linea del colore, ha fatto tanta ricerca storica, il racconto si sposta fra passato e presente.

P. K.: Poi c’è Kaha Mohamed Aden che è per me come una sorellina, eh, infatti guarda è la mia sorellina, ecco. Igiaba invece la considero una nipotina, Igiaba. Certo che Igiaba e Kaha sono una nipotina e una sorellina. Ma come si fa a definire Cristina Ubah Ali Farah un’immigrata se la mamma è veronese? No, appunto, ma come si fa? Come si fa a definire Igiaba Scego scrittrice migrante se è nata a Roma? È una sagoma e parla l’italiano meglio di tante persone, scrive in italiano meglio di tanti scrittori italiani. Parla romano. Lasciamo perdere, lo dico perché sono a Milano. Ecco, lo dico da milanese. lei parla romano è vero, e lo dico infatti da milanese. Lei invece è proprio una romanaccia. Quindi loro giustamente si autodefiniscono afrodiscendenti, loro sono anche afrodiscendenti, non sono immigrati.

E io sono arrivato da giovane dal Senegal, me ne frego se mi chiamano immigrato. Questo non mi disturba perché io ho vissuto in diversi paesi, no, ho vissuto in Francia, ho viaggiato negli Stati Uniti, in Argentina, in tanti paesi africani, ho viaggiato in Grecia sono andato a Mosca. Io ho una età, quindi amo definirmi emigrato vecchio. Tutto questo non mi interessa, essere definito scrittore della migrazione. E io dico, ma allora vuol dire che sono uno scrittore? Allora mi confermi che sono uno scrittore? Ecco, e subito finisco. Beh, sicuramente con Io venditore di elefanti, 30, 35 anni fa ero, sì, sì, un giovane immigrato in Italia.

Questi giovani mi hanno invitato a Roma il 25 maggio che c’è la Giornata dell’Unità Africana, quando il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale ha deciso che questa volta è dedicato alla letteratura; l’anno scorso era sull’arte, quest’anno sulla letteratura e due anni fa credo era sulla musica. Sono loro che mi hanno invitato a fare una relazione hanno detto: noi vogliamo invitare Pap Khouma.

Ecco per dire, io sono arrivato a un punto in cui io non cerco mai di farmi invitare, io devo trovare il tempo per scrivere, però quando mi chiamano i ragazzi giovani, io sono presente e quando vado lì, adesso con te al telefono sto parlando tanto tanto, ma quando vado lì io lascio la parola, soprattutto ai più giovani. Io lascio loro lo spazio. Quando parlano, fateli parlare, fateli esprimere.

Ma io sto parlando, facendo la presentazione della degli anni ‘80. Lasciamo parlare questi ragazzi.

S. P.: Certo, certo. Bene, io ti ringrazio tantissimo.

P. K.: Ma non lo sapete, lo sapete che io scrivo meno volentieri per voi studiosi, io preferisco scrivere per la gente comune, perché quando scrivo per studiosi dico peccato, io voglio scrivere per la gente comune, perché quando scrivo per voi io dico che rimane tra di voi, quando ho scritto Nonno Dio e gli spiriti danzanti l’hanno apprezzato tutti gli studiosi. Però ho detto peccato, allora non ho raggiunto il mio obiettivo perché io non volevo scrivere solo per degli studiosi.

S. P.: Eh, ma adesso se ne parla, ho capito quello che vuoi dire. D’altra parte ora all’estero c’è molto più interesse che in Italia. In Italia al momento mi sembra ci sia meno interesse per questi temi.

P. K.: Mi piacerebbe di più scrivere per la gente comune, ecco quello che voglio dire. E c’era più all’estero ecco che non in questo momento dobbiamo prendere quello che viene, magari ritorneranno momenti migliori. Ora le priorità sono altre, con questa guerra, e quindi anzi adesso sicuramente ci sarà l’ondata di scrittori ucraini, vedrai, tutti tradurranno gli scrittori ucraini.

S. P.: Eh grazie ancora, buona giornata, grazie veramente, complimenti per tutto. Sei come un amico, anche se di persona non ci siamo visti. Ti considero un amico, come considero mie grandi amiche Kaha e Cristina, e quindi è anche la mia famiglia, quella.

P. K.: Cristina è una ragazza molto carina, l’ho fatta invitare per un viaggio a Conakry, nella Repubblica di Guinea. Sì, abbiamo fatto delle conferenze molto belle lì in francese.

Bene, benissimo a presto e grazie ancora e buona serata!

S. P.: Grazie Ciao Ciao Pap, Ciao Ciao Ciao. A presto arrivederci.

Nota biografica

Pap Khouma, di origine senegalese, vive a Milano, dove si è sempre occupato di cultura e di letteratura, attraverso numerose e svariate esperienze. Per dodici anni ha girato l’Italia, invitato da scuole di diverso ordine e grado a svolgere ‹lezioni› sulla storia e la cultura africana, e sui temi della multiculturalità. Per conto dei Provveditorati agli Studi ha tenuto corsi di aggiornamento per insegnanti sull’integrazione, e per tre anni (1991–1994) ha insegnato italiano agli stranieri nei corsi di alfabetizzazione del Comune di Milano. Ha partecipato come relatore a numerosi convegni nazionali e internazionali, presso le maggiori università italiane (Milano, Roma, Bologna), sui grandi temi dell’immigrazione, della cultura e della letteratura, e nel 1998 è stato invitato a svolgere un ciclo di conferenze negli Stati Uniti (Africa/Italy: an interdisciplinary international symposium, Miami University, Oxford, Ohio; Immigration et intégration, Sénégal/ Italy/ France, Northwestern University of Chicago; Società multiculturale, Queen’s College of New York; Letteratura degli immigrati in Italia, Casa italiana of New York University). Dal 1990, quasi annualmente, si è occupato, per conto di centri studi, organizzazioni non governative e amministrazioni comunali e provinciali, di ricerche e approfondimenti, con relative pubblicazioni, sui temi già citati. Ha lavorato come responsabile della ‹libreria del viaggiatore› all’interno del Megastore B612 di via Muratori a Milano, e ha partecipato alla progettazione e all’ideazione della stessa, prendendo personalmente i contatti e i successivi accordi con le maggiori case editrici nazionali. Lavora ora presso la libreria FNAC di Milano, dove si occupa in particolare del reparto libri in lingua originale.

Iscritto all’Albo dei giornalisti stranieri dal 1994, per quattro anni (1991–1995) ha firmato una rubrica su Linus, e ha collaborato con l’ Unità, Il Diario, Epoca, Sette, Metro. Ha pubblicato Io, venditore di elefanti (insieme al giornalista e scrittore Oreste Pivetta, Garzanti ed. 1990), giunto oggi all’ottava edizione, adottato da molte scuole come libro di testo, e i cui brani sono inseriti in numerose antologie scolastiche, ed è stato curatore e coautore del libro Nato in Senegal immigrato in Italia (Ambiente ed. 1994).

Bibliografia:

Pap Khouma, Io venditore di elefanti, Milano, Baldini Castoldi, 1990

Pap Khouma, Nonno Dio e gli spiriti danzanti, Milano, Baldini Castoldi, 2005

Pap Khouma, Noi italiani neri, Milano, Baldini Castoldi, 2010

Pap Khouma, Ventimila Viventi sotto il Mar Mediterraneo, 2021

 

  1. Intervista telefonica rilasciata dall’autore Pap Khouma in data 17.5.2022. Ho volutamente mantenuto il tono colloquiale.