La Tensione tra macro e microstoria nelle narrazioni d’impronta storica di Marta Morazzoni

• Meta Lenart Perger1


PID: http://hdl.handle.net/0000-0007-F98E-1

«È una parte della miseria dell’uomo il non poter conoscere se non qualcosa di ciò che è stato, anche nel suo piccolo mondo; ed è una parte della sua nobiltà e della sua forza il poter congetturare al di là di quello che può sapere.»
(Alessandro Manzoni, Del romanzo storico)2

L’inesauribile interesse per la storia

Nel summenzionato studio sul romanzo storico Alessandro Manzoni crea delle fondamenta per quella che più tardi diventerà la polemica sul romanzo storico, sul modo di scrivere la storia e soprattutto sul problematico statuto della storia nell’ambito della letteratura. Manzoni mette in luce, tra l’altro, il problematico rapporto tra storiografia e romanzo storico nonché tra verità storica (verificata o verificabile) e invenzione ovvero riflette sul ricorso del romanziere a congetture nel processo della scrittura del romanzo storico. Manzoni rimarrà il punto di riferimento nelle riflessioni sul rapporto tra storiografia e letteratura anche nel Novecento, e in particolare negli ultimi due decenni del secolo, quando si osserva un vero e proprio revival del romanzo storico e quando più che mai si nota, nell’opera di numerosi narratori, un interesse per la storia. Il rapporto tra storiografia e letteratura viene analizzato in quegli anni anche sul terreno teorico: Linda Hutcheon3 e Hayden White, tra gli altri, mettono in discussione appunto questo rapporto e osservano come la barriera tra storia e letteratura diventi sempre meno netta. In molti narratori si nota una distanza da visioni certe e monoprospettiche della realtà, posizione segnalata spesso dall’uso della parodia, che tende a rendere esplicito il dubbio sul concetto di verità e rompe, appunto, delle rigide barriere tra storiografia e letteratura; altre volte tale posizione è messa in rilievo, invece, da strategie orientate, appunto, a sottolineare l’operazione di costruzione ipotetica della storia e l’uso obbligatorio dell’immaginazione in tale operazione. In numerosi romanzi pubblicati in Italia a partire dagli anni Ottanta si può subito percepire una vera e propria voglia di storia; non a caso si parla spesso, per quella fase, in termini di «rinascita del romanzo storico».4 Fin troppo spesso si è associata tale produzione al postmodernismo letterario, ma nel caso della letteratura italiana sarebbe inappropriato ricondurre esclusivamente sotto l’estetica postmodernista il gran numero di narratori d’epoca postmoderna dedicatisi al genere ‹riscoperto› e alla narrativa breve d’argomento storico.

È in quel clima di riscoperta letteraria della storia che inizia il cammino di narratrice di Marta Morazzoni5, una scrittrice che, benché calata nell’episteme postmoderna, non abbraccia pienamente, nelle sue opere, la tendenza stilistica del postmodernismo. Evita, infatti, forme di ostentata metanarrazione e addirittura riprende alcuni motivi e strategie frequenti nella prosa dei modernisti, in particolare la ricerca di una forte dimensione psicologica del narrato con una preferenza quindi per un discorso basato sulla riflessione piuttosto che sull’azione. La sua visione della storia nonché la ragione per cui sceglie argomenti storici sono del tutto diverse da quelle degli esponenti più noti di quel periodo e nei cui romanzi la storia tende a diventare uno specchio dell’attualità vuoi in forma parodica (come nell’opera di Luigi Malerba), vuoi in forma allegorica (come nell’opera di Vincenzo Consolo). Nella narrativa della Morazzoni quel motivo resta semmai connesso a riflessioni di tipo esistenziale. Ciò non esclude che la scrittrice si vieti al contempo riflessioni di carattere metaletterario, solo non vi assegna quella centralità che troviamo invece in narratori di tendenza manifestamente postmodernista.

Le riflessioni di tipo esistenziale, la dimensione psicologica del narrato, le descrizioni minuziose di spazi di alta allusività e infine l’interesse per la dimensione microstorica sono i punti di contatto delle prime due opere di Marta Morazzoni: la raccolta La ragazza col turbante del 1986 e il romanzo breve L’invenzione della verità del 1988, che rimangono, anche al confronto con altri lavori di qualità della scrittrice, le opere chiavi per comprenderne la poetica. In entrambi i lavori, infatti, la storia viene interrogata alla luce dell’esperienza del singolo, viene affrontata cioè dalla prospettiva del pensiero postmoderno che mette in dubbio appunto quelle versioni proposte dalla storiografia ufficiale in cui le vicende dei singoli tendono ad essere trascurate, dimenticate o addirittura messe a tacere.

Il rapporto tra storia e individuo: la dimensione macro e microstorica del narrato

Nel romanzo storico scritto da un approccio epistemologico postmoderno, in cui l’invenzione romanzesca viene sempre più spesso intesa come analoga alla verità storica e in cui acquistano validità molteplici interpretazioni della storia, più che agli eventi storici stessi (limitati spesso al solo background della vicenda) e alla loro (ri)valutazione, lo sguardo del romanziere è rivolto al modo di comprendere gli eventi storici da parte di singoli gruppi o di singoli soggetti. Questo passo sembra logico, poiché «il centro del discorso romanzesco è sempre l’uomo, e il suo problematico, misterioso rapporto con gli altri uomini e con i “fatti”, siano essi interni (la coscienza), o esterni (la Storia, il mondo).»6 Ciò che diventa importante, dunque, è la storia dei singoli, ragion per cui anche nell’ambito della letteratura penetra il concetto di microstoria,7 espressione che indica quell’approccio di avvicinamento alla storia di piccoli gruppi, comunità e singoli individui, che è in pieno contrasto con la macrostoria ovvero «la Grande Storia cioè la storia raccontata come se fosse fatta unicamente di macroeventi e da grossi personaggi».8 Si tratta di un vero e proprio rovesciamento di prospettiva: mentre la macrostoria offre la visione globale di un certo periodo storico con i suoi eventi e personaggi illustri, la microstoria va in cerca di personaggi minori «per mettere in discussione la visione globale di un certo periodo storico».9 Si scontra spesso però, in questo procedimento, con una doppia scommessa di natura epistemica ed etica, come osserva Luca Pocci. Mentre seguendo l’approccio macrostorico si corre il rischio di sacrificare il particolare al generale (a vantaggio del secondo), abbracciando l’altro si rischia di isolare il singolo particolare senza riuscire a collegarlo al contesto generale. A questo proposito Giovanni Levi, in uno dei suoi saggi, afferma che la microstoria cerca di non sacrificare la conoscenza dei singoli elementi a una generalizzazione più ampia, anzi accentua singole vite e singoli eventi. Allo stesso tempo cerca però di non rifiutare ogni forma di astrazione poiché fatti minimi e casi individuali servono a rivelare appunto fenomeni più generali.10 E in questo modo la storiografia contemporanea cercherebbe di trovare un equilibrio tra le due dimensioni – quella microstorica e quella macrostorica – che, compenetrandosi, rappresentano la struttura profonda della storia.

L’alternarsi di due diversi sguardi sulla storia, che funziona tra l’altro come meccanismo per evitare la tentazione di isolare le vicende dei singoli (isolamento che porterebbe inevitabilmente ad una concezione troppo riduzionista e semplificatoria della storia), è riconducibile a quanto scriveva, in termini cinematografici, Siegfried Kracauer, tracciando il rapporto tra il close-up (che indicherebbe la microstoria) e i long shots (che invece rappresentano, in quest’analogia, la dimensione macrostorica): queste due prospettive si alternano in modo da «rimettere in discussione la visione complessiva del processo storico attraverso eccezioni apparenti e cause di breve periodo».11 Un’altra felice analogia tra le due dimensioni della storia la troviamo all’inizio del saggio teorico di Manzoni Del romanzo storico, in cui l’autore, fingendo di parlare con il romanziere, contrappone una carta geografica, in cui si possono tracciare solo entità geografiche maggiori, a una carta topografica, nella quale tutto «è più particolarizzato […] e ci sono di più segnate anche le alture minori, e le disuguaglianze ancor meno sensibili del terreno, e i borri, le gore, i villaggi, le case isolate, le viottole».12 E accompagna questa comparazione anche con la raccomandazione di non limitarsi, nel mondo della finzione, ai soli fatti politici e militari, bensì di presentare lo «stato dell’umanità in un tempo, in un luogo, naturalmente più circoscritto di quello di cui si distendono ordinariamente i lavori di storia […]».13

Quest’osservazione riassume bene la prosa d’argomento storico di Marta Morazzoni che nella sua narrativa sembra voler sottolineare proprio quello «stato dell’umanità» in un tempo e luogo più circoscritti di cui parla Manzoni. Alla Morazzoni non interessa «la storia che trova conferma nei documenti e nei fatti»14 né quella dei grandi eventi storici (che usa, semmai, solo come sfondo per le vicende di cui narra) bensì i sentimenti e le reazioni che tali eventi scatenano nei suoi personaggi. Anche questi, a loro volta, per lo più non raffigurano personalità illustri; rappresentano piuttosto degli individui di una data società in una certa epoca che passarono inosservati attraverso la storia (o che furono del tutto dimenticati). In alcuni casi la scrittrice sceglie come protagonista dei suoi lavori una figura storica che fu vicina a un personaggio illustre ma il cui nome venne poi dimenticato (o sepolto negli archivi). Questa scelta fa sì che, nei suoi testi, il narratore assuma un angolo di vista del tutto particolare: da una parte può svelare la visione di un personaggio storico illustre dalla prospettiva di un personaggio marginale (la cui visione però, nella finzione letteraria, apporta delle osservazioni più sincere sul primo e sul momento storico di cui parla la vicenda), mentre dall’altra può esplorare il mondo interiore e i valori di un singolo che rappresenta una persona ordinaria in una data epoca, e farci capire, tramite questa dimensione, la concezione di un certo evento storico attraverso gli occhi di un personaggio-testimone. A differenza di molti altri romanzi storici italiani, nella prosa d’argomento storico della Morazzoni non si nota un conflitto tra vinti e vincitori, tra vittime e giustizieri. Lo scopo della scrittrice, infatti, non è posizionarsi dalla parte delle vittime o presentare la vicenda di un personaggio ‹taciuto› dalla Grande Storia perché trovatosi dalla parte ‹sbagliata›, come si osserva in molti casi di romanzo storico, e in particolare in ambito italiano.15 Come sostiene Gigliola De Donato, il romanzo storico italiano, infatti, si caratterizza spesso per un interesse verso gli umili; il loro tratto distintivo sarebbe «una visione creaturale, propria delle vittime della storia ufficiale che le travalica e le stritola, azzerandone la storia (quella vera e individuale) nell’anonimato di coloro che non hanno voce».16 La Morazzoni, al contrario, sembra voler evitare conclusioni di questo tipo come pure una ricerca di ragioni per tali conclusioni; quello che invece le interessa è la percezione della storia da parte del singolo con tutte le sue sfumature psicologiche che una tale prospettiva comporta: una preferenza per la dimensione microstorica, insomma, che Maria Ornella Marotti le riconosce quando pone i racconti storici morazzoniani (ma sarebbero altrettanto collocabili in questa categoria anche i suoi romanzi storici) «in una zona “intermedia” tra la narrazione storica “soggettiva” […] e la narrazione storica “marginale”»17 sottolineando così il carattere essenzialmente microstorico dell’opera d’argomento storico di questa scrittrice.

Per evidenziare le caratteristiche formali concernenti questa preferenza e mostrare anche la tensione che viene a crearsi tra macro e microstoria nell’opera morazzoniana, si è deciso di prendere in esame, qui, due opere che ne danno atto nel modo migliore: il racconto La ragazza col turbante, che fa parte dell’omonima raccolta e il romanzo breve L’invenzione della verità.

Il co-protagonismo degli oggetti d’arte nella narrazione microstorica

Prima di passare a confrontarci con quei due lavori può essere utile premettere cosa dica la Morazzoni stessa sul proprio approccio al personaggio storico. Nella sua opera intitolata La città del desiderio: Amsterdam in cui la scrittrice descrive i sentimenti da lei vissuti durante le sue visite alla capitale olandese e ne richiama alla memoria edifici e personalità che in un modo o l’altro suscitarono il suo interesse, troviamo anche una riflessione metanarrativa sulla costruzione del personaggio storico:

Consideravo che non avesse senso mettersi nell’impresa di una biografia intorno a un personaggio tanto defilato [Jan Vermeer], e ancora meno senso avrebbe avuto un romanzo sulla sua vita, animarne la storia e fargli dire, come si usa e si deve in questi casi, parole che non aveva mai detto e mettermi in mente una voce e una intonazione che non avevo mai sentito, figurandomi quella inflessione gutturale e sporca che è la lingua olandese. […] Sicché, oltre a fargli dire quello che con tutta probabilità non aveva mai detto, mi sarei dovuta figurare anche una faccia che non avevo mai visto.18

Poco più avanti, alla stessa pagina, viene svelato come le era nata l’idea per il racconto La ragazza col turbante, racconto ispirato senza dubbio al famoso quadro di Jan Vermeer. Visto che scrivere di una grande personalità le pareva un’impresa insensata, la scrittrice decise di focalizzare l’attenzione su personaggi storici meno noti, ma vicini alla figura di Vermeer.

[…] era un ritratto di un bel borghese di Amsterdam, tale signor Nicolaes Bruyningh, procuratore d’affari ben più noto e rappresentato e rappresentativo del maestro di Leida. Fu un buon veicolo per parlare della mia ossessionata passione per Jan Vermeer, che volevo rimanesse nell’ombra della sua opera, mentre lui, il biondo mercante diventava nella mia fantasia il messaggero della sola cosa che, ci scommetto, Vermeer avrebbe voluto che si ricordasse di lui, i suoi quadri.19

Riflettendo sulla propria passione per la vita e i dipinti del pittore olandese e introducendo pure alcune riflessioni di natura metanarrativa, l’autrice de La città del desiderio (e tenace visitatrice della terra olandese) d’improvviso, e forse involontariamente, ci introduce alla genesi di uno dei suoi racconti d’esordio, La ragazza col turbante. Nei passi sopra citati è molto chiaro il motivo della scelta di un personaggio storico marginale (benché il suo vero interesse fosse per il noto pittore): adottare come protagonista un personaggio «ad anagrafe debole, vale a dire non gravato dall’ipoteca della nostra conoscenza preliminare»20 le avrebbe permesso, infatti, di mettere al centro d’attenzione il quadro più famoso del pittore. Allo stesso tempo le avrebbe dato la possibilità di riflettere sui sentimenti che il quadro di Vermeer suscita nei posteri scegliendo un angolo di vista capace di offrire una visione alternativa della storia: una visione microstorica, appunto,21 nutrita anche da un’immaginazione da scrittrice che «coglie intuitivamente la verità».22

In uno stile classicheggiante che si richiama a quello del Manzoni («auctor» che a giudizio della stessa Morazzoni lascia una impronta nella sua scrittura23, l’autrice ci introduce alla vicenda del mercante olandese che intraprende il cammino verso la Danimarca per vendere il famoso quadro di Vermeer. Il nome del protagonista del racconto non è quello del famoso «borghese di Amsterdam» che la scrittrice vide raffigurato nel ritratto in questione24 in una galleria, è invece un nome di persona tipico dei Paesi Bassi: Bernhard Van Rijk. Questa scelta si spiega forse proprio con la volontà dell’autrice di raccontare la storia di un individuo qualunque vissuto nel movimentato Seicento olandese. Nel testo i dati sulla identità di questo personaggio sono limitati: la vicenda vuole questo messer Bernhard Van Rijk «commerciante di quadri [che] trattava con i migliori artisti d’Olanda e le sue relazioni si estendevano fino alla nobiltà delle lontane corti del nord».25 Tali dati si leggono come un’epigrafe, anche perché vengono riferiti dalla prospettiva di suo figlio, Jan Van Rijk, proprio all’inizio del racconto. Dell’identità di questo Bernhard nel seguito non si parla più; si presta attenzione, invece, alle sensazioni che il quadro che portava con sé suscitava in lui e alle emozioni da lui vissute durante quel faticoso viaggio compiuto in un momento particolare di vita: quando aspettava il suo primogenito.

Il racconto introduce sia dei dati precisi che rimandano a referenti reali, sia dei dati più vaghi: alcuni spazi ben definiti (la città di Scheveningen, il porto di Holbaek) e precise indicazioni di tempo (la vicenda del viaggio è calata nel 1658) si scontrano con dei fatti puramente fittizi26 e con indicazioni che rimandano al tempo interiore che si pretende vissuto dai personaggi. È questa dimensione psicologica, la capacità di evocare e tradurre in letteratura i sentimenti più profondi dell’essere umano, che definiscono la scrittura della Morazzoni e rivelano la sua preferenza per una narrazione (micro)storica. Da tale ottica non sono i grandi eventi della storia a modellare l’uomo, è l’uomo che costruisce la storia tramite il modo di vivere il suo tempo. Quest’aspetto allontana la scrittrice da altre tendenze narrative di approccio alla storia osservabili in Italia negli ultimi decenni del Novecento, come osserva anche Andrea Gialloreto nel caso dell'opera La ragzza col turbante:

[…] il passato è rievocato nei tratti che più si prestano a rivelare quanto di una civiltà, di un costume di vita codificato possa trasfondersi nell’intimo dell’uomo che ne vive la quotidianità fino a risultare come imbevuto dell’essenza del tempo: Morazzoni attua un’operazione gnoseologica, in netta antitesi con certe mode correnti che fanno del racconto storico una congerie di informazione erudita e di strampalati accadimenti che ammiccano al presente.27

La storia, infatti, entra solo di striscio in questo racconto d’invenzione d’impostazione psicologica attraverso il richiamo al celebre pittore olandese e a uno dei suoi dipinti più noti. Qualcosa di analogo è osservabile anche in altri testi della scrittrice, e anche in quei casi sono soprattutto le biografie di singole personalità a costituire per lei dei referenti storici, non accadimenti di carattere politico e sociale.

Più che da una vera e propria azione questo racconto è mosso dalle sottili emozioni che si legano al viaggio del protagonista,28 vale a dire alla decisione di partire per un paese lontano e sconosciuto, all’insicurezza dell’affare, ma soprattutto alla separazione dal quadro che per costui ha un valore eccezionale. L’affezione che il mercante sente per quel dipinto è al limite del normale: essa smaterializza tale oggetto, lo personifica, lo rende addirittura il co-protagonista della vicenda. In alcuni passi del racconto si ha infatti la sensazione che Bernhard Van Rijk abbia un ruolo nella vicenda al solo scopo di esaltare il vero protagonista della vicenda cioè il quadro ovvero il ritratto della giovane donna. È questo, infatti, che suscita nel mercante sentimenti di devozione al limite dell’innamoramento («Solo messer Bernhard, guardandolo ogni sera prima di coricarsi nel grande letto dove dormiva da solo, lo gratificava di una gelosa, paterna tenerezza.»29), mentre in sua moglie, cosciente di sentimenti che il marito provava per quel quadro, svegliava fastidio e addirittura gelosia («[...] non era affatto innaturale che la signora Van Rijk si sorprendesse, talvolta, a considerare con una sorta di segreto astio la presenza di quel dipinto in casa».30 Ospite del signor Herfølge, in Danimarca, il mercante conosce la figlia di costui, Arianna, che gli ricorda, per diversi aspetti, la ragazza ritratta. Il nome proprio della signorina Herfølge potrebbe intendersi anche in termini simbolici: è lei, come l’Arianna del mito greco, a guidare il protagonista nel suo labirinto di sentimenti fino al momento in cui ne uscirà salvo, e forse proprio grazie al quadro, che in modo singolare collega i due destini. Così si potrebbe interpretare la lettera che chiude il racconto, lettera scritta (così si pretende) da Arianna molti anni dopo e indirizzata al figlio di Van Rijk:

Sappiate che messer Bernhard, poco prima della vostra nascita, fu ospite nella casa di mio padre a cui portò un quadro che ancora considero il più prezioso tra le opere che abbiamo raccolto nel corso degli anni. […] Non so se e quanto siete a conoscenza del valore della tela: il soggetto è un volto di donna ritratto di tre quarti, il capo è fasciato da un turbante e ha una perla all’orecchio.31

Questa minuziosa descrizione del quadro della signora Arianna che nell’immaginazione romanzesca avrebbe posseduto il quadro per ultima, concede al dipinto l’innegabile ruolo di (co)protagonista – il ruolo che la scrittrice, in omaggio al pittore di Delft, voleva dargli. Allo stesso tempo la sua scelta di rendere omaggio a un’espressione artistica gettava i presupposti per la sua opera successiva32 in cui la riflessione sulla storia s’intreccia appunto con quella sull’arte. Fare riferimento a delle opere d’arte e assieme di mirabile lavoro artigianale le avrebbe permesso di evocare il passato e di parlare anche per bocca di quelli che erano passati per la storia senza potersi esprimere che artisticamente.

Il rapporto tra verità e finzione nelle vicende microstoriche

La storia funziona da generatore di un racconto d’invenzione anche in un’altra opera significativa di Marta Morazzoni, L’invenzione della verità. L’intreccio di questo breve romanzo è costituito dall’alternarsi di episodi concernenti due vicende avvenute in epoche diverse: la prima narra un evento della vita di Anna Elisabetta, una delle pretese ricamatrici del magnifico arazzo di Bayeaux, l’altra, temporalmente situata nel Ottocento, racconta dell’anziano John Ruskin che ritorna in età matura ad Amiens per vedere per l’ultima volta l’amata cattedrale gotica. A prima vista le due storie si potrebbero leggere indipendentemente, poiché le vicende, almeno dal punto di vista temporale, non sono collegate tra loro. La loro convergenza avviene però sul piano simbolico e metaforico. Nonostante i secoli di differenza tra gli eventi narrati, esiste infatti una lingua comune, atemporale, capace di collegarli, e questa è l’arte. L’opera artistica, infatti, anche qui, come già nella prima opera, della Morazzoni, acquisisce un ruolo rilevante di chiave alla conoscenza di sé e di ciò con cui ci si interroga (ovvero si interrogano i suoi personaggi).33

Come nella sua opera d’esordio, anche qui l’autrice si propone di scegliere due eventi non sfiorati dalla storia ufficiale, la creazione di un eccezionale arazzo a Bayeaux e l’ultimo viaggio di Ruskin ad Amiens per rivederne la cattedrale, e di proporre, tramite un lavoro di immaginazione puntellato da riflessioni su due opere d’arte, non una storia alternativa, bensì una prospettiva diversa su tali eventi. L’opera d’arte acquisisce così nel testo una doppia funzione: è lo spunto per la genesi di due vicende calate nel passato e, per il lettore come pure per i personaggi, funziona da chiave di lettura simbolico-metaforica dell’accadere, chiave che permette, appunto, di vedere le cose al di là della storia ufficiale ma anche al di là della realtà vissuta.

Marta Morazzoni è consapevole di scegliere, soprattutto nel caso della vicenda della giovane ricamatrice, un argomento della microstoria situabile al limite dell’immaginazione. Ce lo fa capire attraverso un incipit fiabesco, fingendo altresì di aver sentito una storia su quanto intende raccontare, motivo che funziona nel testo come il manoscritto ritrovato di Manzoni:

Si racconta che una volta, in una corte minore della Francia, a nord, per un periodo alquanto lungo si raccogliessero ricamatrici esperte. Non è rimasta testimonianza di alcun bando ufficiale promulgato in merito, o di messaggi inviati di regione in regione a sollecitare una tale quieta migrazione di donne. Di fatto la migrazione avvenne, si direbbe tramandata, raccomandata di bocca in bocca come un richiamo […].34

A rendere questo romanzo esistenziale a sfondo storico un’opera di qualità è anche la capacità dell’autrice di rievocare un fatto storico ben conosciuto della storia ufficiale, la battaglia di Hastings (la vicenda raccontata per immagini sulla grande tela di Bayeaux) a partire da un contesto microstorico. Le riesce, cioè, di collegare una vicenda individuale «con il contesto generale»,35 senza isolare la prima, che è il rischio a cui, secondo Pocci, va incontro chi si misura con la microstoria. In questa ricerca di equilibrio tra macro e microstoria, l’autrice cerca una scrittura comprensibile da tutti, e lo lascia dire, nel romanzo, per bocca della regina che si fece promotrice dell’arazzo. Nelle intenzioni di quest’ultima quella tela ricamata avrebbe dovuto essere, infatti, «una scrittura leggibile a tutti, e tutti vi si sarebbero accostati con emozione, commozione», «un libro universale, da cui nessuna lingua fosse esclusa, a cui nessun orecchio rimanesse sordo».36 Inoltre, di tanto in tanto Morazzoni introduce nel testo delle metafore di natura metanarrativa37 che fanno riferimento proprio al processo di scrittura d’argomento storico. La sua ricamatrice «doveva contentarsi di lavorare di fantasia davanti alla lunga tela bianca»38 e doveva possedere «la natura del segno tracciato per restituirgli con la forma una parvenza di vita, ma anche più di una parvenza, talvolta la vita stessa»39. Quest’ultima osservazione, se letta in chiave simbolica, sembra ‹tradire› l’obiettivo dell’autrice: quello di dare vita, appunto, alle vicende di singole persone e di delineare la storia tramite sentimenti da loro vissuti, di umanizzare la storia, insomma.

Nel processo di scrittura di un’opera d’impronta storica è sempre messo in questione anche il rapporto tra verità e finzione, rapporto su cui l’autrice de L’invenzione della verità invita a riflettere tramite lo stesso titolo del romanzo: e vi è, infatti, nel testo, sempre ‹sospeso nell’aria› l’accenno al problematico legame tra questi due concetti che nel postmoderno, soprattutto alla luce di quanto sostenuto della Hutcheon, diventa meno rigido. Nel caso dell’opera di Marta Morazzoni, osserva Della Coletta, l’invenzione diventa un modo per colmare le lacune dei documenti di archivio e raccontare le storie di coloro che non avevano voce nel mondo della storia.40 Sullo sfondo della storia ufficiale la scrittrice, infatti, costruisce una vicenda microstorica in cui dà spazio, appunto, alla riflessione sul rapporto tra verità e invenzione. Nel romanzo tale questione è riassunta nella citazione di Ruskin che chiude la narrazione: «Si possono immaginare cose false, e comporre cose false; ma solo la verità può essere inventata»41 e che, ipoteticamente, potrebbe rappresentare il filo rosso della narrazione – concorde con la lezione della Hutcheon, l’invenzione è tanto credibile quanto lo è la presupposta verità della storia ufficiale. Ma è da rilevare in questo contesto anche l’osservazione della Heyer-Caput sull’ipoteca heideggeriana di Marta Morazzoni per cui la verità che viene questionata nelle sue opere potrebbe ricondurre proprio al saggio di Heidegger Sein und Zeit (1927, it.: Essere e tempo), in cui la verità è intesa come rivelazione. Allo stesso modo, osserva la studiosa, Morazzoni percepisce la verità nell’ambito della storia:

L’oggetto preesistente alla narrazione “al passato” di Marta Morazzoni è spesso un fatto storico la cui verità si ri-vela velandosi e svelandosi in un dialogo di luci ed ombre che spesso coinvolgono lettore e autore in un percorso ermeneutico che, in molti esempi, è illuminato dal segno artistico.42

Quest’osservazione coglie il senso dell’opera morazzoniana in generale, e del suo primo romanzo in particolare: L’invenzione della verità, infatti, coniuga in modo sottile e maestro, come nessun’altra sua opera, la storia e l’uomo (suo protagonista) con il segno artistico. La cattedrale gotica di Amiens e l’arazzo di Bayeaux sono in questo romanzo due oggetti artistici tramite cui si interroga la storia tracciando un’analogia tra l’accadere storico e il farsi di un tessuto: «A identica distanza da un punto X di convergenza, una cattedrale e un tappeto rivelano la stessa natura di elaborazione, un’identica trama di supporti, fili sottili e pesanti pilastri tesi a sostenere volteggi audaci».43 L’altra metafora, ma riferita alla storia di una vita e solo in modo meno evidente alla storia, è quella del labirinto che, come nell’opera di Borges, ha grande valore allusivo. È proprio con l’immagine del labirinto che si conclude il romanzo:

Quello che il labirinto di per sé significa non richiede nessuna arte divinatoria o intelligenza di interpretazione: è scritto tra le righe della vita di qualsiasi uomo e sottende una verità al cui fondo sta la rivelazione della luce. È solo la questione di fedeltà. Le domande che accompagnano il percorso sono a volte inquietanti, inutili, come ipotesi senza fondamento, lontane anche dalla parvenza di verità. Del resto l’infedeltà percorre un identico labirinto e al fondo rimanda la stessa luce, questa però è solo il riflesso di uno specchio.44

Ritornando a quella tensione tra macro e microstoria che ha aperto questo lavoro, si può osservare anche nel paragrafo sopra citato come Morazzoni operi intenzionalmente a favore della microstoria, affrontando «domande inquietanti» e «ipotesi senza fondamenta» anziché frugare negli archivi in cerca di risposte. Quest’assenza di dialogo con il documento si può capire non solo come richiesta di spazio per l’immaginazione ma anche come espressione di una voglia di raccontare storie di personaggi marginali, a volte inventati ma sempre verosimili, tipici rappresentanti di un’epoca, messaggeri di valori umani generali, osservatori critici del loro momento storico ed esseri capaci di un continuo dialogo con il segno artistico. E queste sono, se tentiamo di comprendere le sue opere in chiave ermeneutica, le doti che continuamente rivelano la verità storica.

Bibliografia

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Della Coletta, Cristina: Plotting the Past. Metamorphoses of Historical Narrative in Modern Italian Fiction, West Lafayette: Purdue University Press, 1996.

Ganeri, Margherita: Il romanzo storico in Italia, Il dibattito critico delle origini al post-moderno, Lecce: Piero Manni, 1999.

Gialloreto, Andrea: «“Musica d’inverno”: la narrativa di Marta Morazzoni», Studi Medievali e Moderni, a. XVI, n. 1–2, 2012, pp. 309–340.

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Lavagetto, Mario: «Bugia/storia/finzione/verità», in: La scrittura e la storia: Problemi di storiografia letteraria, a cura di Alberto Asor Rosa, Firenze: La Nuova Italia, 1995, pp. 55–78.

Levi, Giovanni: «On Microhistory», in: New Perspectives on Historical Writing (2a edizione), a cura di Peter Burke, University Park, Pennsylvania: Penn State University Press, 2001, pp. 97–119.

Manzoni, Alessandro: Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione, edizione integrale, a cura di Enrico Ferraris, 2015.

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Morazzoni, Marta: L’invenzione della verità, Milano: Longanesi, 1999.

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Sciascia, Leonardo: La Sicilia come metafora: intervista di Marcelle Padovani, Milano: Mondadori, 1979.

 

  1. Università di Lubiana
  2. Manzoni, Alessandro, Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione, edizione integrale 2015.
  3. La teoria dell’autrice del termine «historiographic metafiction» è particolarmente importante per la nostra analisi, visto che la definizione della metafinzione storiografica riassume molto bene la scrittura di Marta Morazzoni: «[Historiographic metafiction] refuses the view that only history has a truth claim in historiography and by asserting that both history and fiction are discourses, human constructs, signifying systems, and both derive their major claim to truth from that identity.» (Hutcheon 1995: p. 93)
  4. Questo termine ampiamente usato nella critica letteraria secondo alcuni studiosi non è adatto, perché presuppone una previa morte. Secondo Remo Ceserani, questo genere invece non è mai morto, bensì ha visto un ininterrotto sviluppo fin dai suoi inizi: «La verità è che il romanzo storico, così come la narrazione storica, è sempre stato fra noi, in tante forme e versioni diverse, e non c’è bisogno di fare nomi per ricordare come esso abbia fatto parte integrante non solo dell’esperienza romantica e realistica, ma di tutta l’esperienza della modernità.» (Ceserani in Ganeri 1999: p. 112).
  5. Marta Morazzoni (1950) ha una formazione filosofica. È autrice di diverse opere narrative, per lo più d’argomento storico, e collabora a rubriche letterarie con articoli e recensioni. Si è imposta all’attenzione della critica con la raccolta di racconti La ragazza col turbante (1986) e il romanzo L’invenzione della verità (1988). Nel 1997 ha vinto il Premio Campiello per il romanzo Il caso Courrier e nel 2019 il Premio Chiara per la raccolta di racconti ispirati ai miti greci Il dono di Arianna. Nel 2018 le è stato assegnato il premio alla carriera della Fondazione Il Campiello. Tra le altre opere più importanti ricordiamo La nota segreta (2010) e Il fuoco di Jeanne (2014). Recentemente è uscito il suo romanzo storico-biografico sulla figura di Luisa Casati Stampa, Il rovescio dell’abito.
  6. Palumbo Mosca 2014: pp. 13–14.
  7. Il termine «microstoria» si è imposto in Italia già negli anni Settanta e Ottanta quando viene adottato da Carlo Ginzburg e Giovanni Levi, storici dedicatisi alla ricerca di questo fenomeno rispettivamente nell’ambito della storiografia e della letteratura, mentre più recentemente è stato oggetto di studio soprattutto da parte di Sigurður Gylfi Magnussón e István M. Szijártó.
  8. Pocci 2012: p. 229. Il corsivo è dell’originale.
  9. Ivi, p. 227.
  10. «Microhistory tries not to sacrifice knowledge of individual elements to wider generalization, and in fact it accentuates individual lives and events. But, at the same time, it tries not to reject all forms of abstraction since minimal facts and individual cases serve to reveal more general phenomena.» (Levi 2001: pp. 112–113; la traduzione è nostra.)
  11. Kracauer in Pocci 2012: p. 225.
  12. Manzoni, A., Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione, edizione integrale 2015.
  13. Idem.
  14. De Michelis 1990: p. 153.
  15. Anche nella sua opera Il fuoco di Jeanne (2014), testo di genere ibrido, storico-biografico, in cui la scrittrice affronta la vicenda della Giovanna d’Arco, il lettore si aspetterebbe una Giovanna d’Arco presentata come vittima. L’autrice, invece, non vuole schierarsi da alcuna parte ed evita conclusioni di qualsiasi natura. Le preme semmai sottolineare, sull’esempio di quella vicenda assurta in Francia a mito nazionale, le lacune che emergono nella versione ufficiale, ovvero le tensioni esistenti tra la storia ufficiale e altre possibili versioni.
  16. De Donato 1995: p. 69.
  17. Marotti in Heyer-Caput 2002: p. 62. La traduzione dall’inglese è nostra.
  18. Morazzoni 2006: pp. 17–18.
  19. Ivi, p. 18
  20. Lavagetto 1995: p. 69.
  21. Nell’intervista del 2014 la scrittrice stessa affermò che al momento di scrivere la raccolta La ragazza col turbante una delle sue figure di riferimento era appunto il noto pittore di Delft: «Il secondo racconto riguardava Lorenzo Daponte, e il terzo Vermeer, il pittore che in quel momento amavo di più. Raccontare, inventare storie attorno a questi personaggi costituiva il mio modo di relazionarmi con loro.» (http://blog.amicidellascala.it/intervista-marta-morazzoni/)
  22. «Va tuttavia precisato che lo scrittore non è […] né un filosofo né uno storico, ma solo qualcuno che coglie intuitivamente la verità.» (Sciascia 1979: p. 81)
  23. Cfr. Porzio in Heyer-Caput 2002: p. 63.
  24. Si tratta del quadro di Rembrandt, intitolato Ritratto di Nicolaes Bruyningh e custodito nella galleria del Palazzo Wilhelmshöhe, a Kassel.
  25. Morazzoni 2014: p. 71.
  26. Nella realtà, di quel dipinto a lungo, dopo la sua realizzazione, non si ebbe più traccia e sarebbe ricomparso in un’asta solo nel 1881, evento di cui si ha documentazione.
  27. Gialloreto 2012: p. 322.
  28. Si tratta di una caratteristica condivisibile con altri racconti della raccolta: anche in altri, infatti, si osserva una svolta nella vita così importante da costituire, in alcuni casi, addirittura il cronotopo. Questo fenomeno comune lo ha notato e ben riassunto anche Andrea Gialloreto: «[…] comune è […] la sensibilità dei protagonisti, tutti colti in un momento di sospensione dopo il quale il loro destino seguirà un diverso corso.» (Ivi, p. 323)
  29. Ivi, p. 75.
  30. Idem.
  31. Morazzoni 2014: pp. 115–116.
  32. Il romanzo L’invenzione della verità è stato pubblicato solo due anni dopo la raccolta La ragazza col turbante.
  33. Margherita Heyer-Caput riconosce come fondamentale nella narrativa della scrittrice «una profonda sollecitudine epistemologica a carattere storico in dialogo costante con il segno artistico» (Heyer-Caput 2002: p. 62).
  34. Morazzoni 1999: p. 7.
  35. Pocci 2012: p. 225.
  36. Morazzoni 1999: pp. 8–9. Le citazioni fanno parte delle riflessioni della regina (si suppone la regina Matilde) sull’elaborazione dell’arazzo.
  37. La metafora metanarrativa del tessuto ricamato rimanda inevitabilmente al racconto di Henry James, The Figure in the Carpet (1896).
  38. Ivi, p. 20.
  39. Ivi, p. 40.
  40. Della Coletta 1996: p. 15. La traduzione dall’inglese è nostra.
  41. Morazzoni 1999: p. 136.
  42. Heyer-Caput 2002: p. 64.
  43. Morazzoni 1999: pp. 55–56.
  44. Ivi, pp. 126–127.