L’ascolto come ponte. L’orecchio estetico.

· Luca Farulli ·

Per Georg.

PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-CA8D-7

1 Apertura

Niente può esser dato per scontato nel proporre l’ascolto come ponte. Costruzione in cui il movimento si rapprende in una forma solida, il ponte, secondo l’immagine classi­ca trasmessaci da Georg Simmel, è risultato di una azione guidata dall’espandersi «della sfera della volontà» umana sullo spazio1 ed è collegamento tra «finito e finito»2. Come una «linea tracciata tra due punti», il ponte «prescrive–schreibt vor», così, la direzione «incondizionata–unbedingt»3 di percorrenza tra i due punti, limitati e finiti, che esso congiunge. Applicare rigidamente od anche in via metaforica tale figura del ponte, semplicemente trasferendola dall’ambito visivo a quello uditivo, riduce l’ascolto ad un mero ponte audio, ad un collegamento tra punti di ascolto individuati, altri­menti distanti e separati, mancando di cogliere il momento di apertura, che l’ascolto comporta, al fuori-campo, alla potenza deviante del gracchiare della voce, alla tendenza ad andare oltre il contenuto del messaggio. L’ascolto comincia, invece, il suo lavoro proprio qui. Per coglierne la valenza specifica ed il suo potenziale, occorre prenderlo per una altra via, indiretta, ellittica, non frontale. Ancora Georg Simmel, non l’autore del saggio Ponte e porta, bensì quello dell’Excursus sulla sociologia dei sensi può for­nire materiale di riflessione utile, su cui avanzare, procedere oltre. Gli organi di senso «gettano ponti tra gli uomini»4, ovvero, essi, nel processo di Vergesellschaftung, co­struiscono relazioni reciproche, ognuno in modo specifico: il guardarsi negli occhi «per linea retta»5, nel caso dell’occhio; il cogliere dell’altro la dimensione temporale, il suo divenire, nel caso dell’orecchio. Non è però, ancora, questo l’elemento in grado di co­gliere il tratto specifico dell’ascolto come ponte. Altre indicazioni simmeliane sono d’ausilio. In particolare, la micro-fenomenologia dei comportamenti sensori, dei gesti che attivano il comportamento relazionale degli organi di senso, la quale porta a luce il fatto che il mondo dei sensi ha una propria genealogia, una propria provenienza so­ciale ed un divenire. Con il processo di «raffinamento della civiltà» l’acutezza degli organi di senso decresce, a fronte di un loro farsi ‹estetici›, ovvero, più sensibili alla va­lutazione del «piacere e dispiacere»6. Per definire l’ascolto come ponte occorre proprio procedere a partire da questo processo abbozzato da Simmel, oltrepassandolo. Nella nostra ottica, estetico è l’orecchio che ascolta, non tanto perché si è fatto sensibile al piacere e dispiacere, quanto, piuttosto, perché, sganciandosi dalla mera funzione cono­scitiva-riconoscitiva, esso è guidato da un comportamento esplorativo e non prescrit­tivo o imperativo, cioè, pluriverso e non monodirezionale, informale e, in certa misura, senza scopo. Ecco, quale è per noi, il nodo delle questioni. L’ascolto è, così, non più l’analogo, l’equivalente audio di un ponte visivo: collegamento da punto a punto, da ba­se a base. Esso indica, invece, un comportamento dell’orecchio, una dimensione di esperienza non legata all’espandersi lineare e progressivo della «volontà umana»7 sullo spazio ma, piuttosto, atmosferica, diffusa ed orizzontale, caratterizzata dal saggiare e perlustrare, per così dire, agonale senza conflitto, costantemente rinviata alla contratta­zione da pattuire nell’essere in relazione reciproca, affrontando, così, quella che Italo Calvino ha definito la «sfida al labirinto»8, del variegato mondo della vita, estraneo al mondo scritto ma rinviato, sempre, a cercare una nuova modalità di scrittura, di rela­zione, di forma. In questo senso, l’orecchio estetico dell’ascolto esce dall’orizzonte contemplativo, restituendo, per così dire, tatto alla vista.

Nello sviluppare il nostro discorso, prendiamo le mosse da due proposte di riflessio­ne in merito all’ascolto. Da un lato, quella elaborata da Roland Barthes e Roland Havas nel saggio Ascolto, comparso nel 1976 come lemma nell’Enciclopedia Einaudi; dall’al­tro, quella formulata da Italo Calvino attraverso il racconto Un re in ascolto, composto nel 1984, al termine di una lunga gestazione avviatasi sin dal 1977, e pubblicato, postu­mo, in Sotto il sole giaguaro: raccolta conosciuta anche sotto la denominazione di Racconti per «I cinque sensi». La spinta decisiva ad una lettura in contrappunto delle due proposte è costituita, non ultima, dal fatto, che lo scrittore italiano, nell’elabora­re il suo racconto, prende le mosse proprio dal saggio scritto dai due pensatori francesi, elaborando, così, un racconto-saggio.

2 Tema

Nell’affrontare la costellazione di posizioni qui indicate, in modo tale che esse si illumi­nino vicendevolmente, prendiamo le mosse dal contributo elaborato da Barthes e Ha­vas sull’ascolto, in ragione della strategia attivata dai due pensatori francesi, per indivi­duare il nucleo distintivo dell’ascolto. Al fine di cogliere il processo in mutazione dell’ascolto, per restituire il concetto al suo campo d’insorgenza costituito dall’ascoltare, Barthes e Havas decidono di partire dai fenomeni, o meglio, dagli oggetti d’ascolto con cui l’orecchio umano entra in relazione che, di volta in volta, scopre: «L’ascolto […] può esser definito soltanto dal suo oggetto, ovvero, se si preferisce, dal suo obiettivo».9 Scegliere tale strada permette non solo di cogliere l’ascolto come un processo in via di definizione del rapporto uomo–mondo della vita – un processo, fatto di stratificazione di intenzioni, di comportamenti e modalità di ascolto diversi –, ma soprattutto con­sente di individuare tutto quello che l’ascolto può: sino al grado che possiamo chiamare utopico, radicale, di ascolto «attivo»10, il quale è esonero da ogni forma di ascolto obbligato e disposizione ad un ascolto libero, in qualche modo, informale: non esiste alcuna legge che «possa costringere ad ascoltare»11. L’ascoltare, così come il tacere si fa attivo, è esercizio di resistenza e rinnovamento. In questo senso, il passo-chiave dello scritto di Barthes e Havas risulta essere il seguente:

Si crede che per liberare l’ascolto basti prendere la parola, quando invece un ascolto libero è essen­zialmente un ascolto che circola e scambia, che disgrega, con la sua mobilità, la rete rigida dei ruoli di parola. Non è possibile immaginare una società libera, se si accetta che in essa siano mantenuti gli antichi luoghi dell’ascolto: quelli del credente, del discepolo, del paziente.12

Tre sono le figure, le modalità e tipologie di ascolto individuate dai due pensatori fran­cesi.

La prima è l’alerte, ovvero, il comportamento attentivo che l’uomo rivolge «verso gli indizi»: una sorta di risposta alle informazioni sonore, con l’orecchio dritto come una fiera. «Il lupo ascolta quello che potrebbe essere il rumore di una preda, la lepre quello di un aggressore; il bimbo, l’innamorato ascoltano i passi di chi si avvicina e che forse sono quelli della madre o dell’essere amato.»13 Tale appropriazione sonora dello spazio contiene un grado di fatica d’intelligenza a livello primordiale, una valutazione situa­zionale interna ad un ambiente, una selezione per comprendere, la quale segnala un primo livello di relazione con il multiverso ambito della vita. L’ascolto come «attenzio­ne ‹preliminare›, che consente di captare tutto ciò che potrebbe alterare il sistema territoriale», è difesa dalla sorpresa, una sorta di verifica di buon funzionamento, di controllo come forma di relazione con l’ambiente vitale: il suo oggetto, infatti, è la minaccia od il bisogno; il suo materiale è costituito dall’indizio, «sia che segnali un pe­ricolo, sia che prometta un appagamento»14.

La seconda figura d’ascolto è costituita, invece, dal déchiffrement: «Quel che si cerca di captare con l’orecchio sono segni, e questo, certo, è proprio dell’uomo. Ascolto come leggo, ossia in base a certi codici.»15 La relazione che, in questo caso, il soggetto umano instaura con la realtà passa attraverso una notevole svolta linguistica. L’orecchio del soggetto che qui ascolta i segni opera secondo una certa finalità conoscitiva, assumendo il comportamento di chi riconduce l’ordine della contingenza ad un ambito di sviluppo lineare degli eventi, organizzati in connessione causale. In questa seconda figurazione, il comportamento uditivo vive la fase aurorale del suo farsi scritturale, è gesto che si cristallizza in un codice, di cui Barthes e Havas visualizzano le tappe in una micro-sto­ria, in una micro-narrazione. «Molto prima che fosse inventata la scrittura», ricordano i due pensatori francesi, «è stato prodotto qualcosa che forse distingue essenzialmente l’uomo dall’animale: la riproduzione intenzionale di un ritmo.»16 La scoperta del ritmo rende, infatti, possibile all’uomo il salto fuori dalla subalternità all’esistente, dal grado basso costituito dalla ripetizione mimetica del flusso continuo della natura, inauguran­do il cammino sicuro in direzione della intenzionalità rielaborativa. Il ritmo discretizza il flusso indifferenziato della vita attraverso «il duplice movimento del marcato e del non-marcato», pratica che costituisce la base d’insorgenza del segno. «Sempre per via del ritmo, l’ascolto non resta semplice vigilanza, ma diventa creazione. Senza il ritmo, il linguaggio è impossibile.»17 Aggiungiamo, senza la discretizzazione prodotta dal ritmo scadenzato, senza l’introduzione di una mimesis come artificio intenzionale, la quale riproduca per via di un codice fatto di segni intenzionali, risulterebbe impossibile per­ve­nire alla dimensione deliberativa e, quindi, parzialmente libera dell’ascolto, la quale costituisce il salto da ascolto degli indizi ad ascolto del senso. In gioco è il mutare de­gli orizzonti di attesa umani, da cui proviene il genere nuovo di relazione con la realtà, configurato nella stazione di ascolto rappresentata dal déchiffrement. Quando l’uomo «non sta più in attesa dell’indizio e si mette a mimarne il ritorno regolare, allora egli trasforma l’indizio atteso in segno, passando in tal modo al secondo tipo di ascolto, che è quello del senso», il cui corpo è del tutto linguistico, cifrato, richiedente decifrazione e, quindi, individuazione di un codice, fatica ermeneutica.

Ciò che è ascoltato non è più il possibile (la preda, l’insidia o l’oggetto del desiderio che si manifesta senza preavvisi), bensì il segreto, ossia qualcosa che, sepolto nella realtà, non può presentarsi alla coscienza umana se non tramite un codice che serve tanto a cifrare questa realtà, quanto a decifrar­la.18

Tale percorso di emergenza della figura di ascolto come déchiffrement visualizza, a livello tendenziale, il processo di costituzione linguistico della coscienza umana, che se­gna la relazione attivata da questa figura di ascolto sia tra il soggetto ed il mondo esterno, che tra il soggetto e la propria interiorità:

L’ascolto è anche un sondare. Non appena la religione s’interiorizza, con l’ascolto si sonda l’intimità, il segreto del cuore […]. Una storia ed una fenomenologia dell’interiorità […] dovrebbe affiancarsi ad una storia ed una fenomenologia dell’ascolto […]. I primi cristiani ascoltano ancora delle voci esterne, quelle dei demoni o degli angeli; solo a poco a poco l’oggetto dell’ascolto si interiorizza al punto di diventare pura coscienza.19

Fattosi codice per decifrare «ciò che è oscuro, confuso o muto, per far apparire alla co­scienza il ‹di sotto› del senso (ciò che è vissuto, postulato, voluto come nascosto)»20, l’ascolto qui analizzato finisce, paradossalmente, per essere apparato produttivo di si­lenzio, in quanto esso «obbliga a dire»21. Tale grado e configurazione d’ascolto diviene un voler sentire, il quale «impone l’univocità, la pertinenza alle domande»22, rubando la libertà del tacere, su cui solo si può fondare quella che è per Barthes e Havas la dimen­sione utopica, potenziale dell’ascolto attivo.

L’orizzonte d’attesa orientato alla lettura dei segni, alla ricerca del senso rappresen­ta, così, il punto di salto per la terza configurazione di ascolto proposta da Barthes e Havas: quella del tutto moderna, costituita dall’ascolto psicoanalitico. Seppur i vari li­velli, le varie stanze di attraversamento dell’ascolto restino, per i due pensatori francesi, miniaturizzati gli uni negli altri senza venir mai completamente «soppiantati»23, al nostro discorso preme evidenziare in particolar modo proprio quest’ultima figura «mo­derna» e «psicoanalitica»24 d’ascolto, in quanto il suo orizzonte d’attesa si viene a ma­terializzare in una relazione non più meramente lineare, logica, per certi versi, determi­nante tra soggetto–oggetto, bensì esplorativa, in questo senso estetica. In quale senso? Fin dove si spinge l’ausilio fornito dalla proposta ultima formulata da Barthes e Havas, in merito all’ascolto come ponte?

L’oggetto dell’ascolto di terzo tipo è l’inconscio. Senza ridursi al mero piano d’appli­cazione psicoanalitico, i due pensatori francesi prendono le mosse piuttosto dal comportamento che lo psicoanalista deve osservare nei confronti del soggetto con cui intende porsi in relazione, al fine di determinare «risonanza»25; in questa logica essi fanno ricorso alle indicazioni formulate da Sigmund Freud in Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico in modo particolare al passo, in cui il pensatore austriaco suggerisce la tattica relazionale opportuna, definendola come «attenzione fluttuante»26. Nel caso, infatti, in cui lo psicoanalista si facesse seguire nella scelta d’ascolto dalle «proprie aspettative», finirebbe per «non trovar mai niente che non sappia già», affer­ma Freud nel passo-chiave citato da Barthes e Havas, in quanto sarebbe vincolato alla propria intenzionalità falsando «ciò che potrebbe essere oggetto di percezione»27 rinno­vante e specifica. In ciò, tale comportamento relazionale finirebbe per l’essere l’equiva­lente del ponte simmeliano come espansione della volontà umana sullo spazio. Rispetto alle altre tipologie di ascolto, dunque, quello moderno di ascendenza psicoanalitica fa proprio il genere di sapere che il filosofo ebreo-tedesco Franz Rosenzweig ricononsceva come contrassegno dello Sprachdenken, del «pensiero che parla», il quale sa, che «la battaglia decisiva per la comprensione»28 non segue la linearità logica di un testo scrit­to, e deve prendere sul serio il tempo, perché il «tempo porta consiglio»29. In tal senso, la «attenzione fluttuante» dell’ascolto psicoanalitico, ben diversamente dall’irrigidi­mento dell’alerte o dall’incatenamento al senso, al significato, del déchiffrement, porta ad un andirivieni che «connette la neutralità e l’intervento, la sospensione del giudizio e la teoria»: in ciò consiste l’«originalità», la valenza esemplare di tale figura d’ascolto. In tale andirivieni, in tale saggiare e ritrarsi, in tale congiungere «ordine e singola­ri­tà»30, l’ascolto di ascendenza psicoanalitica si fa moderna modalità dell’entrare in rela­zione reciproca, senza rinuncia patita da alcun lato della relazione. Riconoscimento dell’individualità e ricerca di una istanza generale ancora non data. Esso è comporta­mento «esplorante»31, non privo di «rischi»32, il quale getta ponti di relazione reciproca nuovi ma, soprattutto, costituendosi tale figura di ascolto nella libertà, essa scardina «la rete rigida dei ruoli di parola», ovvero, le cristallizzazioni della lingua provenienti dalle figure tradizionali del «credente, del discepolo, del paziente»33, promuovendo un nuovo regime di linguaggio relazionale, incentrato sull’ascolto. È questa la piattafor­ma di lancio, per quello che chiamiamo l’ascolto connesso all’orecchio estetico.

3 Contrappunto

Il discorso svolto da Italo Calvino intorno al tema dell’ascolto nel racconto Un re in ascolto assume il saggio di Barthes e Havas come base programmatica di un esperi­mento letterario, come vero e proprio principio generatore, che opera in termini con­trappuntistici: ovvero, in termini di linee di sviluppo con una provenienza comune, ma sviluppantesi in modo indipendente, su piani melodici non finalizzati a convergen­za. Da qui la natura di esperimento letterario che caratterizza Un re in ascolto, spie­gando il rapporto dialettico da esso intrattenuto con il saggio di Barthes e Havas, scelto come un vero e proprio principio attivo, come centro propulsivo, come motore imma­ginativo, non come semplice spunto.

Il periodo di incubazione in cui il testo dei due pensatori francesi agisce in Calvino è quello compreso tra il 1977 e la stesura conclusiva del racconto-saggio sull’udito nel 1984. Occasione d’incontro con il testo di Barthes e Havas era stata la collaborazione avviata dallo scrittore italiano con il compositore Luciano Berio, poi concretizzatasi nell’opera lirica o, più precisamente, nella «Azione teatrale in due atti», denominata, anche essa, Un re in ascolto, rappresentata in prima mondiale al Festival di Salzburg il 7 agosto 1984. Del contributo testuale elaborato da Calvino resta, nell’opera di Berio, solo una presenza parziale nel libretto dell’opera, integrata, da parte del musicista, con altro materiale letterario. Questo segmento di riflessione calviniano sull’ascolto implica, comunque, questioni ulteriori, che esulano dal centro della nostra riflessione sull’ascol­to come ponte. Importante è, però, la datazione dell’incontro con il saggio di Barthes e Havas, corrispondente ad una fase significativa della interrogazione calviniana in meri­to alla funzione conoscitiva della letteratura e, più in generale, in merito al linguaggio, in un’epoca di cambiamenti «molto rapidi», che interessano profondamente anche il costume, il comportamento. Tali urgenze ed inquietudini sono lucidamente sintetizzate da Calvino nel corso della conferenza tenuta il 30 marzo 1983 alla New York University, circa un anno prima della stesura definitiva di Un re in ascolto, poi pubblicata in forma scritta in Lettera internazionale, sotto il titolo di «Mondo scritto e mondo non scrit­to».34

La conferenza si inaugura con una dichiarazione d’intenti in merito al proprio me­stiere di scrittore, al proprio Beruf, nell’accezione forte di professione: «Appartengo a quella parte dell’umanità […] che passa gran parte delle sue ore di veglia in un mondo speciale, un mondo fatto di righe orizzontali, dove le parole si susseguono una per volta, dove ogni frase e ogni capoverso occupano il loro posto stabilito». È questo il «mondo scritto», con i suoi «riti» e forme di ascesi, ovvero, di esercizi e aggiustamenti speciali, richiesti, «per situarsi al suo interno». La fatica dello scrittore, la vera e pro­pria Anstrengung prende avvio nel momento in cui questi si stacca dallo spazio tutelato dalla scrittura, per «ritrovare» il proprio posto nell’altro, «in quello che usiamo chia­mare il mondo, fatto di tre dimensioni, cinque sensi, popolato da miliardi di nostri simili».35 Tale costante lavoro di spola è sintetizzato da Calvino in chiusura della prima parte della conferenza:

A questo punto mi chiederete: se dici che il tuo vero mondo è la pagina scritta, se solo là ti senti a tuo agio, perché vuoi staccartene, perché vuoi avventurarti in questo vasto mondo che non sei in grado di padroneggiare? La risposta è semplice: per scrivere. […] È per rimettere in moto la mia fabbrica di parole che devo estrarre nuovo combustibile dai pozzi del non scritto.36

L’affermazione, in sé non nuova, acquista valore posizionale specifico, di autentica svol­ta, nel momento in cui pone le basi per la ricerca di una lingua ‹dal basso›, potremmo dire, inversa. Il rovesciamento, la Umwertung, infatti, di quelle che Calvino chiama le «attitudini mentali»37 legate al linguaggio, ovvero, i comportamenti di linguaggio, passa esattamente attraverso questo tipo di confronto con il mondo della vita «a tre dimen­sioni» e «cinque sensi». La coappartenenza di piani tra inversione di attitudini mentali e questione del linguaggio, ovvero, il nucleo di riflessione antropologico-estetico in Calvino, emerge chiaro dalla presa di posizione sviluppata nei confronti dei media gior­nale e televisione. La spinta che porta l’uomo della contemporaneità verso di essi ha una sua ragione vitale, di cui tener conto: il bisogno reale di accesso e relazione con il «mondo di fuori». Ciò che rende, invece, non ricevibile la risposta fornita da giornale e televisione a quella istanza vitale dell’uomo contemporaneo, è, piuttosto, il regime di linguaggio, lo stato della lingua su cui essi si fondano, del tutto «incrostato» dal discor­so «scritto»: «I fatti della nostra vita sono già classificati, giudicati, commentati, prima ancora che accadano. Viviamo in un mondo dove tutto è già letto prima ancora di cominciare ad esistere.»3838 In ciò emerge la componente critica ed irrevocabilmente mo­derna della proposta calviniana, in quanto egli respinge giornale e televisione non contrapponendoli ad una presunta dimensione immediata e fresca, di natura non lin­guistica come approccio alla realtà, bensì rilevando il carattere di cattiva mediazione da questi svolta, elemento che esige una inversione, un rinnovamento. Ciò comporta, dun­que, riconvertire gli organi di senso «saturi di linguaggio scritto»39, indicando alla lingua un altro comportamento o «attitudine mentale», una diversa sintassi di relazio­ne tra soggetti. Nella direzione qui tracciata trova collocazione la questione calviniana dei sensi e la sua indagine sull’ascolto in ottica antropologico-estetica. Conferma di tale impostazione alle questioni proviene dall’«Excursus» sui sensi che Calvino abbozza nella già ricordata conferenza americana Mondo scritto e mondo non scritto.

L’abitudine di leggere ha trasformato attraverso i secoli l’Homo sapiens in Homo legens, ma questo Homo legens non è detto che sia più sapiente di prima. L’uomo che non leggeva sapeva vedere e udire tante cose che noi non percepiamo più: le tracce delle belve che cacciava, i segni dell’avvici­narsi della pioggia o del vento […].40

Calvino chiarisce subito che non è sua intenzione proporre «un ritorno all’analfabeti­smo per recuperare il sapere delle tribù paleolitiche. Rimpiango tutto ciò che possiamo aver perduto, ma non dimentico mai che i guadagni superano le perdite. Quello che sto cercando di capire è quel che possiamo fare oggi.»41 La sfida lanciata alle cristallizzazio­ni formatesi negli organi di senso ridotti al leggere – attenzione, non allo scrivere – ha, in Calvino, una nostalgia con gli occhi rivolti tutti in avanti, non al regressivo: «Anche nel giorno in cui meno siamo sicuri (sperimentalmente) di che cosa sia progresso, la re­gressione resta il nome di un pericolo preciso (sperimentato)», aveva scritto nel 1972 lo scrittore italiano in Lo sguardo dell’archeologo42. La questione da affrontare è, inve­ce, come svoltare, come cambiare direzione all’urgenza, per salvare, da un lato, il linguaggio dalla «peste» che lo affligge, impedendo accesso al mondo molteplice e va­riegato della vita, dall’altro, per garantire al linguaggio la rispondenza al «bisogno di costruzione, di linee tracciate con esattezza, d’armonia e geometria»43, unica strada per una letteratura che sia conoscenza, in quanto relazione. Ancora una volta, il discorso rinvia alla questione relativa ai sensi o, più precisamente, alla ricerca di una tattica in grado di cogliere la vita dei sensi un attimo prima che essa venga ‹colonizzata› dal sistema della lingua scritta. «Forse – si interroga Calvino – la prima operazione per rin­novare un rapporto tra linguaggio e mondo è la più semplice: fissare l’attenzione su un oggetto qualsiasi, il più banale e familiare, e descriverlo minuziosamente come se fosse la cosa più nuova e più interessante dell’universo», operando con il pensiero «solo in base a ciò che [si] vede», diffidando di ogni altra mediazione.44 Il rapporto che lega mondo secondo i sensi e descrizione, intesa quale strategia di rinnovamento del lin­guaggio, si trova enunciato, a mo’ di programma di lavoro, in Lo sguardo dell’archeolo­go, scritto che si colloca nella fase inziale dell’indagine calviniana sui sensi:

Nel suo scavo l’archeologo rinviene utensili di cui ignora la destinazione, cocci di ceramica che non combaciano, giacimenti di altre ere da quella che si aspettava di trovare lì: suo compito è descrivere pezzo per pezzo anche e soprattutto ciò che non riesce a finalizzare in una storia o in un uso, a rico­struire in una continuità o in un tutto.45

A differenza del comportamento dello spiegare, «teleonomico» e incapace di congedar­si dal «noi stessi» come referente, il descrivere inaugura, a giudizio di Calvino, un pro­cesso linguistico, guidato, ma espandentesi in modo «orizzontale»46, non salvaguardato da fini già conosciuti, che sia di natura esplorativa e non prescrittiva; per così dire, lingua come ordine di realtà capace di «render giustizia all’esistenza reale di una altrui volontà»47, di ascoltare il desiderio di esser sentito, visto e scoperto da parte di un in­dividuale, irriducibile all’unità organica di una storia. In un appunto del 1983, relativo al progetto di racconto sulla vista, Calvino annota a tal proposito:

Quanto abbiamo visto? = quanto abbiamo aiutato il mondo – le cose, le persone – a vedersi, cioè ad esserci? […] Il mondo non è un panopticom ma un pancripticon: Non il nascosto occulto (viscere, segreto) ma il nascosto con intenzione d’essere trovato (tracce, tesoro nascosto).48

In tale ottica, la valenza esplorativa della descrizione diviene esperimento di rinnova­mento del linguaggio, istanza alternativa rispetto alle tendenze tra loro contrapposte, incarnate, per un verso, da chi sostiene che esiste unicamente il linguaggio, non il mon­do, per altro verso, da coloro i quali sostengono che «il linguaggio comune non ha senso» e, quindi, «il mondo è ineffabile»49. Ecco su quale crinale si viene a porre la ri­cerca calviniana intorno ad una lingua assunta ‹dal basso›, a partire dai sensi, ricerca che procede lontana da ogni ingenua fiducia circa la fresca immediatezza di questi ed è, invece, animata dalla intenzione di una loro liberazione rispetto alle cristallizzazioni dell’ordine imposto dalla sintassi della parola scritta che li incatenano. Intorno a questo asse ruota la liberazione calviniana rispetto a quella che Friedrich Nietzsche chiamava «La seduzione della lingua (e degli errori radicali, in essa pietrificatisi, della ragione), che intende e fraintende ogni agire come condizionato da un agente, da un ‹sogget­to›»50, fraintendimento, il quale dimentica il fatto che, separare «soggetto e oggetto», «il fare e ciò che fa», designa solo «una mera semiotica e niente di reale»51. Non tener conto di tale direzione del procedere calviniano, significa mancare di cogliere il dato nevralgico delle questioni relative al linguaggio ed al mondo dei sensi, connesse alla fa­se cruciale da questo attraversata nelle mutazioni antropologiche che interessano l’uomo metropolitano, l’uomo della nostra modernità: «Come mia tendenza dominante – scrive Calvino nel 1984 – sono sempre stato proiettato più verso il futuro che verso il passato, e il futuro ha avuto sempre per me un’immagine metropolitana, tecnologica, cosmopolitica.»52 All’interno di tale ottica si viene a collocare il racconto Un re in ascolto.

«Un altro libro che sto scrivendo parla dei cinque sensi, per dimostrare che l’uomo contemporaneo ne ha perso l’uso»53, afferma Calvino in Mondo scritto e mondo non scritto con riferimento a Sotto il sole giaguaro. L’espressione «perdita d’uso» chiarisce subito l’ottica d’assunzione del problema: ovvero quella per cui l’ordine sensoriale e sensibile umano è condizione del rapporto uomo–mondo determinata sempre cultural­mente, socialmente e medialmente. Nella fase di mutazione attraversata dall’uomo «metropolitano», «cosmopolitico» della nostra modernità, la perdita d’uso che interes­sa i cinque sensi come veicolo d’accesso alla realtà, indica non un momento di impo­verimento, di decadimento, bensì un processo di esonero, una trasmutazione dai carat­teri indefinitamente aperti, per così dire, senza intero, senza lato esterno. Non solo, infatti l’udito, la vista e gli altri sensi non svolgono più mera funzione attentiva, di aller­ta nei confronti del mondo imprevedibile dell’esistenza: ovvero, sono decresciuti in acutezza, rispetto alle loro funzioni primarie. Ancor più, le abitudini, i gesti in essi ossi­ficatisi, impediscono di «padroneggiare una gamma di sensazioni e sfumature»54, rendendo l’uomo «corto di sensi», per usare un’espressione cara a Georg Simmel.55 Proprio al fine di recuperare i sensi su un piano di più forza e capacità, Calvino avvia un percorso di descrizione ed esplorazione del mondo sensibile umano, ad un tempo, di ascendenza fenomenologica e critico-analitica. Esattamente questo intende dire lo scrittore italiano, quando afferma: «Il mio scopo non è tanto quello di far un libro, quanto di cambiar me stesso»56, ovvero, di mutare attitudine mentale, di agire sul piano linguistico, avventurandosi oltre, al di là del «mondo scritto». Descrivere con la distan­za di sguardo di un medico i processi, le attività dei singoli organi di senso, procede, infatti, di pari passo con una Kritik der Sinne, ovvero con l’indagine analitica dello scheletro sensorio, e con la conseguente assunzione sperimentale del mondo della vita a partire da un singolo senso. Ecco la particolarità di Un re in ascolto, traduzione della molteplice realtà vivente secondo l’orecchio. Se dietro questo racconto-saggio, come ab­biamo già notato, sta lo scritto sull’ascolto di Barthes e Havas, l’esperimento-tentativo letterario di Calvino è rendering delle diverse configurazioni di ascolto, le quali si dan­no intrecciate le une alle altre, senza possibilità di netta esclusione.

Un re siede al centro della reggia, «tutt[a] volute, tutt[a] lobi […], un grande orec­chio in cui anatomia e architettura si scambiano nomi e funzioni»57. Assiso in equilibrio sul trono, rigido come una fiera in agguato, il sovrano usa la propria attenzione uditiva come uno scanner acustico, per vagliare i segnali provenienti dall’ambiente esterno e circostante: una spola di verifica, che rielabora motivi della prima figura di ascolto se­condo le tipologie indicate da Barthes e Havas nel loro scritto, ovvero l’alerte. In tale condizione uditiva, il re dimostra, in realtà, la propria non sovranità rispetto alla supe­riorità della realtà: ogni segnale viene letto, infatti, come atto eversivo da parte del «mondo non scritto», che occorre tener sotto controllo, sottoporre a costante verifica secondo lo schema funzionamento / non funzionamento del sistema.

Se il tuo palazzo resta per te sconosciuto e inconoscibile, puoi tentare di ricostruirlo pezzo a pezzo, situando ogni calpestio, ogni colpo di tosse in un punto dello spazio, immaginando intorno a ogni segno sonoro pareti, soffitti, impiantiti, dando forma al vuoto in cui i rumori si propagano e agli ostacoli contro cui urtano, lasciando che siano i suoni stessi a suggerire immagini:58

L’udito qui opera contro se stesso, contro la propria dimensione temporale, perché, nella tensione a localizzare, per estendere il campo della volontà, spazializza in definiti­va il tempo, sottoponendolo alla intenzione paranoica e controllante del soggetto. L’orecchio di cui Calvino tratta in questa prima figura di ascolto è, davvero, un «organo egoistico», come ricordava Georg Simmel59, che accoglie in sé tutto, senza entrare in relazione reciproca bi-direzionale. In questa logica della lettura-controllo, l’elemento mancante è la dimensione dell’aperto: «Forse la minaccia viene più dai silenzi che dai rumori», scrive Calvino, indicando l’incapacità di tale orecchio di tuffarsi «nel mon­do di fuori», per «raggiungere il cuore del silenzio», il silenzio pregno di significato, come si legge in Mondo scritto e mondo non scritto.60 Importante è notare come la tat­tica descrittiva usata da Calvino per prendere alle spalle il sistema ossificato della pa­rola scritta sia già tentativo di esplorazione, inversione del linguaggio il quale, invece di procedere dall’alto di categorie codificatesi, procede ‹dal basso›, letteralmente, dai ge­sti di provenienza.

La seconda figura di ascolto, definita déchiffrement da Barthes e Havas, subentra nel racconto calviniano, allorché il re avverte dal suo trono «colpi lontani come il bussare a una porta»61. Il mero controllo acustico si apre, così, al linguaggio, al codice di segni con cui leggere il segreto contenuto nel messaggio. Colpi ritmati come fossero lettere di un alfabeto, o caratteri a stampa: «Per dialogare dovresti conoscere la lingua. Una se­rie di colpi di seguito, una pausa, altri colpi isolati. […] Qualcuno vuole comunicare con te, ha delle cose urgenti da dirti? Prova con la chiave più semplice: un colpo, a; due colpi bi […].»62 Qui l’udito soggiace all’ordine del mondo scritto, dove «ogni frase e ogni capoverso occupano il loro posto stabilito»63, recependone la volontà: quella di far par­lare, di costringere tutto il vivente in linguaggio per l’uomo, un linguaggio che, proprio nella sua ostinazione a colmare il silenzio pieno di minaccia, si rende inaccessibile «il vero silenzio pieno di significato»64. Nella sua furia inquisitoria, agorafobica, l’ascolto decifrante e inquisitorio manca, così, l’opportunità del rinnovamento, della inversione: ovvero, di cogliere il silenzio-tacere come linguaggio, come ritmica del linguaggio «attivo» dell’ascolto. L’occasione di tale rovesciamento è introdotta da un invito rivolto al re dalla voce narrante: «Non fissarti sui rumori del palazzo, se non vuoi restarci chiuso dentro come in una trappola.»65 Vale, invece, cercar di uscire, scappare, spazia­re, aprirsi a quella città «varia e screziata […] dalle mille voci», facente funzione del «mondo non scritto». La città ha una propria musica, o meglio, è musica, riuscire ad ascoltare la quale implica aver stornato, spostato l’udito dal suo uso di organo di lettura dei segnali sonori come di un linguaggio finalizzato all’uomo: «Da ogni scheggia sonora tu continui a raccogliere segnali, informazioni, indizi, come se in questa città tutti quelli che suonano o cantano o mettono dischi non volessero altro che trasmetterti messaggi precisi e univoci.»66 È questo il punto in cui Calvino, nel racconto, si spinge in modo più coraggioso in direzione dello «stato utopico del linguaggio», ipotizzato da Roland Barthes in Il brusio della lingua del 1975, nel passo in cui il pensatore francese si chiede se la lingua possa mai «produrre brusio», o, prodursi in brusio: «In quanto parola, sembrerebbe condannata al balbettio; come scrittura al silenzio e alla distinzio­ne dei segni»; la lingua può osare un suo «stato utopico», la condizione d’essere di promessa, nel momento in cui essa, senza perdere «di vista un orizzonte di senso», re­sta «affidata al significante da un moto inaudito, ignoto ai nostri discorsi razionali», in cui «il significante fonico, metrico, vocale, si dispiegherebbe in tutta la sua sontuosi­tà, senza che mai un segno se ne distacchi»67. Esattamente a questo livello delle questioni interviene, nel racconto calviniano, l’incontro del re con la voce, «oggetto» cruciale, che matura l’orecchio in direzione dell’ascolto come esplorazione.

«L’ascolto della voce inaugura la relazione con l’altro», scrivono Barthes e Havas68; potremmo aggiungere, che la voce apre, dischiude nel soggetto un nuovo organo. L’in­contro con la città-musica ha comportato, nel re, una distrazione d’ascolto fruttuosa rispetto all’alerte ed al déchiffrement: «Ora ti domandi cosa voleva dire per te ascoltare una musica per il solo piacere d’entrare nel disegno delle note.»69 In questa soglia d’apertura estetica, di un piacere, a suo modo, non finalizzato, la voce promette d’esser ponte, genere inedito di relazione con l’altro, nella misura in cui l’orecchio è guidato da un piacere senza motivo, non abbinato ad immagine di persona. La voce, con la sua grana, proviene certamente da una persona unica ed irripetibile come ogni persona; sotto tale aspetto, essa corrisponde al volto per l’occhio socializzante di Georg Simmel, in cui si cristallizza in modo significativo, «tutto ciò che l’individuo ha portato con sé come presupposto della sua vita»70. Il dato saliente di essa, in Calvino, sta però nel non essere mero volto per l’orecchio, mera fotografia per l’orecchio. «Qualsiasi immagine cerchi d’attribuirle nella tua fantasia, l’immagine-voce sarà sempre più ricca», si legge in Un re in ascolto71. Nello iato tra voce e persona, si apre lo spazio per un di più di senso, non compreso nella lettura della voce quale segno di riconoscimento. La valenza della voce nel racconto calviniano sta proprio in questo percorso di scambio tra orecchio ed occhio e sul genere di ponte gettato, di relazione reciproca da essa proposta.

Ogni voce che sa d’essere ascoltata dal re acquista uno smalto freddo, una vitrea compiacenza. Quel­la invece era una voce che veniva dall’ombra, contenta di manifestarsi senza uscire dal buio che la nascondeva e di gettare un ponte verso ogni presenza avvolta dallo stesso buio,

afferma Calvino in Un re in ascolto72. Estranea ad ogni ruolo prescritto o prestabilito ed all’orizzonte delle cose individuate in modo chiaro e distinto, la voce che getta ponti viene dall’ambito oscuro, polivalente, non fissabile in anticipo in un significato, e vi re­sta, come sua condizione d’essere pregante, ‹più ricca›, in esubero. Essa è ponte gettato tra soggetti in relazione reciproca, la cui norma di legame è in via di formazione: in prova, esplorativa, come l’orecchio qui all’opera. Ciò rende l’orecchio-ascolto organo di senso non più egoistico, ovvero solo recepiente in una direzione, bensì organo bi-ca­nale, multidirezionale, dotato di particolare forza socializzante. D’altro canto, tale orecchio-ascolto assicura una prestazione non immedesimante ed addita un ulteriore compito. In quanto la relazione, il ponte gettato non ha figura di individuo, la rela­zione esplora senza finalità; in quanto la voce «è qualcosa di sospeso nell’aria», di pulviscolare e inafferrabile, essa rinvia sempre alla fatica della forma, al compito di tener duro, rispetto alla «sfida del labirinto» proveniente dal mondo non scritto.73

  1. Georg Simmel, «Brücke und Tür», tr. it. «Ponte e porta», in: G. S., Saggi di estetica, a cura di Massi­mo Cacciari, traduzione di Massimo Cacciari e Lucio Perucchi, Padova, Liviana, 1970, p. 4.
  2. Georg Simmel, ivi, p. 6.
  3. Georg Simmel, ibidem.
  4. Georg Simmel, «Exkurs über die Soziologie der Sinne», tr. it. «Excursus sulla sociologia dei sensi», in: G. S., Sociologia, introduzione di Alessandro Cavalli, traduzione di Giorgio Giordano, Torino, Edi­zioni di Comunità, 1998, p. 558.
  5. Georg Simmel, ivi, p. 551.
  6. Georg Simmel, ivi, p. 557.
  7. Vedi nota 1.
  8. Italo Calvino, «La sfida al labirinto», in: I. C., Saggi 1945–1985, a cura di Mario Barenghi, 2 voll., Mi­lano Mondadori, 2001, vol. I, p. 122.
  9. Roland Barthes, Roland Havas, «Ascolto», in: Enciclopedia Einaudi, a cura di Ruggiero Romano, 16 voll., Torino, Einaudi, 1977, vol. I, p. 982.
  10. Roland Barthes, Roland Havas, ivi, p. 986.
  11. Roland Barthes, Roland Havas, ivi, p. 990.
  12. Roland Barthes, Roland Havas, ibidem.
  13. Roland Barthes, Roland Havas, ibidem.
  14. Roland Barthes, Roland Havas, ivi, p. 983.
  15. Roland Barthes, Roland Havas, ivi, p. 982.
  16. Roland Barthes, Roland Havas, ivi, p. 984.
  17. Roland Barthes, Roland Havas, ibidem.
  18. Roland Barthes, Roland Havas, ibidem.
  19. Roland Barthes, Roland Havas, ivi, p. 985.
  20. Roland Barthes, Roland Havas, ivi, p. 984.
  21. Roland Barthes, Leçon, Paris, Seuil, 1978, tr. it. in: R. B., Sade Fourier Loyola, a cura di Gianfranco Marrone, Torino, Einaudi, 2001, p. 9.
  22. Augusto Ponzio, «Roland Barthes: l’ascolto», in: Augusto Ponzio, Patrizia Calefato, Susan Petrilli, Con Roland Barthes alle origini del senso, Roma, Meltemi, 2006, p. 78.
  23. Roland Barthes, Roland Havas, «Ascolto», op. cit., p. 982. Il termine qui è parafrasato, Barthes e Ha­vas usano «soppianta».
  24. Roland Barthes, Roland Havas, ivi, p. 989.
  25. Roland Barthes, Roland Havas, ivi, p. 987.
  26. Sigmund Freud, «Ratschläge für den Arzt bei der psychoanalytischen Behandlung», tr. it. «Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico», in: S. F., Opere, a cura di Cesare Musatti, 12 voll., Torino, Bollati Boringhieri, Vol VI, p. 532.
  27. Roland Barthes, Roland Havas, ivi, p. 986.
  28. Franz Rosenzweig, «Das neue Denken. Einige nachträgliche Bemerkungen zum ‹Stern der Erlö­sung›», tr. it. «Il nuovo pensiero. Alcune note supplementari a ‹La stella della redenzione›», in: F. R., Il nuovo pensiero, a cura di Gianfranco Bonola, Venezia, Arsenale Editore, 1983, p. 45.
  29. Franz Rosenzweig, ivi, p. 54. Risulta non certo possibile e fuorviante rispetto al taglio delle questioni qui affrontate sviluppare in modo dettagliato e critico la proposta formulata da Rosenzweig in merito al tema del pensiero parlante come pensiero dialogico. Pur nella divergenza del contesto di riflessione rosenzweighiano rispetto a quello qui affrontato, vale, comunque, riportare un passaggio importante del pensiero del filosofo ebreo-tedesco quale contributo indiretto al tema dell’ascolto, riserbando ad altra occasione il compito di approfondimento: «Parlare è legato al tempo, si nutre di tempo, non può né intende abbandonare questo suo terreno di coltura, non sa in anticipo dove andrà a parare, lascia che siano gli altri a dargli lo spunto. Vive soprattutto della vita di altri, siano essi l’uditore della narra­zione, l’interlocutore del dialogo o il membro del coro. […] Nel dialogo vero qualcosa accade sul serio, io non so prima che cosa l’altro mi diràm perché in realtà non so neppure che cosa dirò io, anzi non so neppure se parlerò.» [F. R., ivi, p. 57]
  30. Roland Barthes, Roland Havas, «Ascolto», op. cit. p. 987.
  31. Roland Barthes, Roland Havas, ivi, p. 989.
  32. Roland Barthes, Roland Havas, ivi, p. 988. Importante risulta, in questo quadro, lo sviluppo del pen­siero formulato da Barthes e Havas nel seguito del loro scritto: «Il rapporto psicoanalitico è un rappor­to tra due soggetti, e pertanto il riconoscimento del desiderio dell’altro non potrà assolutamente avvenire nella neutralità, nella benevolenza, nel liberalismo: riconoscere questo desiderio implica ad­dentrarvisi, precipitarvi, condividerlo. L’ascolto esisterà solo a patto di accettare questo rischio e, se esso va evitato perché possa avvenire l’analisi, ciò non sarà possibile semplicemente facendosi scudo della teoria.» [ibidem]
  33. Roland Barthes, Roland Havas, ivi, p. 990.
  34. Si tratta della conferenza letta da Calvino come «James Lecture» presso l’Institute for the Humanities della New York University, comparsa in The New York Review of Books il 12 maggio 1983 e, succes­sivamente in: Lettera internazionale, II, 4–5, primavera–estate 1985, pp. 16–18. Nel riportare, in se­guito, i passi di tale intervento, facciamo riferimento alla sua pubblicazione in: I. C., Saggi. 1945–1985, a cura di Mario Barenghi, 2 voll., Milano, Mondadori, 2001, vol. II, pp. 1865–1875, citazione a p. 1870.
  35. Italo Calvino, ivi, p. 1865.
  36. Italo Calvino, ivi, p. 1867.
  37. Italo Calvino, ivi, p. 1866.
  38. Italo Calvino, ivi, p. 1869.
  39. Italo Calvino, ibidem.
  40. Italo Calvino, ibidem. La sottolineatura nel testo calviniano è opera dello scrivente.
  41. Italo Calvino, ivi, p. 1870.
  42. Italo Calvino, «Lo sguardo dell’archeologo», in: I. C., Saggi, op. cit., vol. I, p. 325.
  43. Italo Calvino, «Mondo scritto e mondo non scritto», op. cit., p. 1870.
  44. Italo Calvino, ivi, pp. 1872–1873.
  45. Italo Calvino, «Lo sguardo dell’archeologo», op. cit., pp. 325–326.
  46. Italo Calvino, ivi, p. 326.
  47. Hans Robert Jauß, «Hermeneutische Moral: der moralische Anspruch des Ästhetischen», tr. it. a cura di Luca Farulli, «Morale ermeneutica: l’istanza morale dell’ambito estetico», in: Iride, A. VII, Nr. 12, agosto 1994, Bologna, Il Mulino, p. 284.
  48. Italo Calvino, «Note e notizie sui testi», in: I. C., Romanzi e racconti, a cura di Mario Barenghi e Bru­no Falcetto, 3 voll., Milano, Mondadori, 2001, vol. III, p. 1215.
  49. Italo Calvino, «Mondo scritto e mondo non scritto», op. cit., p. 1867.
  50. Friedrich Nietzsche, «Genealogie der Moral», tr. it. «Genealogia della morale», in: F. N., Opere com­plete, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, 8 voll., Milano, Adelphi, 1968, vol. VI/II, p. 244.
  51. Friedrich Nietzsche, «Nachgelassene Fragmente: Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889», tr. it. «Frammenti postumi», in: F. N., Opere complete, op. cit., vol. VIII/III, p. 48.
  52. Italo Calvino, «Omaggio a Octavio Paz», in: I. C., Saggi, op. cit., vol. 1, pp. 1385–1386, originariamen­te pubblicato in La Repubblica, dell’11 settembre 1984 con il titolo: «Dimentica e ricorda».
  53. Italo Calvino, «Mondo scritto e mondo non scritto», op. cit., p. 1874.
  54. Italo Calvino, ibidem.
  55. Georg Simmel, «Exkurs über die Soziologie der Sinne», tr. it., op. cit., p. 558.
  56. Italo Calvino, «Mondo scritto e non scritto», op. cit., p. 1874.
  57. Italo Calvino, «Un re in ascolto», in: I. C., Romanzi e racconti, edizione guidata da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 3 voll., 2001, vol. III, p. 153.
  58. Italo Calvino, ivi, p. 156.
  59. Georg Simmel, «Exkursus über die Soziologie der Sinne», tr. it., op. cit., p. 554.
  60. Italo Calvino, «Mondo scritto e mondo non scritto», op. cit. p. 1869.
  61. Italo Calvino, «Un re in ascolto», op. cit., p. 159.
  62. Italo Calvino, ivi, pp. 159–160.
  63. Italo Calvino, «Mondo scritto e mondo non scritto», op. cit., p. 1865.
  64. Italo Calvino, ivi, p. 1869.
  65. Italo Calvino, «Un re in ascolto», op. cit., p. 162.
  66. Italo Calvino, ivi, p.163.
  67. Roland Barthes, «Le bruissement de la Langue», tr. it. «Il brusio della lingua», in: R. B., Il brusio della lingua, Torino, Einaudi, 1988, p. 80.
  68. Roland Barthes, Roland Havas, «Ascolto», op. cit., p. 987.
  69. Italo Calvino, «Un re in ascolto», op. cit., p. 164.
  70. Georg Simmel, «Exkurs über die Soziologie der Sinne», tr. it., op. cit., pp. 551–552.
  71. Italo Calvino, «Un re in ascolto», op. cit., p. 165.
  72. Italo Calvino, ivi, p. 168.
  73. Sul tema relativo alla «sfida del labirinto» nell’ottica delle nostre riflessioni, si veda, in modo parti­colare: Hans Robert Jauß, «Teoria della ricezione ed ermeneutica oggi», intervista condotta da Georg Maag e Luca Farulli, in: Iride, Firenze, Ponte alle Grazie, Nr. 10, settembre 1992 – dicembre 1993, pp. 70–72 e 74. Il testo dell’intervista, introdotto da Georg Maag, è pubblicato, in lingua tedesca, nella rivista Zeitschrift für Ideengeschichte, Beck, Hf. IV/2 Sommer 2010; i passi della riflessione jaussia­na cui facciamo riferimento si trovano a p. 110–114.