Marta Morazzoni: Il dono di Arianna
Milano: Ugo Guanda editore, 2019, pp. 208, Euro 16,50
ISBN 978-882-352-242-8

• Meta Lenart-Perger •


PID: https://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-EAAF-D

Il dono straordinario di raccontare la Storia e una grande abilità narrativa, aspetti che caratterizzano l’opera della scrittrice Marta Morazzoni, si realizzano questa volta nella raccolta di racconti brevi di genere misto dal titolo Il dono di Arianna. Si tratta di una interpretazione innovativa di vari episodi presi dal mondo mitico, in cui dei personaggi della mitologia sono visti in un’ottica diversa da quella cui siamo abituati. Morazzoni li ripensa infatti a partire da considerazioni sulla natura e sulla quotidianità umana, il che ce li rende più vicini. E lo fa nella consapevolezza che «tutto ha una spiegazione, [che] ogni mito nasce da una prosaica verità» (p. 203). Le prime otto narrazioni riprendono episodi mitologici mentre gli ultimi due pezzi sono reportage di viaggio e trovano il loro generatore nell’esperienza dell’autrice che, percorrendo il paesaggio greco e visitando delle città storiche, trova nello spazio edificato, come in quello naturale innumerevoli richiami ai miti classici nonché ai suoi primi personali contatti con la mitologia, fra cui la lettura di un testo sui miti greci dal titolo Il filo di Arianna (un labirinto da cui «entravo e uscivo come Teseo dai meandri del palazzo di Cnosso», p. 202). Il titolo della raccolta nasce evidentemente anche per analogia con quello del libro che introdusse la Morazzoni, da bambina, alla conoscenza del mondo mitologico, allora per lei ancora tutto da scoprire, e potrebbe indicare anche il suo sicuro percorso nel mondo della letteratura e della libertà creativa ricevuto in dono dalla lettura, come Teseo aveva ricevuto in dono da Arianna la libertà dei suoi passi.

Il denominatore comune dei dieci racconti è lo spazio, elemento costitutivo dell’opera: lo si capisce a prima vista già dai titoli dei singoli racconti, ognuno dedicato a uno spazio geografico dove si svolgono le storie, dalla famosa Micene all’emblematica Mykonos. Ma la dominanza del paesaggio è poi confermata nel momento in cui ci si immerge nella lettura, quando la narrazione ci trasferisce in un mondo antico in cui la vita intensa degli dei e degli uomini si svolge sullo sfondo di un paesaggio aspro, severo e carico allo stesso tempo di un’atmosfera mistica. La scrittrice, che in molte opere precedenti ha mostrato interesse soprattutto per gli spazi nordici, questa volta decide di ambientare i suoi racconti in uno spazio mediterraneo che fu culla dei miti greci, rendendovi un omaggio e costruendo «una geografia della felicità» (p. 9). Il paesaggio diventa il protagonista di ogni racconto; la sua decisiva importanza si nota sia al livello semantico (con la scelta di un lessico polisemico) sia al livello espressivo (con l’uso di sostantivi e aggettivi di alta allusività). Come in altre opere morazzoniane, ad esempio La ragazza col turbante (1986) o Il fuoco di Jeanne (2014), anche in queste narrazioni la descrizione dello spazio avviene tramite «immagini pregnanti di significato, dove descrizioni di personaggi, paesaggi e interni rappresentano particolari stati d’animo»1. E allora il «terreno accidentato» della strada che conduce alla porta della leonessa, a Micene, rispecchia la disperazione dei troiani catturati in guerra (pp. 34–35); il palazzo sterile dalle pareti bianche con «il sentore di calce appena data» in cui «permaneva forte l’odore di sangue» (p. 52) si presta da sfondo perfetto per esprimere l’assenza di memoria che prova Teseo dopo aver ucciso il Minotauro, o, ancora, il mare in bufera restituisce le sensazioni di un Odisseo sconvolto e desideroso di ritornare a casa, che trova riparo sulla piccola isola dei topi nei pressi di Corfù (p. 123).

Sul livello espressivo e semantico occorre sottolineare la presenza di alcuni binomi, come quello assai frequente di oscurità – luce, tramite i quali si esprimono bene le sfumature dello stato d’animo dei personaggi di cui si parla nonché i colori contrastanti (ora vivaci, ora soffusi) degli ambienti in cui questi (inter)agiscono: Teseo, ad esempio, «veniva dall’oscurità, il sole gli bruciò le pupille» (p. 55) e lo videro «uscire dal buio alla luce del cortile» (p. 62) dopo la lotta con Asterione. Altro binomio, ma meno presente, è quello di calura e frescura che rende più contrastata la realtà di uno spazio arido.

Lo spazio sembra avere anche la capacità di far rivivere il mito, che a sua volta ha una forza creativa e creatrice: è capace di diventare verità partendo da una mera invenzione e anche viceversa, di nascere da una verità per poi generare invenzione (in un legame che è sempre vivamente sostenuto dall’autrice e viene ribadito, come abbiamo visto, anche nella citazione introduttiva, quella sul mito «che nasce da una prosaica verità»). L’unione di queste due categorie è a prima vista ossimorico – la concretezza dello spazio è in pieno contrasto con l’elemento immaginifico del mito – ma proprio questa interazione pare interessare la Morazzoni: quel rapporto tra verità e invenzione che gioca un ruolo importantissimo pressoché in tutte le sue opere a sfondo storico e che questa volta lei indaga e ci ripropone anche in narrazioni a sfondo mitologico. Se si considera l’approccio più critico verso la storiografia abbracciato dal postmodernismo, che è la tendenza a fianco della quale si è sviluppata la sua scrittura, non stupisce che la scrittrice racconti i miti come se fossero una presunta verità attraversando a volte, nella narrazione, la linea opaca di confine tra invenzione e verità (storica). Ed è appunto il concreto spazio geografico, ne Il filo di Arianna, che invita a muoversi su quel confine, a ripensare cioè il mito, rendendoci possibile l’immersione in un mondo inventato, a partire dai luoghi storici della loro genesi.

Oltre che all’allusività degli spazi e al rapporto tra la verità e l’invenzione, Marta Morazzoni è fedele, anche in quest’opera, al proprio stile, a un modo di raccontare lento che ci dà l’impressione di essere partecipi di una visita ai luoghi di cui si parla grazie alla presenza di una voce narrante incline a soffermarsi davanti a spazi ed oggetti e a raccontarne la storia. Il tempo tende a rallentarsi e talvolta persino si ferma in questa narrazione, come rallentano i passi del visitatore di fronte a qualcosa che prende la sua attenzione e richiede riflessione. Quella voce ci guida tra i meandri di miti classici e costruisce l’intreccio narrativo attorno ai motivi della partenza, del viaggio, della nostalgia della terra abbandonata, descrivendo pazientemente l’ambiente, evocando i colori e gli odori di una Grecia aspra e assolata, dove si intensificano i profumi del timo e delle altre erbe. Sullo sfondo di quest’esperienza multisensoriale e a nostro avviso in parte anche idealizzata, tesa cioè a scostare lo sguardo dagli odierni dissesti paesaggistici, si materializza il mondo mitologico: i protagonisti dei miti ci si ripresentano in forma nuova, mostrando le proprie debolezze e assumendo dei tratti umani – avvicinandosi in questo modo al nostro mondo quotidiano e facendosi, in breve, meno immortali. E quando la distanza invece viene mantenuta, allora Morazzoni rovescia ironicamente il tradizionale gioco di poteri:

Gli dei non hanno nessuna misericordia degli uomini, nemmeno quando sono nati da loro, se ne curano poco, da distratti, li hanno fatti mortali e li dimenticano. Talmente è diversa la materia di chi è eterno da quella corrotta dal tempo!» (p. 70).

Scritte a partire più specificamente da esperienze di viaggio dell’autrice sono, come sopra rilevato, le due ultime narrazioni della raccolta. Come ne Il fuoco di Jeanne anche in questo caso la scrittrice decide di percorrere i luoghi dei suoi futuri personaggi (di farlo cioè anche prima di sapere che forse diverranno tali). E tali esperienze vengono raccontate come fossero ricerche di pezzi mancanti di un puzzle che può illuminare tanto la nostra odierna conoscenza dei miti (affidata per lo più – e a volte ciecamente – alle traduzioni), quanto i fattori che spinsero a raccontarli nel passato. Uno di quei fattori, di natura geologica, potrebbe aver portato al crearsi di un arcipelago di isolette che ci appare a grande distanza come una manciata di sassi sparsi. Si direbbe che a Sud, l’Europa finisce consumandosi lentamente nel mare. Analogamente, dove finisce la concretezza di quanto è terreno, comincia l’immaginazione e ne nascono dei miti. Capirli pienamente non ci è dato di farlo, e anche dopo aver frugato nelle città e nelle colline greche in cerca di risposte, si ha spesso lʼimpressione – così lascia dire lʼautrice a uno dei suoi personaggi – di trovarsi a terra e procedere «carponi, alla ricerca di un pidocchio nero su un pavimento nero» (p. 60).

  1. Giuliana Sanguinetti Katz, «Marta Morazzoni e la ricerca della libertà», in: *Quaderni d’italianistica*, vol. XVI, No. 2, 1995, p. 295.