Non soffro

• Ester Ferrara •


PID: http://hdl.handle.net/0000-0007-F994-9

Sono stato la lama di una spada
sono stato una goccia nel fiume,
sono stato una stella rilucente,
sono stato una parola in un libro,
sono stato un libro all’inizio di tutto,
sono stato la luce in una lanterna,
sono stato un ponte gettato su sessanta fiumi,
ho volato come un’aquila,
sono stato una barca nel mare,
sono stato un capitano in battaglia,
sono stato una spada stretta in pugno,
sono stato uno scudo in guerra,
sono stato la corda di un’arpa,
per un anno ho vissuto incantato nella spuma dell’acqua.
(Poema gallese del VI sec., cit. da Borges, Che cos’è il Buddismo)

Stavo passeggiando nel bosco, ma il bosco ero io. Giunsi a un ruscello, guardai l’acqua scorrere sui sassi bianchi e levigati e mi sciolsi anch’io, di una lietezza mai avuta. E quando una foglia mi cadde sopra, guardai in alto e vidi il sole. Mi accecò un istante prima di trasformarsi in un riflesso di luce e bere tutta l’acqua che ero diventato.

I miei giorni si erano trasformati. Erano una passeggiata continua in un bosco sconosciuto che esploravo con l’entusiasmo di un segugio. Annusavo la terra umida in cerca di avventura, era estate e poi di nuovo autunno, il bosco brillava dorato nella luce del tramonto e io mi riposavo sotto le felci. Un attimo e sarebbero caduti i primi fiocchi di neve. Bastava pensarlo, bastava desiderarlo e la neve era lì, candida, immensa, una mano amorevole che chiudeva gli occhi ai prati, lentamente. Non sapevo più cosa ero, chi ero, pensavo solo a camminare e a diventare le cose che vedevo. Non mi chiedevo più quali fossero i miei limiti, dove fosse il mio corpo, se ne avessi ancora uno. In quel placido bosco ero, stranamente e indescrivibilmente, tutte le cose.

Sorvolai uno stagno e per un attimo pensai di specchiarmi dentro. Se ho un’immagine, ne vedrò il riflesso, mi dissi. Ad accogliermi però non fu la mia immagine, ma un pesce scuro e sinuoso che divenni in un attimo. Sfrecciai nello stagno qualche istante più in là, fiero dell’insolita energia. E quando mi trasformai nella libellula che volevo catturare, ebbi un sussulto troppo forte per il piccolo cuore di un insetto. Allora capii. Ero morto. Sì, ero morto, e ora mi trovavo qui, senza impegni, senza doveri, senza altra volontà che quella di vivere le mille vite degli esseri che incrociavo o che mi illuminavano, prima che facesse notte.

Per questo mi stupii quando giunsi nei pressi di una sequoia e sentii la voce di quell’uomo. Mi avvicinai, sorpreso. Una voce umana, finalmente! Stava dicendo qualcosa, stava cercando di comunicare con me. Provai a nitrire, a piovere, a cinguettare, ma lui non mi sentì. Sentivo la sua voce venire dal tronco dell’albero, diventava sempre più nitida, ma io non riuscivo a decifrare il significato dei suoi suoni. Con lo zoccolo colpii ripetutamente il tronco e lui si zittì. Sì, mi aveva sentito! Coraggio, coraggio. Ancora un paio di colpi. Fu così che dopo un po‘ anche lui emise dal tronco una serie di rumori che assomigliavano a quelli del mio zoccolo. Un colpo era un sì, due colpi un no. Elementare, era questa la forma più elementare della comunicazione. E ora? Sì, sì, no, no? Sí, no, sì, no. No, sì, no, sì. Accidenti, mi dissi. Così non andiamo avanti.

Passò tanto tempo, passarono tante stagioni.

Mi recavo ogni giorno alla sequoia e ogni giorno l’uomo mi salutava con un semplice sì. La lingua era fatta di un alfabeto, ricordavo. Ogni lettera un colpo. Provai a comunicarglielo: piano, lentamente: un colpo è una A, pausa, due colpi sono una B, tre colpi una C, quattro colpi, non dimentichiamo la pausa, è una D. Impiegai tanto tempo, e lui restò in ascolto. Ero sfinito. Ma lui, dalla sequoia, mi rispose: quindici colpi, pausa, undici colpi, pausa. Contai le lettere come le avevo imparate a scuola e formai la parola: OK.

OK. Così iniziò la nostra conversazione. O quello che potevamo dirci senza cadere a terra stremati. Erano esercizi difficili, che mi consumavano. In qualche modo sentivo che quello che stavo facendo era improprio, perché mi costava troppa fatica. Era un attimo trasformarsi nel gufo reale che vegliava nella notte e un attimo mutarsi nei ciclamini del pendio, ma quell’esercizio mi stancava furiosamente.

L’alfabeto. Alfa e beta, e poi tutte le altre lettere. Che sfida eccezionale dare nomi alle cose. Nominare animali, persone, oggetti e sensazioni assomigliava all’esercizio della trasformazione che andavo perpetuando nel placido bosco. Nominare le cose significava esserne parte ed esserne la loro parte più intima, quella che risponde al richiamo e che ne regola la presenza.

Venni a sapere che l’inquilino della sequoia era un medico. Gli chiesi, con molta fatica, cosa facesse nell’albero e come ci fosse finito, ma lui sembrò non capire. Mi disse che era da tempo che volevano mettersi in contatto con me e mi chiese dove fossi. Volevo rispondere: nello stesso posto in cui si trova lei, ma risposi semplicemente: bosco. Mi trasformai in una foglia d’acero e dissi: acero, venni soffiato via dal vento e riuscii a dire ancora: vento.

Immagino di averlo confuso, perché sono giorni che non si fa più vivo.

Vivo? Sì, anch’io ero vivo, avevo avuto una vita non lunga, a dire il vero, ma piena di buone idee. Ero bravo a scuola e negato per lo sport, ero una classica palla di lardo, ma avevo un accavallamento di canino e premolare che, dicevano, mi rendeva simpatico alle ragazzine e più tardi alle loro madri, quando bussavo alla porta per uscire con le figlie. Mi vestivo bene, mia madre stirava le camicie come una sarta e loro parlavano come ora la sequoia nel bosco. Tim, Willie, Edgar, erano loro i miei compagni di liceo, con loro facevo a botte quando le cose si complicavano e con loro mi ubriacavo al college quando le ragazze ci davano del filo da torcere. Poi venne Emily e le cose cambiarono. Primo figlio, secondo figlio, terzo figlio. Emily voleva una bambina. Quando nacque Peggie, mia moglie cambiò il colore degli occhi. Erano verdi, divennero smeraldi. E le pagliuzze dorate, dentro, si trasformarono in oro liquido. Era il periodo in cui alla Stevenson iniziarono a mandarmi in missione per tutto il Connecticut. Mancavo da casa e la casa mi mancava: il profumo della torta di mele, l’olio per i mobili che usava Emi, le urla dei ragazzi che giocavano in cortile, accidenti, devo aver pensato a tutte queste cose quando l’autocarro invase la mia corsia e mi travolse. Era maggio, era un peccato andarsene così a campionato iniziato. Mi sollevai via dall’incidente, non guardai più sotto e mi risvegliai in questo bosco, tanti, tanti anni fa.

Dottore? Mi sente?

Sono qui, sono tutte le cose.

Ecco, voglio scriverglielo: sono qui.

E lui mi chiede: soffri?

Che domanda strampalata. Perché dovrei soffire. Sto bene, anzi benissimo. Sono leggero, sono la chioma dell’albero che ci sovrasta, sono l’aria tiepida che danza fra i rami. Vorrei dirgli tutto questo, ma riesco solo a dire:

non soffro.

Ester Ferrara

Nata nel 1975 a Torino, ha studiato Indologia e Filosofia Orientale e dopo gli studi si è trasferita a Pondicherry (India) per sei anni, e successivamente a New York, dove attualmente vive con il suo compagno. Lavora insegnando italiano e gestendo un caffè letterario a Lenox Hill. Appassionata di animali, ha fondato una casa per animali abbandonati. Scrive saltuariamente racconti e poesie e riempie di piante ogni angolo in cui vive.

Ester Ferrara,

geboren 1975 in Turin, studierte Indologie und Östliche Philosophie, ging nach ihrem Studium für sechs Jahre nach Pondicherry (Indien) und zog anschließend nach New York, wo sie seitdem mit ihrem Partner lebt. Sie unterrichtet Italienisch und betreibt ein Literatur-Café in Lennox Hill. Als große Tierfreundin hat sie ein Heim für ausgesetzte Tiere gegründet. Gelegentlich schreibt sie Erzählungen und Gedichte, zudem bepflanzt sie, wo immer sie lebt, jeden Winkel.