Paris, Texas
Perché i luoghi non ci dimentichino

• Alberto Giorgio Cassani •


PID: http://hdl.handle.net/0000-0007-F991-C

Di cosa parlano i film di Wim Wenders? In definitiva, di amore e morte. Ma l’amore e la morte hanno bisogno di luoghi in cui potersi svolgere. E questi ultimi sono i protagonisti assoluti dei film del regista tedesco. Wenders ha affermato: «Sostengo che sono i luoghi a inventare le storie e ad assicurarsi che vengano raccontate, che le storie non succedano ‹a prescindere› dai luoghi in cui hanno luogo».1 E, addirittura, egli si è spinto a sostenere: «Forse è per questo che fotografo soprattutto luoghi […]. Per fare appello alla loro capacità di ricordare. Affinché non ci dimentichino».2
La trama di Paris, Texas (1984)3 narra una storia abbastanza normale: lui, Travis Henderson, più grande, lei, Jane, giovanissima. All’inizio, la felicità assoluta. Poi qualcosa si rompe: la gelosia di lui, un figlio che nasce, lui che diventa violento finché lei riesce a scappare. Allora lui vaga senza meta per anni. Un film sui sentimenti in un paesaggio senza sentimenti. E non sto parlando del deserto, che appare nelle prime scene: la «[…] comparsa nel deserto di resti della civiltà rende il paesaggio ancora più vuoto», ha scritto Wenders.4 E ancora: «Il deserto […] è così vuoto che è traboccante di essenziale».5 No, quel paesaggio senza sentimenti (apparenti) è quello delle città del west, con le loro Main Street tutte uguali, coi motel di quarta categoria, con i distributori di benzina sparsi un po’ dappertutto: il paesaggio desolato – The Waste Land di T. S. Eliot (1922) – dipinto da Edward Hopper (1882–1967), che, come scrive Daniele Del Giudice in una prefazione a un libro di fotografie di Wenders, «È comunque il paesaggio che ci è dato, una compresenza grottesca di naturale e artificiale, un fondale della quantità e dei suoi resti. Sono i luoghi dove viviamo i nostri rapporti con gli altri e dove […] ambientiamo i nostri sentimenti».6
C’è un film, in tutto questo, che è l’esatto gemello di Paris, Texas. Parlo di Zabriskie Point (1970). Non solo perché di Michelangelo Antonioni – per Wenders «il regista […] più capace di raccontare spazi e architetture»;7 non solo perché girati entrambi negli States, non solo per la presenza centrale del deserto o per l’identica scena che mostra l’ombra dell’aereo sul terreno, ma anche perché lo sceneggiatore è lo stesso: Sam Shepard.
Paris, Texas, nelle scene iniziali, potrebbe apparire un film ‹western›: le rocce desertiche, l’aquila che si posa sulla cima di una di esse, il saloon, il medico strozzino (persino il nome di uno dei co-sceneggiatori: Kit Carson). Del genere western, però, alla fine, Paris, Texas ha solo la caratteristica di mostrare persone in movimento. A questo tema, del resto centralissimo in Wenders, si legano perfettamente i nomi ‹parlanti› del film: Travis, il protagonista, dal francese traverser, attraversare (e si ricordi il nome della protagonista di Fino alla fine del mondo (1991), Claire Tourneur (‹tornitore›, da ‹tornio›, strumento che gira su se stesso, cioè, forse, colei che è sempre in movimento, fin da quando, a inizio film, compie un detour dall’autostrada e lì inizia il suo viaggio); o Hunter, ‹cacciatore›, nome del figlio di Travis – un bambino che, per la sua maturità, ricorda il Danny di Shining (1980) – che, nel doppiaggio italiano, diventa curiosamente Alex (forse perché Alessandro Magno è stato un grande cacciatore?). Un cacciatore è sempre in movimento e Hunter/Alex sogna di poter andare, addirittura, nello spazio. E poi ancora il nome del motel nel deserto: Marathon, luogo di sosta perfetto per uno come Travis che sta percorrendo, a piedi, mezza America. Ma anche il Keyhole Club (‹Buco della serratura›) e l’Hotel Meridian – che significa luminosità e calore: il luogo ideale per l’incontro, dopo tanto tempo, a Houston, tra madre e figlio.8
Tutta la prima parte del film rientra in quella concezione wendersiana del cinema rivolta, come scrive Maurizio Russo, «esclusivamente alle immagini, a una sorta di rappresentazione pittorica con la macchina da presa».9 Wenders stesso ha parlato di «possessione»10, cioè ossessione+passione per le immagini. Le visioni, infatti, sono più importanti delle riflessioni: «Per me, vedere significa sempre immergersi nel mondo, pensare, invece, prenderne le distanze»;11 e le visioni nascono, per Wenders, come detto, esclusivamente dai luoghi: «I paesaggi, le costruzioni, le strade, le aree di servizio, le stazioni, le ferrovie sono per me cose che occorre rispettare. Questi luoghi chiedono tanto rispetto quanto ne accordiamo agli attori. In generale il cinema se ne frega dei luoghi, ha rispetto soltanto per la storia, ancora maggiore di quello che nutre per i personaggi. Per me viene prima il territorio dei personaggi. La storia è piuttosto ciò che segue il confronto tra i personaggi e il territorio, è la conseguenza di questo confronto».12 Ma l’inflazione d’immagini, anche nei film di Wenders, richiede, a volte, la necessità del vuoto (il deserto, appunto).
La seconda parte del film, invece, nonostante non fosse stata sceneggiata – «Sam e io […] non scrivemmo mai una sceneggiatura completa. Scrivemmo mezza sceneggiatura. La nostra intenzione era quella di usarla per iniziare a girare, e quando fossimo arrivati a metà avremmo conosciuto così bene la nostra storia che avremmo saputo meglio quale seconda parte e soprattutto quale finale sarebbe nato spontaneamente dalla realtà dei personaggi»13 – assume paradossalmente la forma di una storia, anzi di una ‹detective story› – un altro genere assai frequentato da Wenders (L’amico americano, 1977, e Hammett. Indagine a Chinatown, 1982): la ricerca di Jane – «Adesso mi ci metto io e la ritrovo, la devo ritrovare», afferma Travis a un perplesso Walt, suo fratello –; e, al tempo stesso, mostra via via il riaffiorare del passato, con la sempre più lucida consapevolezza che la ‹freccia› del tempo va in una sola direzione e che non si possono guarire le ferite che ci portiamo dentro – «un vuoto che non si può più riempire e che fa parte della sua anima», si dice a un certo punto nel film a proposito di Travis.
Nella scena più famosa, quella all’interno del peep-show a Port Arthur (Texas), il dominio assoluto della visione cede il posto all’ascolto. Travis, resosi conto che vedere Jane senza essere visto da lei lo pone in una posizione di dominio, le volge le spalle per poterle parlare e dire tutto ciò che ha tenuto dentro per tanti anni. Poi, le parti s’invertono: è lei che vede lui e lui non la vede. Alla fine, anche lei non riesce a sostenere lo sguardo dell’ex marito e si volta per riuscire, a sua volta, a parlargli. Una scena memorabile, una delle più belle nella storia del cinema.
Paris, Texas è un film emozionante, a tratti commovente, sui sentimenti, senza essere sentimentale. E, soprattutto, senza happy end. Parla del fallimento dell’amore di coppia – dopo aver perso Hunter/Alex, Walt e sua moglie Anne non sembrano aver più nulla da dirsi –, del fallimento del maschio, soprattutto (tema caro a Wenders sin da Falso movimento, 1975 e Nel corso del tempo, 1976), di fronte al legame, ben più forte, tra madre e figlio.
«Io vorrei molto – ha detto Wenders in un’intervista – che la gente che in futuro vedrà, se li vedrà, i miei film ne ricavi una documentazione sul mondo e sul tempo in cui io ho vissuto e lavorato: le case, i paesaggi, le macchine, di questo frammento di secolo, ma anche i pensieri della gente, le sue speranze o le disperazioni».14
Sine ira et studio.

Fig. 1: Edward Hopper, Office at night, 1940, olio su tela, cm 56,4 cm × 63,8, Minneapolis, Centre Art Walker. Da: Hopper, presentazione di Elena Pontiggia, Milano, Rizzoli-Skira-Corriere della Sera, 2004 [«I Classici dell’Arte - Il Novecento»], p. 137.
Fig. 2.: Edward Hopper, Gas, 1940, olio su tela, 66,7 × 102,2 cm, New York, MoMA. Da: Hopper, presentazione di Elena Pontiggia, Milano, Rizzoli-Skira-Corriere della Sera, 2004 [«I Classici dell’Arte - Il Novecento»], p. 139.
Fig. 3: Edward Hopper, Nighthawks, 1942, olio su tela, cm 84,1 × 152,4, Chicago, Art Institute. Da: Hopper, presentazione di Elena Pontiggia, Milano, Rizzoli-Skira-Corriere della Sera, 2004 [«I Classici dell’Arte - Il Novecento»], p. 141.
Fig. 4: Travis (Harry Dean Stanton), nel deserto, ai confini tra Messico e Texas, still: 1 minuto 56 secondi.
Fig. 5: Jane (Nastassja Kinski) nel peep-show a Port Arthur (Texas), still: 1 ora 38 minuti 12 secondi.
Fig. 6: Jane (Nastassja Kinski) nel peep-show a Port Arthur (Texas), still: 1 ora 43 minuti 10 secondi.
Fig. 7: Jane e Travis nel peep-show a Port Arthur (Texas), still: 1 ora 58 minuti 59 secondi.
  1. Wim Wenders, «In Defense of Places», in: Wim Wenders, A Sense of Places. Texte und Interviews, hrsg. v. Daniel Bickermann, Frankfurt am Main: Verlag der Autoren 2005; trad. it. in: Wim Wenders, a cura di Stefano Francia di Colle, Milano: Torino Film Festival-Editrice Il Castoro 2007, pp. 44–121: 63.
  2. Ibid., p. 84.
  3. Argos Film-Road Movies Filproduktion, 147 min., Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1984.
  4. Wim Wenders, «The Urban Landscape», ottobre 1991, in: Id., The Act of Seeing. Texte und Gespräche, Frankfurt am Main: Verlag der Autoren 1992; trad. it. di Roberto Menin con la collaborazione di Cristina Durastanti: L’atto di vedere. The Act of Seeing, Milano: Ubulibri 1992, pp. 85–93: 92.
  5. Ibid.
  6. Wim Wenders, Una volta, con una intervista di Leonetta Bentivoglio, prefazione di Daniele Del Giudice, Roma: Socrates 1993, p. 13, citato in Paolo Federico Colusso, Wim Wenders. Paesaggi luoghi città, Torino: Testo & Immagine 1998, p. 13.
  7. Wim Wenders, Conferenza presso la Triennale di Milano, 1994, citato ibid., p. 54.
  8. La stanza n. 1520 potrebbe invece alludere, forse, all’anno della circumnavigazione dell’America del Sud da parte di Ferdinando Magellano, un altro grande viaggiatore.
  9. Maurizio Russo, Wim Wenders, percezione visiva e conoscenza, cap. V. L’arte di narrare 2: Wim Wenders, Recco (Genova): Le Mani 1997, pp. 91–117: 113.
  10. Wim Wenders, Lisbon Story, a cura di Mario Sesti, Milano: Ubulibri 1995, p. 13, citato in: P. F. Colusso, Wim Wenders. Paesaggi luoghi città, cit., p. 34, corsivo nel testo.
  11. Wim Wenders, Die Wahrheit der Bilder, trascrizione di un’intervista televisiva per 1-plus, in: Wim Wenders, The Act of Seeing, cit.; trad. it. La verità delle immagini, intervista di Peter W. Jansen, in: Wim Wenders, L’atto di vedere. The Act of Seeing, cit., pp. 42–60: 43.
  12. Olivier Boissière e Dominique Lyon, «Questions aux cinéastes. Entretiens avec John Boorman, Ridley Scott, Terry Gilliam, Wim Wenders», in: Cahiers du CCI, Architecture: récits, figures, fictions, n. 1, janvier 1986, pp. 90–108, trad. it. in: P. F. Colusso, Wim Wenders. Paesaggi luoghi città, cit., p. 46, corsivo nel testo. Ringrazio l’amico Alessandro Vicari e Angelique Swierczynski, per avermi dato la corretta indicazione della fonte originale, errata, invece, nel volume di Colusso.
  13. Wim Wenders, «In Defense of Places», cit., p. 59.
  14. In: P. F. Colusso, Wim Wenders. Paesaggi luoghi città, cit., p. 41.