Robert Gordon, Gianluca Cinelli (a cura di): Innesti. Primo Levi e i libri altrui
Oxford – Bern: Peter Lang 2020, 423 pp., Euro 49,40
ISBN: ‎978-1-78997-450-8

Gian Luigi Beccaria: I «mestieri» di Primo Levi
Palermo: Sellerio 2020, 144 pp., Euro 12,00
ISBN: 978-8838941405

· Tommaso Pepe1 ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-F456-5

L’opera di Primo Levi attraversa in profondità, tagliandone il cuore più oscuro e inquietante, l’intera storia del Novecento. In essa si compenetrano le due valenze più autentiche che Thomas Stern Eliot individuava alla radice di ogni classico della letteratura: la capacità di esprimere con maturità e precisione il segno di un’epoca, illuminandone abissi e zone d’ombra, e di trarre da questa esplorazione domande di senso che toccano il fondo più intimo e nudo della condizione umana. Intessendo raffinata sensibilità critica e scelte di metodo nutrite dal comune bisogno di (ri-)avvicinarsi all’opera di Levi secondo rinnovate angolature prospettiche, i recenti volumi di Robert Gordon e Gianluca Cinelli (Innesti. Primo Levi e i libri altrui) e Gian Luigi Beccaria (I «mestieri» di Primo Levi) testimoniano non solo il grado di solidità e spessore raggiunto dagli studi leviani ma riconfermano, qualora ve ne fosse esigenza, la centralità della traiettoria intellettuale tracciata da Levi nel canone maggiore del Novecento. I due libri disegnano una serie di percorsi analitici sensibilmente diversi: la loro lettura incrociata offre pertanto l’occasione d’abbracciare con uno sguardo d’insieme una serie di punti nodali emersi nel più recente dibattito critico sull’autore.

Innesti. Primo Levi e i libri altrui è un volume che nasce da un ambizioso progetto ermeneutico: rileggere l’opera di Levi attraverso uno studio esaustivo (e sinora mai affrontato in chiave globale) dell’articolato arcipelago di «innesti» intertestuali e dialoghi con i «libri altrui» che l’autore di Se questo è un uomo avrebbe disseminato nel corso della propria attività narrativa e poetica. Lettore «curioso, onnivoro, asistematico» (Gordon e Cinelli, p. 1), Levi coltivò un confronto costante con molteplici campi del sapere, attingendo ai versanti d’una cultura tanto umanistica quanto scientifica sulla scorta d’una curiosità duttile, eclettica, proteiforme. Alla «funzione» del narratore testimone si sovrappongono così le figure dell’autore di racconti di fantascienza, dell’etologo e dell’antropologo, dello scrittore ebraico e piemontese, del poeta o del linguista «dilettante». È precisamente questa vertiginosa poliedricità che i saggi raccolti in Innesti intendono rischiarare, sondando la presenza d’un repertorio di fonti impressionante per ampiezza e diversificazione concettuale da cui Levi avrebbe tratto delineato una sfaccettata e complessa biblioteca mentale: da Baudelaire a Charles Darwin, da Kafka a Calvino, da Konrad Lorenz a Leopardi, o Shakespeare.

I curatori del volume hanno così raccolto i contributi di ventidue studiosi, dipanando questa vasta rete di dialoghi intertestuali attraverso quattro fondamentali direttrici tematiche. Il primo dei percorsi di lettura proposto da Innesti, «Gli strumenti umani» (Parte I), si incentra su una riflessione relativa alla complessa epistemologia della letteratura che Levi avrebbe delineato a supporto della propria attività di scrittore: in che modo, e attraverso quali forme mentali, il linguaggio letterario concepisce la propria esplorazione conoscitiva del reale? Nel caso di Levi tale esplorazione poggia sul continuo interscambio con altre dimensioni e codici del sapere, con altri schemi di lettura e rappresentazione della realtà – si pensi all’apporto che l’autore derivò dal proprio «mestiere» di chimico – mobilitati per «affrontare l’impresa di comprendere il mondo» (Gordon e Cinelli, p. 8). Assi maggiori di questo poliprospettivismo conoscitivo sono da un lato l’incontro con la cultura scientifica, dall’altro una parallela riflessione (meta-)discorsiva sugli stessi limiti e potenzialità del linguaggio naturale. Sulla base di questa diarchia metodologica i contributi di Antonio di Meo, Mario Porro e Patrizia Piredda mirano ad indagare il primo versante della complessa e composita epistemologia leviana, esaminando le connessioni che Levi avrebbe costruito con varie articolazioni del sapere scientifico. Punti centrali di questa analisi sono il rapporto – acutamente esplorato da Antonio Di Meo – con l’opera di William Henry Bragg, premio Nobel per la fisica nel 1915 e autore d’un volume divulgativo, L’architettura delle cose, inserito da Levi nell’antologia personale de La ricerca delle radici in stretta connessione con le dottrine atomistiche del De rerum naturae di Lucrezio; subentrano poi le suggestioni offerte dalla teoria dei quanti di Werner Heisenberg su cui si sofferma Patrizia Piredda nel proprio contributo e, infine, il ricco dialogo intertestuale che Levi coltivò con la figura di Galileo ricostruito da Mario Porro. Gli studi di Alberto Cavaglion, Enzo Ferrara e Stefano Bartezzaghi, ugualmente inclusi in questa sezione del volume, presentano invece un punto prospettico complementare, volto ad esplorare l’incontro/dialogo costruito da Levi con tre autori profondamente diversi e raramente posti in correlazione con la sua opera: Giuseppe Gioachino Belli, Lewis Carroll e Stanislaw Lem. La raffinata analisi di Cavaglion si concentra così su un tema solo apparentemente minore, dato dal rapporto fra Levi e la lingua dialettale, focalizzandosi tuttavia non tanto sul recupero della parlata giudeo-piemontese rievocata in Argon, racconto d’esordio del Sistema periodico, quanto su un esempio d’ars citandi rimasto sostanzialmente inesplorato: quello del riuso calcolato e consapevole di alcuni sonetti belliani che punteggiano, in loci critici mirati, vari passaggi dell’opera leviana. La scelta di appropriarsi alla lingua proverbialmente dissacratoria dei Sonetti romaneschi, osserva Cavaglion, è probabilmente da riallacciare ad una più intima evoluzione dei registri espressivi dell’autore, mettendo in luce una graduale transizione da una intertestualità imperniata su modelli solenni – si pensi alla Bibbia o Dante, presenti già a nella costruzione narrativa da Se questo è un uomo – ad una altrettanto incisiva pratica di citazionismo parodico, «burlesco e corrosivo» (Cavaglion, in Gordon e Cinelli, p. 80), a cui Levi avrebbe fatto sempre più ricorso a partire dagli anni Sessanta per sottolineare il valore di un’umile ma efficace «salvazione del riso». I contributi di Ferrara e Bartezzaghi indagano altre diramazioni di questa curiositas linguistica e letteraria proponendo suggestivi paralleli fra l’opera di Levi e la scrittura di Lewis Carroll – notoriamente ricca di invenzioni lessicali – e con quella di Stanislaw Lem, uno dei maggiori autori di fantascienza del Novecento che, al pari dell’autore di Se questo è un uomo, ebbe a pagare in prima persona le conseguenze devastanti dell’oppressione dei regimi totalitari.

Il secondo percorso di lettura proposto in Innesti, racchiuso nella sezione «La condizione umana» (Parte II), affronta un altro tema fondamentale che Levi avrebbe posto al centro della propria scrittura. I saggi di Vittorio Montemaggi e Martina Piperno indagano infatti le intersezioni attraverso cui l’opera leviana si sarebbe confrontata e incrociata con altri ‹classici› della tradizione occidentale impegnati a sviluppare una teoresi della conditio humana e dei suoi orizzonti di senso: interlocutori privilegiati all’interno della tradizione letteraria italiana sono in modo particolare Dante e Leopardi, a cui Montemaggi e Piperno dedicano i rispettivi contributi. Altri suggestivi itinerari di lettura sono invece quelli proposti da Simone Ghelli e Valentina Geri, che richiamano l’attenzione su incroci a distanza tra la scrittura leviana, la riflessione filosofica di Pierre Bayle e l’opera di William Shakespeare. Se Dante, Leopardi, Bayle o Shakespeare costituiscono così alcuni dei modelli di riferimento con cui Levi entrò in dialogo per sondare «l’essenza intima della natura umana» e la spinosa questione della «sofferenza» – tema «che ha permesso allo scrittore torinese dal piano concreto della storia a quello più speculativo dell’ontologia» (Ghelli, in Gordon e Cinelli, p. 161) – i saggi di Damiano Benvegnù e Pierpaolo Antonello affrontano invece la stessa tematica da un punto di vista speculare, soffermandosi sull’impatto che nella biblioteca mentale dell’autore ebbero le teorie evoluzionistiche sviluppatesi tra XIX e XX secolo. I due imprescindibili nomi di riferimento in tal senso sono quelli di Charles Darwin e Konrad Lorenz, su cui Antonello e Benvegnù concentrano le proprie analisi, scandagliando l’interesse di Levi nei confronti delle teorie dell’evoluzionismo scientifico, i cui concetti di struggle for life e selezione naturale avrebbero condizionato in profondità e non senza inquietanti legami con le ideologie totalitarie il pensiero scientifico del Novecento.

La prospettiva darwiniana, scrive Antonello, «pone infatti l’uomo all’interno di un “deep time”, di una temporalità cosmologica trans-storica» che induce a ripensare e relativizzare in senso radicale la «comprensione cosmologica del “destino” umano e del suo ruolo nel mondo» (Antonello, in Gordon e Cinelli, p. 218). Questa relativizzazione dell’ottica antropocentrica si accompagna tuttavia ad un altro punto fondamentale: Levi avrebbe rifiutato ogni «riduzionismo zoologico» (Benvegnù, in Gordon e Cinelli, p. 207), ponendosi semmai in netto contrasto rispetto alle speculazioni del darwinismo sociale. Ad essere rifiutata è in altri termini la bruta trasposizione di concetti e teorie biologiche entro la dimensione propriamente culturale e simbolica dell’agire umano. Se, come avrebbe osservato Levi, «la cultura ha posto un argine alla pura selezione naturale», la società, le istituzioni «hanno di fatto “de-darwinizzato” l’uomo», evidenziando come, in contrasto con la pura dimensione biologica della «selezione naturale», «la modalità di evoluzione dominante dell’uomo è stata quella culturale» (Antonello, in Gordon e Cinelli, p. 229).

La terza sezione del libro, «Comprendere e narrare il Lager», è dedicata a quella che rimase sempre «la questione centrale e più urgente per la scrittura di Levi, ovvero l’elaborazione dell’esperienza di Auschwitz» (Gordon e Cinelli, p. 12). I saggi di Charles Leavitt, Uri Cohen, Sibilla Destefani, Stefano Bellin e Davide Crosara indagano in tal modo la rappresentazione dell’univers concentrationnaire attraverso una serie di analisi parallele, tesi a saggiare il particolare grado di densità letteraria della scrittura testimoniale dell’autore, nutrito da un’ampia collezione di fonti e riferimenti letterari che permeano sottotraccia la testura espressiva di Se questo è un uomo. Il contributo di Leavitt reinterpreta in tal modo la genesi concettuale della testimonianza leviana sullo sfondo di un più ampio dibattito culturale sorto nell’immediato dopoguerra attorno alla necessità di dar forma ad un «nuovo umanesimo» critico, capace di reagire al vuoto di senso aperto dai terribili traumi della guerra. Se i rappresentanti europei di questa riflessione spaziano da Maritain (Le Sort de l’homme, 1945) a Sartre (L’existentialisme est un humanisme è del 1946) ad Heidegger (Über den Humanismus, 1947), punto di riferimento critico in Italia e, osserva Leavitt, interlocutore implicito di Levi è indubbiamente Elio Vittorini, infaticabile promotore di svariate traduzioni di opere della letteratura della deportazione (si pensi a L’espèce humaine di Robert Antelme) e il cui romanzo Uomini e no avrebbe rappresentato un libro-manifesto di quello stesso clima culturale nel quale si sarebbe inserita la testimonianza leviana. Le analisi di Cohen, Destefani e Crosara mirano per converso a rintracciare nella lingua espressiva di Se questo è un uomo la presenza di tre autori raramente associati a Levi – Vercors, Samuel Beckett e Charles Baudelaire autore dei Fleurs du mal. La raffinata analisi di Stefano Bellin, infine, prende avvio dalla traduzione del Processo di Kafka che Levi curò nel 1983, costruendo una complessa analisi tesa a rivelare i legami fra la riflessione di Levi e quella dell’autore praghese in relazione al tema cruciale della «vergogna».

L’ultimo percorso di lettura proposto in Innesti, «La ricerca di sé» (Parte IV), apre invece una prospettiva profondamente diversa, tesa ad illuminare lo scavo di Levi nella propria autocoscienza di individuo e scrittore, in un percorso dove il dialogo con i «libri altrui» diviene uno strumento per perseguire l’«esplorazione di sé», una discesa nel «sottosuolo» della psiche (Gordon e Cinelli, p. 14). I contributi di Martina Mengoni, Gianluca Cinelli, Mattia Cravero e Marco Belpoliti seguono in tal senso quattro diverse direttrici analitiche incentrate sui rapporti fra Levi e autori diversissimi per collocazione storica, intellettuale, biografica: Thomas Mann, Herman Melville, Ovidio e Italo Calvino. L’incontro con Thomas Mann, ricostruito da Martina Mengoni, avvenne per Levi in un momento doloroso e cruciale, tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta. Se la lettura di Mann avviene prima della frattura biografica determinata dalla deportazione, La montagna incantata, «romanzo del tempo sospeso, dilatato, conchiuso», costituisce tuttavia il «cronotopo modello» su cui Levi avrebbe plasmato la descrizione atemporale dell’univers concentrationnaire (Mengoni, in Gordon e Cinelli, p. 335). D’altro canto l’ambizioso progetto narrativo raccolto nella tetralogia di Giuseppe e i suoi fratelli, che Levi avrebbe inserito nel novero delle opere commentate nella Ricerca delle radici, si sarebbe rivelato fonte d’un allegoria narrativa, incentrata sulla figurazione d’un percorso di risalita e di ritorno alla vita, su cui l’autore sarebbe ritornato ripetutamente nella propria scrittura,– si pensi, per esempio, alla Tregua. Il modello letterario implicito di questo itinerario simbolico, osserva Mengoni, è allora da ricercare nello stesso Giuseppe manniano, che sulla scorta della narrazione biblica della Genesi, «sceso nella fossa e già morto, è risalito per ben due volte nel regno dei vivi» (Mengoni, in Gordon e Cinelli, pp. 335 e 344). All’incontro con Melville è dedicato invece il contributo di Gianluca Cinelli, che individua nell’autore di Moby-Dick «un caposaldo della relazione di Levi con la lettura e la scrittura», in quanto «Melville incarna l’idea del viaggio alla scoperta del mondo e di sé, un modello letterario di scrittore-tecnico e perché, infine, è uno degli autori da cui Levi letteralmente impara a scrivere» (Cinelli, in Gordon e Cinelli, p. 346). Il successivo saggio di Mattia Cravero indaga la centralità che per Levi assume la nozione di ibrido attraverso il confronto con l’opera di Ovidio autore delle Metamorfosi, stilando un percorso analitico concentrato in modo particolare sul Sistema periodico e La chiave a stella. L’analisi conclusiva di Marco Belpoliti prende invece in esame uno dei sodalizi intellettuali e biografici sicuramente più significativi, e rimasto per lungo tempo largamente inesplorato, della biografia intellettuale di Levi: quello con Italo Calvino.

Se Innesti. Primo Levi e i libri altrui delinea in tal modo una prima ed esauriente lettura «intertestuale» dell’opera leviana, l’agile volume di Gian Luigi Beccaria, I «mestieri» di Primo Levi, edito da Sellerio, prende invece avvio da uno dei libri meno indagati, più eclettici e sfaccettati dello scrittore torinese: L’altrui mestiere, raccolta eterogenea di saggi di linguistica, letteratura, astronomia, etologia, botanica, nella quale Levi riversò i frutti d’una multiforme curiosità intellettuale. In questa collezione di incursioni in campi del sapere non propri, «l’altrui mestiere» che più «andava a genio» a Levi, annota Beccaria, era probabilmente «quello del linguista» (Beccaria, p. 10). È così la passione di Levi per il linguaggio, per le sue sfumature e le sue complessità, a costituire il primo sottile filo argomentativo percorso ne I «mestieri» di Primo Levi.

Attraverso tutta la propria opera Levi ha infatti pazientemente e tenacemente disseminato, in forme volutamente asistematiche, un variegato compendio d’antropologia linguistica: dalle riflessioni sul Lagerjargon utilizzato dagli internati nei campi di concentramento alle ricerche etimologiche tese a ricostruire il lessico giudeo-piemontese che farà da sfondo ad Argon, nel Sistema periodico, sino al recupero di proverbi e forme idiomatiche della lingua yiddish trasfuse nella testura espressiva di Se non ora quando?, Levi avrebbe frequentemente arricchito la scrittura narrativa da arricchita da parallele riflessioni sulla funzione comunicativa ed espressiva del linguaggio. Nel primo capitolo de I «mestieri» di Primo Levi, Beccaria compie allora un’operazione critica fondamentale: raccogliere questi molteplici e multiformi frammenti critici per riunirli in un itinerario interpretativo coeso, teso a delineare una visione globale della curiositas linguistica leviana. Punto di partenza di questo scavo analitico è la predilezione maturata dal Levi «linguista» nei confronti d’una particolare branca delle scienze del linguaggio, l’etimologia, che rivela un interesse mai sopito nell’autore verso «la nominazione, il processo con il quale si dà il nome alle cose» (Beccaria, p. 12). Tra i frutti più cospicui di questa predilezione va così annoverata la curiosità leviana nei confronti delle etimologie popolari, riversata in pagine memorabili dell’Altrui mestiere in cui l’autore di Se questo è un uomo da sfogo a questa curiosità commentando, non senza ironia, i processi di nominazione celati dietro a singolari espressioni quali raggi ultraviolenti, aria congestionata, lingua sinistrata, sino ai casi parossistici del cloruro demonio o della tintura d’odio: «insomma quei procedimenti linguistici ben noti nell’italiano popolare quando il parlante riporta l’ignoto al noto» (Beccaria, p. 16).

Con grande sottigliezza, tuttavia, Beccaria nota come questa curiosità etimologica rappresenti uno dei procedimenti concettuali di cui Levi si sarebbe servito per esplorare limiti e risorse espressive del linguaggio (non escludendo in questo scavo le varianti regionali dell’italiano, dei suoi dialetti e dei suoi linguaggi settoriali). Seppur dilettantesca, la passione del Levi linguista non è in altre parole oziosa, ma viene riannodata da Beccaria ad una delle questioni centrali dell’opera dell’autore: quella della «lingua chiara», della precisione linguistica e concettuale che Levi elevò a prisma centrale della propria attività scrittoria. Nel corso della propria opera Levi si sarebbe ripetutamente espresso circa la necessità di impiegare «una lingua trasparente verso il senso e la comunicazione paziente e chiara» (Beccaria, pp. 41–42). Se «fu certamente lo spirito pragmatico del chimico» a indirizzare la scrittura di Levi «verso la sostanza razionale, analitica del discorso» (Beccaria, p. 40), attributo essenziale di questa chiarezza dello scrivere è in primo luogo una soverchia precisione espressiva: Primo Levi, osserva Beccaria, «voleva che le sue parole fossero sempre scelte, pesate, commesse a incastro, con pazienza e cautela: e la sintassi del periodo schiarita, anche quando doveva misurarsi con la descrizione dell’ignobile» (Beccaria, p. 46). È allora sul piano di questa precisione del pensiero che la passione di Levi relativa alla riflessione (meta)linguistica finisce per riallacciarsi, con una profonda analogia concettuale, al suo primo «mestiere» di chimico: se la chimica è «l’arte di separare, pesare e distinguere» (formula tripartita che Levi stesso evoca ne L’altrui mestiere), quest’arte di separare e distinguere la complessità del reale viene ugualmente trasferita sul piano dell’espressione letteraria, impegnata a restituire sia la «superficie visiva, tattile, materica delle cose» (Beccaria, p. 49), sia la loro intrinseca complessità.

Il sistema periodico, osserva allora Beccaria nel terzo capitolo del volume, è l’opera di Levi in cui questo «inestricabile mescolarsi di chimico e di scrittore» ha trovato «una miracolosa soluzione letteraria», libro nel quale «si rivisitano le cose della tecnica con l’occhio del letterato, e le lettere con l’occhio del tecnico» (Beccaria, p. 63). Traccia tematica essenziale dell’autobiografia chimica di Levi è il confronto costante e ininterrotto, a tratti quasi conflittuale, tra una «materia dalle connotazioni intrinsecamente umane», che si rivela «ora vivace, ora inerte, neghittosa, opaca, ottusa, ora malevola, ora furiosa», e il chimico «implume e inerme» (Beccaria, p. 69). Ed è proprio la tendenza a rappresentare la materialità del mondo attraverso codici metaforici sottilmente antropomorfici, in un universo simbolico dove a predominare è il tema «dell’impurità», associato ad una «materia fermentante», «fonte di vita», animata da continui processi di trasfigurazione e mutazione, che Beccaria può enucleare un «punto centrale» della propria lettura: rispetto ad una visione semplificatoria, che vorrebbe ridurre l’opera leviana ad una epitome d’un razionalismo integrale, la lettura del Sistema periodico permette semmai di cogliere «insolubili conflitti tra il “positivismo” della formazione culturale» dell’autore e l’impulso ad «approfondire invece il tema del disordine, dell’oscuro, dell’impuro e dell’ibrido, dell’“anfibio”», il «prevalere della confusione sull’ordine» (Beccaria, pp. 77–78). Il sistema periodico pone a tema questa diarchia conoscitiva: esso si presenta a prima vista «come un elogio dell’imperfezione, dell’impurità, del corruttibile, del disordine che si oppone all’ordine»: tuttavia, dal momento che il disordine e l’impurezza sono costituenti necessari e imprescindibili della vita, il Sistema periodico, annota Beccaria, «è ad un tempo un elogio della vita» (Beccaria, p. 83).

È infine a partire dal connubio fra chimica e scrittura che l’ultimo capitolo de I «mestieri» di Primo Levi tocca un’altra essenziale questione frequentemente evocata nel dibattito critico sull’opera leviana: l’«incontro» tra le «due culture» – scientifica e umanistica – tema a suo tempo sollevato da un celebre saggio del chimico e scrittore britannico Charles Peirce Snow, The Two Cultures, apparso nel 1959 e il cui impatto sulla biografia intellettuale di Levi è stato debitamente rilevato. Il problema della «conciliazione tra cultura scientifica e cultura umanistica, tra visione scientifica e visione poetica del mondo» (Beccaria, p. 98), costituisce così l’ultimo importante filo di analisi ripercorso ne I «mestieri» di Primo Levi. È alla luce di questa compenetrazione profonda, sistemica, che diviene allora possibile riesaminare il percorso intellettuale di Levi alla luce d’una genealogia profonda, che da Goethe o Galileo risale sino a Leonardo o Dante, ed abbraccia parimenti autori contemporanei – si pensi ad un Italo Calvino o ad un Raymond Queneau autore della Piccola cosmogonia portatile, opportunamente citato da Beccaria in chiusura del volume: autori che, al pari di Levi, furono programmaticamente e consapevolmente impegnati a solcare quel sottile legame che lega tra loro scienza e poesia (Beccaria, p. 99).

  1. Southern University of Science and Technology, Shenzhen, Cina.