Un rumore

· Fausto Paolo Filograna ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-F449-4

 

1

Il luogo è un letto, il tempo è chiuso e l’ultima crisi nervosa di Beza è stata senz’altro causata dal mio arrivo.

Prima stavo bene, mi disse. Ora non sto bene. Prima che lei venisse alla Schloßstraße dal Distretto Nord, prima che entrasse in casa, prima che lasciasse la sua valigetta e che io mi sdraiassi su questo letto nel buio più completo, prima che sentisse questi rumori – mentre ci piombavano addosso i rumori della casa a fianco in distruzione e io sentivo solo il bisbiglio della sua voce che usciva come da un tubo del gas.

Io posai la valigetta e scossi la polvere tedesca della Schloßstraße dai miei tacchi, la polvere rumorosa e freddina di Stoccarda, e mi resi conto che ora i miei tacchi poggiavano direttamente sulla malattia, forse (o forse lo capii dopo, e forse capii anche che la polvere e la malattia sono cose connaturate). E forse lo capii anche da come si era fatto strada senza guardarmi, con l’indice in un’oscurità che gli faceva resistenza, mentre i rumori della casa a fianco in distruzione ci piombavano addosso e con l’indice, come dicevo, ora mi sembrava aprire quelle che sarebbero state già macerie, se fossero state in casa sua. Dobbiamo spostarci, dottore, mi disse, dove possiamo capirci, dove posso parlare pianamente, e io gli dissi che sta al paziente decidere dove farsi visitare, dove e come. E quando ebbe acceso ogni luce, ad una ad una – abat jour, faretti, lampadine, led di vari tipi – mi disse che non si poteva fare più niente con quei rumori, e che dovevo chiudere lì la mia partita con la Schloßstraße. Sospirò, o meglio lo immaginai sospirare dal torace e dalle labbra, perché anche il suo sospiro fu schiacciato dai rumori dei vicini. Continuò: da quando lei è entrato non si può fare più niente. Prima stavo bene. Ora no. Prima sentivo questi rumori e non pensavo che lei, venendo dal Distretto Nord, avrebbe... E poi disse che quello non era luogo per una visita, che bisognava farsi visitare da un’altra parte, ovvero fuori, perché questi rumori che sente non sembravano voci, e dunque io mi ci taglio fuori, me ne devo andare, dottore, mi disse. Allora senza che io gli chiedessi dove saremmo potuti andare, visto che la casa era infinitamente piccola, vidi solo l’ultima voce risalirlo in un tremore come gli ascensori risalgono il Bosch Palast, mentre la depressione scivolava giù, sotto il cappellaccio con cui mi era venuto incontro sulla porta, dopo che mi ero lasciato sulla destra il campanile e mi ero infilato in casa sua, dopo la chiamata «dottore… Schloßstraße 6A, ecc.» Sente questo rumore, dottore – mi disse, mentre già si spogliava – mentre ci allontaniamo solo dalla mia stanza, perché non ci possiamo spostare dalla mia casa, dottore. Dato che lei è venuto qua, dato che l’ho chiamata io in questa casa e che i rumori della casa in demolizione ci inseguono persino fuori dalla mia stanza, e anche gli oggetti hanno cominciato a tremare, il comodino, il latte ha cominciato a tremare nella tazza, mi trema la testiera del letto, di notte e di giorno, e ho paura, perché li guardo e penso che vivono più di noi. Se cadono la loro vita non è più finita di prima. La geografia esteriore, dottore, si è totalmente accordata alla geografia interiore, mi disse, mentre si sbottonava la camicia da notte bianca in due larghe maniche, mentre attraversavamo la stanza braccio a braccio e ci allontanavamo in due passando per un breve corridoio, e lui, come dicevo, camminando accese l’abat jour nel corridoio e cominciò a sfilarsi una manica, e fu nudo. Perché non ci si può far visitare fuori di casa propria, dottore, e io gli risposi che certamente, doveva scegliere lui il luogo, ma in un’altra stanza sì, disse lui, non ci si può far visitare fuori casa, questo no, a meno che non si sia gravi, ma in un’altra stanza sì. E quando ebbi chiuso la porta della stanza dopo il corridoio si appoggiò nudamente sul letto e mi disse che era quello il luogo giusto per una visita: perché non si sente più l’assillante rumore di demolizione della casa dei vicini, non più assolutamente, il muro è spesso. Ora non più. La quiete, mi disse. Ah, la quiete. Quando non si sentono più i bambini dei vicini piangere come gatti e si può leggere correttamente in una bella luce come questa. Una luce piccola, morbida, da cosce di donnicciola, quanto basta. Anzi, varie luci. E se si chiede chi è l’architetto, le dico che l’ho scelta io. Ho scelto io le lampadine dottore, ho scelto dove e come metterle per poterci vedere bene, e per questo occorre chiudere tutto. Lei si fida? Del sole, intendo. Se lei, ad esempio, volesse leggere la prefazione del Don Quijote su questa sedia, in comodità, e il sole improvvisamente se ne andasse? O se andasse a posarsi solo sul numero della pagina e lei non vedesse che numeri? Non c’è cosa più odiosa delle imposte aperte e dei rumori delle case in demolizione, dei rumori e delle imposte tutte aperte. Lei le apre ed entra tutto, e l’ombra se ne va, l’ombra necessaria per sentire freddo, per gelare in corretta solitudine in casa propria come è giusto, in silenzio, e leggere forse Cervantes, Gluck, Montaigne, e non i numeri. Al che, per mostrarmi il petto, aprì le braccia come un palinsesto e si posò sul letto, poi sul suo gomito. È a causa del sole che li vedevo, loro, tutti, dottore: gli altri. E io chiesi: chi? Chi? E lui rispose: tutti. E io pensai a quanto era eccessivo pensare tutti in una casa vuota. Cercavo di perdermi con lo sguardo su qualche cosa, ma non c’era niente, nemmeno un quadro, Cervantes, il Don Quijote, allora mi ritrovai a sussurrare la parola tutti come fosse un tappeto, un esercizio della lingua su qualche tratto della bocca, un posto dove lasciare le scarpe e andare via a piedi nudi. Mi ritrovai a pensare alla polvere.

Tutti in questo quartiere sono possibili abitanti di quella casa, tutti possibili uomini della distruzione di una casa come di un’altra, della demolizione, dello scatafascio, di questa o della sua, basta che ne trovino una, e io li posso vedere. Anche senza essere uscito, oggi, io li vedo, questa mattina, mi disse, anche attraverso le imposte socchiuse li vedo, perché la mia casa fu distrutta innocentemente, come tutte le case, e dunque me li ricordo, e il mio occhio non trova imposte dentro di me. E anche se mi metto disteso per lei con le spalle verso la mia finestra come ora, disteso e nudo, sento qualcosa nell’abisso dietro di me, come migliaia di case crollate. E tuttavia, come (o quando) mi sia fatto questa ferita io non lo ricordo. Io non lo ricordo. Ricordo che fu un giorno, ricordo che mia madre era viva, che lei era viva e io leggevo molto, e non stavo bene, solo questo ricordo, e che piano piano cominciò la distruzione nella casa accanto.

2

La distruzione primaria la portò un pakistano. Erano in tre: lui, una moglie e un figlio appena nato, la Trinità della distruzione, venuti qui a folate come se l’albero dell’oriente fosse stato sfollato da un vento le cui foglie caddero esattamente vicino a casa mia. Se l’avessero comprata, o se quel trilocale fosse stato in affitto, questo non lo ricordo. So che il padre senza vergogna diventò proprietario della casa ora in distruzione, della casa e quindi della vita che non era stata più sostenibile, mi disse. Della casa e del bambino che ora era un uomo, e se n’era andato per fortuna prima che la casa fosse pezzi sotto agli occhi del suo stesso guardiano, anzi, per causa del suo stesso guardiano, e dunque prima che lei mi chiedesse come mai abbia io ragionato sul suicidio, e come mai lo avessi pensato nonostante, come vede, la mia ferita non sia poi così male.

Io, dopo essere venuto qui pieno di speranze, figlio di italiani e italiano anch’io nel senso deteriore, sentivo il figlio gridare. E lì capii, o forse lo capisco solo ora, che era tutta una questione di linguaggio, di gole infiammate, o di letteratura. Lo sentivo aggiustarsi nella culla pakistana quando i vicini si trasferirono in quella casa, tra i rumori del trasloco che scomparivano a poco a poco, mentre su un furgone andavano e venivano cose, mobili e attrezzi industriali, suppongo, poiché li sentivo soltanto. In casa rimaneva la madre, vestita costantemente di una tuta, e sempre di una tuta di colori insignificanti, tra rumori di stoviglie e pianti che resero poi la casa di una mostruosità incommensurabile, mi disse. Allora io mi sedetti accanto a lui sull’unica sedia che mi aveva indicato, ovvero l’unica sedia che c’era, e come se volesse insultarmi e offendere il mio disagio disse che non ricordava nient’altro, ma come era cominciata se lo ricordava. E così cominciò, mi disse. Alle sette del mattino arrivava un ciarlare di bicchieri e la madre, con la sua tuta di colori insignificanti, come se la sirena delle fabbriche le suonasse dentro, si faceva afferrare per uno straccio della manica dal signore della distruzione e, buttata sopra un mobile, si faceva sbattere la testa contro il muro, e contro il mio muro, confondendosi coi rumori dei bicchieri; e dopo rilasci di euforia da parte di entrambi rimaneva sola. Frattanto riprendeva la vita nella mia casa, in Schloßplatz, in questo buio seminterrato nel quale mi alzavo la sera e dormivo al mattino, quando il giro delle posate e quello delle botte ricominciava al contrario oltre il mio muro. Questo era il mio passato, quando i miei possibili diventarono esigui, pochi, sempre meno. Non potevano concludersi che con i rumori della distruzione dell’altra casa, che in questo quartiere è del tutto normale. In questo quartiere che nella bella Stoccarda non è altro che il quartiere dei lavori.

Intanto leggevo Euripide, la letteratura greca, e leggevo di come Penteo nelle Baccanti fosse stato guidato dal caso, e avesse fatto del male, sempre per caso, e dopo il male ricominciasse il ciclo per cui nulla cambia. Lei, dottore, ha mai conosciuto il demonio? Io sì. Questo lo ricordo. Aveva la faccia pakistana, l’uomo della distruzione, il mio demonio, e aveva una famiglia, e quando tornava la sera io mi alzavo e quando andava via al mattino io mi coricavo. E mi convinsi che il cristianesimo era una retta, e il demonio era un cerchio nella storia. O forse la retta di cui parlo era un cerchio e il demonio era il capofamiglia della storia e aveva anche un figlio. Io non ebbi mai un figlio. E tutto ricominciava, come diceva Euripide o come diceva forse il demonio, e intanto io leggevo e scrivevo il mio romanzo e poi lo buttavo per poterlo riscrivere meglio.

Questi moti di rivoluzione, o di restaurazione, o nullificazione, facevano il mio giorno e la mia notte, la luce e il buio. Facevano, come dicono i dottori, il mio ciclo circadiano. Poiché nella mia casa non c’era luce come nella loro, e ogni cosa ribadiva solo la mia mortalità. Quando i lavori cominciavano la mattina io attivavo i miei piedi e mi alzavo per chiudere le imposte, per avere buio e assenza di rumori, e quando la sera finivano io riattivavo i miei piedi e mi alzavo per aprire le imposte e avere di nuovo buio e assenza di rumori; e sia che mi alzassi verso destra che verso sinistra io mi vestivo di tutto punto e andavo verso le imposte. Ciò determinò il buio totale della mia casa, e per ciò intendo a causa del demonio.

Penso, dottore, che per alcuni le cose abbiano origini lontane: questa camicia da notte bianca, penso ogni tanto, una famiglia che vive in Asia, madre e padre, in un angolo della loro casa l’ha fabbricata con le proprie mani senza che li abbia mai visti; come Plutone gira, e non l’ho mai visto. Se ci penso, il pensiero al massimo si impregna coi vapori del mare dell’Asia, ne conserva qualcosa, forse nulla, come ai musei qualche fossile da cui uno scienziato ha dedotto l’oceano. Come chi verrà in quella casa dopo la distruzione, che sicuramente non capirà nulla della mostruosità che era stata quella casa, come invece l’ho capito io e come tento di spiegarLe con le parole.

3

Qualche mattina mi sveglio e mi tasto la faccia. Sento come una mostruosità sotto le dita. Chiudo le dita sui miei occhi e sento una smorfia di gatto sotto le mie dita, sui miei occhi, una smorfia di cinghiale, di bestia selvatica, dottore. A volte mi metto a scrivere e a volte ho pensato di chiamarLa. Ho pensato: così gli spiegherò meglio, così gli spiegherò tutto. Capirà. E io gli guardai la faccia e non capii. Capirà, ho pensato, capirà questi rumori perché glieli dirò così. Ma un giorno non si saprà più nulla del cimitero che era stata quella casa prima delle fabbriche, e di cui solo io sento i morti dentro me; e del cemento, e del cemento prima di quel cemento, del quartiere dei lavori e del campanile della Bosch, che mi faceva ombra quando io volevo solo luce. Questa era la mia vita, dopo che ero fuggito da Gallipoli per sentire, per essere costretto a sentire ora, con estrema gioia di abitante, le grida del neonato, del figlio del demonio, quando la sera andavo ad aprire le imposte verso sinistra e quindi mi alzavo; e per pensare a tutto ciò che avrei pensato poi, e che mai prima avrei pensato, prima della chiamata «madre morta»; e per poterle raccontare, come voglio e devo e come provai a scrivere, di come io sia stato quasi totalmente distrutto, di come io sia arrivato al punto che divide l’interezza da qualcosa che è distrutto. Al punto esatto dottore, visto che c’è n’è soltanto uno, e prima c’è l’intero e dopo c’è solo un uomo distrutto. E allora l’ho chiamata.

A quel tempo, che andava al ritmo delle ninnenanne della mamma non mia, dottore, mi alzavo solo verso sinistra, la sera, per aprire le imposte. Prendevo il lembo della giacca, mi sistemavo il fondo dei pantaloni (senza scarpe), tiravo le maniche della giacca perché non restassero sopra i polsini della camicia, sistemavo la cravatta al centro delle falde; poi aprivo le imposte, e il bambino cominciava a piangere. Allora io, vestito di tutto punto, me ne tornavo a letto. Solo i neonati non sono vestiti di tutto punto, dottore, e per questo piangono senza vergogna e soffrono senza pensare, ovvero soffrono soltanto. Allora io mi vestivo di tutto punto e tornavo a letto. Penso non si possa fare altro, dottore. E leggevo Euripide, mentre il demonio urlava e io mi immaginavo sua madre in tuta raspare il pavimento, e il demonio intanto piangeva, e sua madre si copriva di tutti i sensi di colpa di Agave e di Penteo, e io mi riempivo di tutti i sensi di colpa di Euripide per il suo dio e per aver scritto del demonio, e di tutti i sensi di colpa che un lettore forte può provare nella catarsi e nell’immedesimazione. Volevo pensare alla letteratura, o alla mia autodistruzione, ma questo, forse, lo penso soltanto adesso.

Io intanto gli sentivo il cuore e pensavo che avevo scordato il suo nome. Del resto ricordava solo che gli piaceva sentire le lenzuola sotto le dita. Che accarezzava le lenzuola sotto le dita fredde, nonostante, sottolineò, facesse caldo. E sottolineò che quando le dita sono fredde sembrano anche piccole, vecchie, ossute e pletoriche. Tornava a letto, mi disse, perché toccare le cose è tipico degli animali e lui dell’astrazione umana era pieno fino al collo. Ero pieno, mi disse: tornavo a toccare le lenzuola, volevo tornare all’animalità del tatto che ci differenzia dai pazzi, dottore. Il tatto ovvero una forma di udito, o viceversa, come lei ora per ascoltarmi il cuore mi sta toccando con quell’aggeggio – e io lo toccavo, distratto dal suo discorso e dalla sua faccia di moribondo ossuto, o di finto moribondo, e allora per non assordarmi nello stetoscopio fece una pausa, insomma, stette zitto. Per questo mi mettevo a sentire quel bambino, riprese, vestito di tutto punto, perché solo così si può pensare alla vita nelle sue forme più complesse. E dunque mi mettevo con un orecchio sul muro e ascoltavo il demonio che non aveva parole per me, ma tutto ciò che aveva lo riversava sul muro presso il quale io dormivo (voglio dire, ascoltavo). I bambini, mi disse, cantano per addormentarsi, ciarlano per rievocare la consistenza della madre, prima che un messaggio dica loro «madre morta», come successe a me, e prima che ognuno pensi al suicidio correttamente, inevitabilmente, dentro un abito come il suo, con quegli scarponcini di pelle che fanno capire subito che lei soffre il freddo, nonostante questo buon riscaldamento, il che è davvero ridicolo. Se li tolga, se vuole, mi disse, e mi disse anche di appoggiarli accanto alla sedia, ma io non mi tolsi un bel niente. Lei non può proprio lamentarsi dei riscaldamenti di Stoccarda, mi disse, e di tutta la Germania. Perché non si toglie il cappotto e lo appende? Perché non è vestito anche lei di tutto punto? Lei può al massimo percorrere il tratto fino alle imposte, ma non può aprire o chiudere un bel niente, se come minimo non è vestito di tutto punto. Sanno solo, dottore, i bambini, che le loro madri se ne vanno, dicevo: appoggiano qualcosa in camera che ricordi che ci sono state (un vestito, per esempio), e se ne vanno; ma la loro voce, mi disse, non se ne può andare mai. La voce è una laringe, un corpo. Perciò i bambini riesumano la madre nell’anima e nel corpo, evocando nient’altro che se stessi, nel buio, pensando alla madre, toccandosi la gola con le orecchie. Come ora io forse ancora evoco i rumori della demolizione nella mia mente, e per un attimo sono solo miei, e mia madre dopo il messaggio «madre morta». Ed è solo la mia morte, quella, quando mi alzo la sera verso sinistra.

Nel letto vestito di tutto punto, le dicevo, per togliermi dalla testa strane idee, ripassavo a memoria le doghe e la voce del bambino come un brano di Euripide, al posto del brano che non potevo comporre e delle parole che posso dire solo quando mi si sforza la faccia come un gatto; al posto dei rumori che sognavo ad occhi aperti, coi pochi soldi di un seminterrato mentre, come le ripeto, ero totalmente incapace di scrivere e totalmente incapace di avere una mente silenziosa e orchestrata. Di tutto ciò ricordo poco, ma ricordo che volevo sentire solo il suono delle mie parole e delle mie frasi, quando venivano. Se le imposte erano chiuse o aperte non c’era alcuna differenza, perché come le ho detto il letto del lattante era sulla mia parete, sul mio muro che era diventato ora una vera e propria porta sempre aperta. Dormimmo a specchio per un po’. Io come le dicevo ero vestito di tutto punto, e quasi ogni notte (questo credo di ricordarlo) il cartongesso risuonava del gorgoglio della sua laringe di demonio, a tratti bestia, mostro. Io ero nel buio, dottore, vestito di tutto punto, perché solo così si possono pensare pensieri filosofici, pensieri linguistici. Se per qualche minuto mi addormentavo le poche parole che avevo mi si liquefacevano nel liquido bluastro dei sogni, e il demonio mi sembrava un gufo, un felino piccolo, o una delle volpi che avevano cominciato a circolare nella mia testa. E quando il mio sonno diventava profondo forse io e lui amoreggiavamo e litigavamo a versi addirittura, sensualmente vicini o lontani, lupi entrambi, animali nella distruzione, poiché quando vestito di tutto punto dormivo, mi sognavo sempre e solo nudo e animale e demonio, e sognavo il bambino a sua volta nudo e animale nella distruzione.

4

Mi disse che le mie parole le accettava comunque, ma che se anche non ne avessi era lo stesso. Io annuii mentre lo toccavo con un dito e con lo stetoscopio. Perché quei rumori non sembravano voci. Le ho già detto dottore, che ero al buio? Quando cadeva un piatto pensavo a una lite per concretizzare l’aria paludosa, quando sbatteva la finestra mi immaginavo l’inizio della catastrofe, del diluvio, del tuono, della frana nelle foreste, per cui nel terrore della confusione rimanevo con l’orecchio contro il muro, o contro la porta sempre aperta che ci divideva e ci univa, che si era aperta e non sapevo più richiudere. Perché dottore solo quando si è vestiti di tutto punto si può sperare che i propri pensieri si vestano di tutto punto. Ma lei può vestire di tutto punto una frana, un bambino? E tuttora non so se chiamarlo demonio, o cos’altro.

Poi una notte, mesi più tardi, il bambino piangeva facendo risuonare tutto – come sempre d’altronde, ma stavolta mi parve in maniera intollerabile – come un secchio esposto sotto la pioggia che continua a traboccare. Allora piansi anch’io, dottore, senza sapere perché. Capii che vibravo volontariamente come una chitarra con le corde di un’altra chitarra, per la sua musica, che per lui, per il demonio, mi sarei buttato nel Weser di Hamelin come un topo in fuga dal sindaco e dagli appestati. E ripenso ora alla madre inesperta, malcerta come la mia mente, per come la vedo io (ma io ero al buio): si stringe il sopra della tuta per non bagnarselo nella pentola di latte, per capire perché piange, perché piangi?, cercando di vestirlo forse di tutto punto, ma la sua tuta è talmente insignificante che lei non potrebbe vestire nessuno. Io la raddoppiavo la sua domanda, io volevo solo tradurre il grido lupesco, affrancarlo da quegli urli invertebrati, volevo affrancarlo dai rumori che replicavano la mia vita intollerabile, la mia incapacità di composizione nella mia come nella sua casa, e la mia incapacità di parlare di cose chiare. Ma quella notte, poco dopo essermi alzato verso sinistra, nel buio e nell’aria paludosa, lui disse mamma. Mi svegliai preso da una certezza, come se avessi un figlio mio, mi disse, mi svegliai per cambiarlo, per fare il padre, la mia stanza mal illuminata era diventata la stanza del padre, del padre vestito di tutto punto da padre. Ma io non gli servivo, e ciò che disse mi rivoltò soltanto lo stomaco.

Era il periodo dell’università, quando ricordavo me stesso in lunghi viaggi archeologici nella mia famiglia, mi disse, con lunghe lenze che riportassero dal mare di Gallipoli la mia immagine (e la mia ferita), still far from clear. Scrissi del demonio varie volte nel romanzo che stavo scrivendo. E tuttora non so se fosse demonio prima, negli urli di animale, o lo fosse diventato dopo. O se il demonio sia io, e lui l’abbia chiamato come quando, di notte, qualcuno suona e un abitante della casa si sveglia di soprassalto nella casa spenta. E questo rumore non è che l’unico pensiero che mi interessa, e che ho provato e riprovato a scrivere in innumerevoli appunti per il mio romanzo. Che si presenta a volte sotto forma di mappa e che potrei ricapitolare scrivendo delle mie vecchie case, o guardando questa mia ferita come fa lei. Di come me la sia fatta, prima o dopo il messaggio «madre morta» non ricordo, mi disse, come me la sono fatta.