Un’intervista con Laura Mancinelli

· Georg Maag ·


PID: http://hdl.handle.net/21.11108/0000-0007-F448-5

Vorbemerkung

Dem deutschsprachigen Lesepublikum wurde die italienische Erfolgsschriftstellerin Laura Mancinelli hauptsächlich durch ihren 1987 in der Übersetzung von Sigrid Vagt beim Züricher Arche Verlag erschienenen und 1988 auf der Frankfurter Buchmesse – mit Italien als erstem Gastland – präsentierten Roman Mozart in Turin? bekannt. Andere ihrer vielzähligen Werke fanden nur mit wenigen Ausnahmen und teils augenfälliger Verspätung den Weg zu einer Übersetzung ins Deutsche. Ein besonderes wissenschaftliches Interesse erweckte ihr in mittelalterlichem Ambiente angesiedelter Debütroman I dodici abati di Challant. Was bei dieser akademischen Bemühung herauskam, bezeugt ein weiteres Mal mehr, welche Tücken den Umgang mit zeitgenössischer Literatur begleiten und wie sehr Deutungskompetenzen ihr Objekt überstrapazieren können. I dodici abati di Challant wurden im Februar 1981 von Einaudi veröffentlicht (wie übrigens nahezu alle Bücher Laura Mancinellis), mithin in kurzer zeitlicher Distanz zu Umberto Ecos Il nome della rosa von 1980. So bot es sich damals an, sie als eine Replik zu verstehen, wobei die Schnelligkeit der literarischen Antwort erklärungsbedürftig erschien und zu der Annahme verleitete, Ecos Romanmanuskript sei vor seiner Publikation wohl bereits in Intellektuellenkreisen zirkuliert. Das 1991 geführte Interview mit Mancinelli brachte dann allerdings anderes ans Tageslicht und damit zugleich die wissenschaftlich unterbreitete These zum Wanken. Tatsächlich entstand eine erste Fassung von I dodici abati di Challant – wie seit 2002 auch in Mancinellis Rückerinnerungen Andante con tenerezza nachlesbar1 – im Sommer 1968, und der elaborierten Fassung erteilte Einaudi bereits 1979 die Publikationsgenehmigung. Zum Andenken an die 2016 verstorbene Schriftstellerin und liebe Freundin Laura Mancinelli sei besagtes Interview, über das wie über so viele Dinge die Zeit hinweggestrichen ist, nun aus dem Verborgenen geholt.

(September 2021)


G. M.: Che cosa ha spinto la professoressa Laura Mancinelli, docente di letteratura medioevale all’università di Torino a una creatività letteraria?

L. M.: Il desiderio di concedermi una sorta di vacanza dello spirito. Avevo fatto dei lavori lunghi, pesanti, legati alla mia attività professionale che mi avevano un po’ stancata e così mi è venuto in mente di riprendere in mano un romanzo che avevo iniziato tanti anni prima e che poi avevo dimenticato in un cassetto senza mai finirlo. Ma dal momento che non mi piaceva più, l’ho rielaborato ed è venuto fuori I dodici abati di Challant. Quindi il movente primo era di divertirmi e di fare un lavoro diverso che mi gratificasse anche in un certo senso.

Evidentemente Le piace giocare con i registri stilistici storici e con le convenzioni tipiche dei vari generi letterari quali la cronaca, l’exemplum, la novella, il romanzo giallo. Per di più, il lettore dei Dodici abati non può fare a meno di notare dei riferimenti intertestuali al Nome della rosa di Eco – sia che si tratti della scena inaugurale oppure del fatto che alla fine del romanzo l’abate Ildebrando dà fuoco al castello, per non parlare dello schema stesso della vicenda. Si può considerare I dodici abati di Challant una risposta critica al libro di Eco?

Eco? No. No, anzi, io quando ho scritto I dodici abati di Challant non sapevo nemmeno che Eco stesse scrivendo anche lui un romanzo di ambiente medievale. Il mio romanzo è uscito, se non sbaglio, nei primi mesi dell’anno 1981, ma io lo avevo consegnato alla casa editrice Einaudi almeno un anno prima. Quando poi è uscito non avevo neppure ancora letto Il nome della rosa, quindi non è né una risposta, né una parodia, né un’imitazione del romanzo di Eco. Che ci siano delle coincidenze, questo è vero, lo ammetto, sono la prima a riconoscerlo, però non ci siamo mai frequentati in quel periodo e quindi io non sapevo che cosa facesse lui e devo supporre che nemmeno lui sapesse che cosa facevo io.
Per quello che riguarda il livello stilistico del mio testo è vero che mi sono divertita a fare dei pastiches poiché ero fresca di studi sull’avanguardia e i suoi giochi sul linguaggio; ci sono ad esempio pagine di impronta tipicamente medioevale ed altre di stampo moderno.

Nei Dodici abati come più tardi nel Fantasma di Mozart Lei gioca con la struttura del romanzo giallo che nella letteratura italiana contemporanea gode senza dubbio di una certa popolarità, anche grazie al successo della coppia di autori Fruttero e Lucentini. Ha contatti per caso con questi Suoi colleghi torinesi?

Io li conosco, sì, ma li incontro solo ogni tanto o per un cocktail o nel corridoio della casa editrice.

E che significato dà Lei al genere letterario del giallo?

Il romanzo giallo per me è molto divertente. A me i romanzi gialli piacciono e ne ho letti molti, però ora non ne leggo più perché non ne trovo più di veramente belli. Ma se ne trovassi, li leggerei. Però nei miei romanzi siamo sempre sul piano di un finto giallo, cioè mi piace dare un po’ l’idea del giallo anche se in realtà non lo è. Anche perché io non so farlo. Direi che ci vuole una tecnica particolare, uno deve inventare proprio il finale. I miei romanzi invece non seguono questo schema: per esempio I dodici abati di Challant comincia col tono del romanzo giallo perché c’è un po’ di mistero sulla prima morte, ma poi le altre morti sono abbastanza palesi, non c’è mistero e quindi il romanzo giallo si disfa. Questo è anche un gioco che mi piace fare sulla struttura del romanzo. A proposito del Fantasma di Mozart il giallo c’è veramente, nella realtà, perché io queste telefonate le ho ricevute sul serio, però non ho potuto dare una soluzione. Se l’avessi avuta, l’avrei data. Non l’ho potuta dare perché non ho mai scoperto chi è, chi era l’autore di queste telefonate, quindi se non lo so io, come posso dirlo agli altri?

Se non si è ispirata, per motivi cronologici, al primo bestseller di Eco, possiamo parlare del romanzo Ten little niggers di Agatha Christie come di un possibile modello per il Suo I dodici abati di Challant?

Agatha Christie fa parte – assieme a Georges Simenon – degli scrittori che amo di più. Quindi questo racconto, l’ho letto, ho visto anche il film. Però quando io ho scritto I dodici abati di Challant non ci ho pensato, cioè non volevo fare un calco sul romanzo di Agatha Christie. La differenza è che nel romanzo giallo c’è una logica che dev’essere perfetta e infatti in questo romanzo di Agatha Christie c’è. Nel mio non c’è una logica perfetta, c’è solo una logica nel fondamento morale del romanzo. Questi abati sono nel castello per vegliare sulla castità, sull’impegno di castità del duca di Mantova e quindi sono degli ostacoli al normale sviluppo dell’esistenza e soprattutto allo sviluppo dei rapporti d’amore. Questi abati rappresentano dei divieti tant’è vero che sono dei manichini, non sono personaggi con una loro realtà. Perciò li ho fatti morire e questo mi pare giusto. Ce n’è uno, l’abate Mistral, che non è un manichino, che ha una sua personalità. Lui non muore. Infatti s’innamora della marchesa di Challant, se ne va dal castello in cerca d’avventure.

Nei Dodici abati di Challant Lei delude il lettore che all’inizio crede di avere a che fare con un giallo, cioè sconvolge quelle che sono le convenzioni classiche del genere giallo, rinunciando ad esempio alla tipica figura dell’investigatore. Forse perchè non c’è praticamente nulla da scoprire visto che le morti dei Dodici abati sono riconducibili tutte a cause naturali?

Sì, anzi direi di più, sono provocate dalla stessa cattiva coscienza dell’abate, cioè spesso la morte è causata da un aspetto negativo dell’abate. Uno non ama gli animali, anzi è un brutale vessatore degli animali, fa morire l’asinello ecc., ecc. Ed ecco che poi muore per essersi servito di una slitta a molla. Un altro non ama, anzi odia la musica che vede come veicolo di corruzione, come veicolo di libidine addirittura e muore nell’inseguire un bambino che suona un flauto. Ma non è che io rinunci alla figura dell’investigatore, non ce n’è bisogno, perché non solo queste morti non sono misteriose, ma sono dettate da una logica interna del romanzo cioè uno di loro deve morire per lasciare libertà alla gente di vivere come vuole.

In primo luogo viene sospettato di assassinio Venafro, benché ci si accorga durante la lettura che questo sospetto è infondato. Chi si nasconde dietro la figura di Venafro che conserva fino alla fine un’aura di mistero?

Forse l’ho detto altre volte, ma qui ancora non l’ho detto: i miei personaggi – per esempio il duca di Mantova, Goffredo da Salerno, il filosofo anche – hanno sempre dietro un modello reale. E Venafro in realtà è di tutti questi personaggi l’unico che non ha dietro un modello reale.

Ci ha detto che gli abati devono morire perché sono cattivi?

No, non cattivi, fanno il loro dovere di custodire una loro moralità che non è quella della marchesa di Challant.

Questo romanzo è da intendere come una critica illuminista del medioevo?

Sì, certo, non solo del medioevo. È una critica che parte da basi di per sé illuministiche. La critica non è rivolta solo al medioevo perché questi tutori della morale esistono ancora, esistono sempre, soprattutto quelli che dicono: non si deve fare questo, non si deve fare quell’altro, non si deve … Comunque la vita è piena di divieti e questo è fantasticamente un modo per abolire questi divieti.

Oltre ai Dodici abati di Challant, Lei ha pubblicato nell’anno 1989 un altro romanzo a sfondo medioevale2. Che cosa La affascina in particolare di quest’epoca?

Il medioevo mi viene comodo, diciamo così, perché ci lavoro sopra dal momento che mi occupo di letteratura medioevale tedesca e quindi ho sempre un po’ davanti agli occhi proprio il modo di vivere, le scene di corte, il costume di questi secoli del medioevo, che sono poi sempre il dodicesimo e il tredicesimo secolo. Essi fanno parte quasi della mia quotidianità e mi viene abbastanza spontaneo quando voglio raccontare una storia di proiettarla nel medioevo, che serve quindi da contenitore storico e visto che è in gran parte ancora circondato da mistero si presta particolarmente bene a proiettarci delle storie nostre che noi metaforizziamo e proiettiamo su quello sfondo.

Come può essere affascinata dal medioevo ed essere illuminista allo stesso tempo?

Beh, io non vedo una contraddizione, il medioevo è molto misterioso e quindi molto affascinante; misterioso perché dei secoli passati della nostra storia, i secoli del medioevo sono i meno conosciuti. Cominciamo adesso a conoscere abbastanza bene il dodicesimo e il tredicesimo secolo, ma sappiamo poco di quello che c’è prima. Ed è un’età molto affascinante perché in fondo non è affatto così univoca come viene rappresentata ed è piena di correnti e pensieri contrastanti. Infatti è vero che c’è una mistica nel medioevo che poi diventa predominante, ma c’è anche un razionalismo, un cristianesimo razionalista, proprio una corrente razionalistica di pensiero che sta dentro al cattolicesimo e che poi è sempre sull’orlo della condanna per eresia. È tipica la figura di Abelardo che è un grande razionalista e che proprio si scontra con la corrente mistica sul problema della colpa, del peccato … Comunque non vedo perché debba contrastare con il razionalismo.

In altre parole il medioevo per Lei non è cupo?

Il medioevo ha le sue cupezze come tutti i tempi, ma è molto meno cupo del Seicento, dell’età della controriforma che a me pare molto più costrittiva.

Veniamo al Fantasma di Mozart, i cui retroscena vengono da Lei ampiamente illustrati nella postfazione del racconto Amadé3. Dunque questo romanzo non sarebbe un semplice gioco dell’immaginazione, un prodotto della cosiddetta ‹autogenerazione dei testi›?

No, assolutamente, anzi questo è stato in un certo senso forse il romanzo più autentico che ho scritto e mi ha aiutato a superare un momento difficile della mia vita. E lo spunto sono delle telefonate musicali che ho ricevuto veramente e attraverso le quali la musica di Mozart è entrata a far parte della mia vita. In effetti questo romanzo per me è stato consolatorio, anche perché riuscivo ogni tanto a dare una forma umoristica al mio discorso benché in realtà il fondo del romanzo sia molto serio e tutto sommato anche un po’ triste.

A differenza dei Dodici abati di Challant, in questo caso si rafforza il sospetto che si tratti di una replica del Nome della rosa di Eco. Al posto della distruzione del manoscritto di Aristotele subentra qui la finzione più consolatoria del ritrovamento dell’ultimo dialogo di Platone. O si tratta di nuovo di una coincidenza?

Ma, penso proprio di sì. Io ho inventato questo ultimo dialogo di Platone, che chiude il romanzo per tirare un po’ le fila di tutto il discorso e può darsi che io allora avessi letto il romanzo di Eco e che avessi quindi nel fondo della memoria questa storia della poetica di Aristotele, ma sinceramente non ci ho mai pensato. Tutte le cose che noi leggiamo entrano a far parte della nostra esperienza e rimangono come substrati, come cultura di cui forse non siamo nemmeno consapevoli e che poi vengono fuori all’occasione. Non pensavo al Nome della rosa, un romanzo che non mi ha colpito molto e che ho letto così, perché bisognava leggerlo. Ad ogni modo io ho sempre amato Platone e l’atmosfera dei suoi dialoghi, ma veramente questo dialogo che io poi ho inventato è ‹anti-platonico›, perché io nego proprio la trascendenza a cui rimanda sempre Platone e cerco di fare un discorso di sopravvivenza alla morte, ma nel contesto di una vita terrena, di questa vita insomma.

Dunque non è Platone, che parla in questo dialogo, ma Lei?

Sì, un po’ sono io, tant’è vero che in questo dialogo Socrate parla con una donna, cosa che di solito Platone non gli fa mai fare. Insomma che questo dialogo sia un falso si capisce e non era neanche nelle mie intenzioni di farlo passare per autentico.

Mentre nei Dodici abati Lei tende a burlarsi degli impulsi (o relitti) illuministi del lettore, Lei nel Fantasma di Mozart difende rigorosamente il mistero: «è più bello», scrive «immaginarsi la vita come una conchiglia chiusa che conserva in sé tutto un grande mistero e se la si apre non si trova altro che un povero mollusco.» Si nasconde dietro questa propensione all’enigma un rifiuto dell’illuminismo? O, per formulare la domanda in un altro modo: perché Lei che si considera illuminista, rinuncia nel Fantasma di Mozart a svelare il mistero?

Ecco diciamo che rinuncio a scoprire il mistero perché in realtà non sono riuscita a scoprirlo e poi il discorso diventa quello della conchiglia. Io sono passata da una forma di razionalismo rigoroso ad una più aperta, ad un razionalismo che ammette che ci possano essere anche molte cose che restano misteriose. Questo è il fatto che io ho toccato con mano ed è stata forse la prima incrinatura al mio razionalismo rigoroso. Credo che veramente non ci si possa permettere di essere assoluti in nessuna cosa, cioè si può essere sì razionalisti, ma con la consapevolezza che ci sono molte cose che noi non possiamo capire o per lo meno non possiamo ancora capire e che forse un giorno capiremo. La mente umana, la coscienza umana è sempre un po’ in ritardo sui fatti che avvengono. Così il mio razionalismo è diventato – come avrebbe detto Gianni Vattimo – un razionalismo debole. Non c’è più posto per nessuna forma di assolutismo nel nostro mondo.

A proposito della posizione che Lei prende, in maniera tanto prudente quanto decisa, in difesa di una visione razionalista del mondo, vorremmo ancora insistere su un altro aspetto: pensiamo al Miracolo di santa Odilia, il Suo ultimo romanzo che riprende il genere medievale del miracolo, dal quale allo stesso tempo (escludendo il finale ambivalente) sfugge ironicamente. Questo finale che suggerisce la presenza di un vero miracolo, presenza sottolineata dalle campane che suonano, equivale forse a un ritorno alla metafisica cristiana?

No, no, no. A parte che questo particolare l’ho preso dal romanzo Gregorius di Hartmann von Aue – ed io lì ci metto dentro un po’ di ironia e anche un po’ di serietà – il vero miracolo è quello che fanno la badessa Odilia e le sue monache e i suoi collaboratori: raccogliere i bambini sbandati per le campagne e fare una scuola. Questo è il vero miracolo ed è puramente utopico perché non si pensava a dare un’istruzione ai bambini poveri; forse però una minestra sì, quella sì. E poi c’è il tentativo della badessa e del cavaliere di far fiorire un gelsomino in pieno inverno per dimostrare la santità della vecchia badessa che era sepolta lì nella tomba su cui era stato piantato il gelsomino e qui è tutto molto ironico, perché quella poveretta non era santa e resta tale. Però quando questo gelsomino a furia di cure e di paglia bruciata attorno alle radici riesce a fiorire, ecco che si verifica un miracolo vero, cioè le campane che suonano da sole come a dire che il buon Dio dà la sua approvazione a questo falso che loro hanno fatto, ma soprattutto dà la sua approvazione a tutto quel lavoro, quell’opera di carità – sì, questa è la parola giusta – che è stata fatta nel convento.

Se il miracolo di Santa Odilia è quello della forza attiva dell’amore, allora la provocazione del finale carico di metafisica consisterebbe nel fatto che l’onnipotenza divina approva oltre all’amore come carità anche l’amore umano sensuale e proibito tra la badessa e il cavaliere. Cioè da una relazione elementare di amore profano nasce una forma sublime dell’amore. I principi di aemulatio e di imitabile di un santo vengono messi a servizio di scopi piuttosto profani. Imitabile sarebbe l’amore tra i due sessi.

Avete capito benissimo. Tutta questa operosità nasce quando avviene l’incontro, dopo quel primo incontro fuggevole quando erano giovanissimi, tra la monaca Odilia ormai badessa e il cavaliere ormai vecchio e deluso che torna dalle crociate. Fra di loro nasce l’amore, in che forma non ci interessa, che facciano l’amore o no. Ma nasce questo rapporto d’amore completo nel vero senso della parola e da questo rapporto, dalla gioia di questo amore nasce tutta la trasformazione nel convento … E il vescovo Zenone, che è una figura inventata, dà la sua approvazione a tutto questo e il miracolo è infine l’approvazione addirittura di Dio.

Si potrebbe considerare il Fantasma di Mozart come un invito a una nuova esperienza? Dopo che l’illuminismo ha spianato tutto in superfici lisce non rimane come contro-tattica altro che proiettare nuove profondità nella vita. Cioè rivalutarla revocando il processo del razionalismo che ha spezzato l’incantesimo che avvolge il mondo. In altre parole, è necessario creare un mistero per reagire alla banalità e alla superficialità della vita?

Io non ho inventato o creato nessun mistero. Secondo me la vita non è banale per niente, non è superficiale e il mistero c’è, come c’è l’avventura nella vita; avventura nel senso che avventure sono quelle cose che io racconto nei miei romanzi. La vita ci offre degli spunti, anzi ogni tanto veramente infila questo mistero oppure ci dà lo spunto per un’avventura, per cose che stimolano la fantasia e sta in noi saperle cogliere. La vita diventa banale perché siamo noi che diventiamo banali e ci chiudiamo in un’ottica molto ristretta, quella di «fare il proprio lavoro», «farlo bene», «guadagnare i quattrini» e così via. Tornando al Fantasma di Mozart, se io la prima volta che ho ricevuto una di quelle telefonate musicali, avessi buttato giù il ricevitore e non avessi ascoltato e poi, ammesso che questo anonimo mi avesse richiamato, gli avessi detto «non mi rompa le scatole» e basta, ecco che l’avventura non ci sarebbe stata, quindi non si sarebbe messo in moto tutto questo ingranaggio che è di realtà e di fantasia insieme.

Quindi Lei ha cercato il mistero?

No. È venuto lui a cercare me.

Nel Suo piú recente racconto Amadé pubblicato nel 1990 troviamo di nuovo Mozart come protagonista. Nella postfazione di questo libro spiega i motivi che Le hanno dato l’ispirazione per il Fantasma di Mozart, ma non parla dei retroscena di questa novella a carattere storico che illustra un soggiorno torinese di Mozart che realmente è avvenuto nelle ultime settimane di gennaio del 1771. Perché Amadé?

Mi incuriosiva e mi divertiva l’idea di rappresentare Mozart ragazzo quando era a Torino dove ha compiuto i suoi quindici anni e di rappresentarlo anche nel rapporto col padre, che secondo me è stato un po’ falsato. Sì il padre era autoritario com’erano tutti i padri della buona società nel Settecento. Cercava di aprire lui la strada al figlio, mentre il figlio era capacissimo di farcela da solo, ma comunque il rapporto col padre è sempre stato un rapporto di grande rispetto. Poi mi divertivo all’idea d’ immaginare Mozart per le strade di questa Torino sei-, settecentesca che doveva essere più o meno deserta, poco abitata, e comunque io lo immagino sempre solo con quei pochi protagonisti del racconto senza una folla torinese. Non ci sono carrozze, perché ho sempre immaginato le scene di questo racconto proprio come su un palcoscenico.

Ha scritto Amadé in vista dell’attuale anno di Mozart?

Può darsi, sì, sì. L’ho scritto forse anche perché veniva il bicentenario e volevo offrire questo omaggio a Mozart. D’altra parte sono sempre ancora nella scia del Fantasma di Mozart.

Esistono rapporti particolari tra la città di Torino e Mozart compositore?

Credo di sì. Mozart che certamente ha visto la cappella della Sindone, perché andava a suonare in duomo dall’abate Gasparini, non può non essere stato colpito dalla sua architettura che è stata senza dubbio studiata su rapporti musicali. Il discorso stesso della luce è un discorso musicale. Inoltre Torino è una città abbastanza misteriosa con i suoi vicoli seicenteschi dove magari all’improvviso si apre un atrio di un palazzo signorile e con il suo triangolo magico formato dalla Gran Madre di Dio, la cappella della Sindone e l’Accademia delle Scienze – tre posti che del resto io nomino nel Fantasma di Mozart. Potrei benissimo immaginarmi che Mozart pur essendo legato all’illuminismo o forse proprio per questo, fosse fortemente attirato dal mistero di questa città.

Mozart è il Suo unico grande amore?

Come musicista? Come musicista no, ho anche altri amori, ovviamente non è il mio unico grande amore, anche perché mi parrebbe un po’ strano amare un compositore del passato. Ma devo dire che da un po’ di tempo in tutte le vicende della mia vita anche in quelle private, c’è sempre di mezzo Mozart, e allora mi chiedo: me lo immagino io o è vero? Ecco, questo rimane un problema aperto.

Dove sistemerebbe la Sua opera letteraria nel contesto della letteratura italiana contemporanea?

Questa è una domanda a cui non saprei rispondere. Non lo so, nella narrativa minore perché sono tutte cose piccole che scrivo, non riesco a superare le cento pagine, non voglio superarle. Però è, secondo me, la misura giusta, perché non si può pretendere oggi che uno passi ore e ore su un libro di un altro e poi si dica: Ma chi me l’ha fatto fare? Tutto tempo buttato via! Almeno se uno legge uno dei miei romanzi e non gli piace, di tempo ne ha buttato via poco.

Si considera un’autrice postmoderna?

Probabilmente lo sono, ma devo dire che non ho mai riflettuto sulla cosa. Semmai saranno gli altri se vogliono a mettermi questa etichetta. Io non amo le etichette neanche per gli altri scrittori.

Ci sembra che nei Suoi romanzi ci sia un ritorno a una funzione consolatrice della letteratura. Sarebbe d’accordo se essi venissero presi in considerazione all’insegna della provocante massima di Goethe contenuta ne I dolori del giovane Werther: «dal suo dolor ricavane consolazione e lascia che il libretto diventi tuo amico se vicino a te non ne trovi un altro».

Certamente. Adesso non è che io scriva per consolare nessuno, semmai scrivo per consolare me o per divertire me. Sono convinta che l’arte, e qui parlo di tutta l’arte, debba aiutare a vivere meglio. Non voglio dire che debba essere consolatoria, ma credo che debba contenere dei valori positivi e che debba esprimerli in modo che abbiano nella vita di chi legge o guarda o ascolta una funzione se non proprio consolatoria, rasserenante.

Dopo il crollo della metafisica può essere che Lei cerchi una consolazione nella natura e nel suo ritmo ciclico che fa sì che ad ogni autunno segua sempre una primavera. Che cosa significa per Lei la natura e le sue stagioni?

Beh, le stagioni, il ciclo della natura e certo la consapevolezza che dopo un autunno segue una primavera, come dopo un tramonto il sole ritorna, tutto questo rappresenta un po’ il fondamento dell’esistenza. Non sono però una patita della natura, intendiamoci bene, la natura è molto bella se trattata a colpi di roncola. Un giardino abbandonato a sé stesso è una delle cose più brutte, più tristi che ci sia. Natura sì, ma curata dall’uomo.

Il ritorno eterno delle stagioni che Lei sottolinea per esempio nel Miracolo di Santa Odilia, questo ritorno che fa sì che ad ogni autunno segua sempre una primavera è una fuga dalla storia come per esempio lo è per Pavese?

No, assolutamente. Anzi io credo che si debba vivere nella propria storia nel proprio tempo e anche nella propria cultura. La natura indubbiamente è la manifestazione della continua rinascita delle cose, della vita e quindi anche dell’uomo, però non è per me assolutamente in contrasto con la storia anzi, è un fatto storico perfino la natura.

Ultima domanda. Ha altri progetti?

Sì. Ho due cose in cantiere a cui sto lavorando. Una è ancora legata direttamente a Mozart ed è un pezzo teatrale intitolato Una notte con Mozart4 in cui personaggi della vita reale di Mozart parlano rievocandone la figura e poi si trasformano in personaggi delle opere di Mozart e cantano delle arie. Questo è un pezzo che sto facendo per una compagnia teatrale francese. E poi un romanzo di nuovo medioevale, però non c’è Mozart, ma c’è quello che io credo di aver imparato dalla sua musica, cioè l’organizzazione del discorso, del linguaggio e questo vedremo se sarò riuscita a realizzarlo.

Sarà un romanzo storico o no?

No, no. Sarà un romanzo ambientato in un periodo storico ma addirittura se posso ci metto il sottotitolo «romanzo non storico». Il perché si capirà dopo.

(venerdì, 8 febbraio 1991)

  1. Torino: Einaudi 2002, S. 89 ff.
  2. Il miracolo di santa Odilia, Torino: Einaudi, 1989.
  3. pubblicato nel 1990.
  4. Latina: L’Argonauta, 1991.