Literarische Stimmen

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Il Dio selvatico

Franc Arleo

Marecalmo1

Camminiamo nella notte. Piove come fa nei romanzi. Piove come quando nelle pagine due camminano e si sentono solo i loro discorsi stagliati in mezzo al buio e all’acqua che scanala grondaie agli angoli delle strade. L’armatore genovese ad Amburgo promette di farmi imbarcare nel Baltico su uno dei tre mercantili. A primavera. Portano spezie, perlopiù. Mi dice che gli mancano gli ulivi e gli orti appesi sul mare. Cerchiamo assonanze di terre fra Liguria e Lucania. Gli dico di Calvino de La strada di San Giovanni, il libro in cui racconta di suo padre, dei nomi delle piante, della botanica. È tutta lì dentro la nostra storia. La strada di San Giovanni va in due direzioni. La salita porta verso la collina, la campagna, il podere. La discesa va verso il porto, il mare, la città. Il padre cerca di portare il figlio verso la campagna e mentre lo fa dice il nome di ogni pianta che incontra nel cammino. Vuole tramandare filologia di flora. Il figlio, invece, vuole scendere verso il mare, la città, e rifiuta quel cammino. È una costante tensione fra la montagna e la marina, fra padre e figlio, fra la saggezza e l’avventura.
È la tensione fra Ulisse in mare e Polifemo nelle caverne, nell’entroterra. È un mito. Siamo in realtà pastori di mare e marinai di terraferma. Anche a questo serve la geosofia. A riannodare la conoscenza di questa tensione.
Piove che entra nelle ossa qui ad Amburgo. La città col porto senza mare. A quest’ora non potremmo mangiare più nulla se non fosse per qualche locale turco di fronte alla stazione. Mi dice che dieci anni fa non sopportava più di fare l’armatore senza mare. Ora l’equipaggio è ridotto all’osso. C’è la tecnologia. Fare l’armatore non è romantico come prima e nemmeno fare il capitano. È burocrazia. Dieci anni fa mi sono rimesso a coltivare gli ulivi sulle colline. Gli dico che in questi anni, mentre riempio i taccuini di geosofia, ho potuto capire finalmente perché i nostri sono davvero tutti Appennini Mediterranei. Perché dietro le cale e le plaje di terre marinare ci sono stati sempre i pastori e che sono stati i pastori i veri marinari. Che scrivo perché imbarco vite degli altri. Che le vite d’ognuno sono come le mulattiere di mezzacosta. Tutte le vite sono come La strada di San Giovanni. Anche la sua storia, se non sta attento, finisce nei miei appunti. Una volta, mi dice, tornando dalla Grecia, nello Ionio, la tempesta è durata tre giorni e tre notti. Quando sono sceso a terra cadevo ogni due passi e per altri tre giorni non ho potuto mangiare nulla. Mentre racconta la pioggia si è fatta ancora più letteraria. Sfuma contorni. È un velo che inghiotte ogni cosa.
Domani, gli dico, quando me ne vado da qui, scendo a Posillipo, a Pausi-lypòn che in greco vuol dire «pausa dal dolore». A Posillipo, a Marechiaro. Marechiaro: nome che non ha a che vedere con la chiarezza dell’acqua ma con il «mare chianu», il Marecalmo, mare planum.
Entriamo nel locale turco. Scrolliamo le giacche sull’uscio. Chissà come sarà il Baltico a primavera dai mercantili? Balt, bianco. Il mare bianco.

Montagne di mare

Risaccano persino le stelle stanotte, sopra Tortora, Ajeta, Maierà. A un certo punto, ancora adesso, me lo chiedono. Ma perché scrivi di coste, di mare, di plaje, di sabbia, di rocce, di grottebalene che sbuffano, se tu vieni dalle montagne, dagli Appennini?
Rispondo: perché da sempre siamo stati pastori e marinari allo stesso tempo. Perché i nostri sono Appennini Mediterranei. Sono montagne di mare. E perché a quella toponomastica di luoghi marittimi ho appeso un drappo di tempo, fra i più importanti dell’intera vita. Quel drappo, quel trapasso d’anni, chiamato, per farla breve, adolescenza. Quella adolescenza accaduta, appunto, con la fine dell’infanzia di pastorizia, sul mare, accanto alla foce di un fiume chiamato Ogliastro. Allora non conoscevo il Gelbison. Il sacromonte che sovrasta la baia di Elea, oggi Ascea. Il montesanto dei pastori che prima di me, prima dei romani, prima dei greci, per secoli, perseguivano transumanze da oriente verso occidente. È lì che si portava a consacrare la lana per poi scenderla al mare, a riva, dove, caricandola su bastioni, si avviavano verso i golfi di Sorrento, Bacoli, Formia, Gaeta.
Rispondo, perché almeno una volta, o due, o mille, il mare e quelle plaje e quel sale mi hanno salvato la vita. Non il mare di feria, ma quello di controra, di controtempo, di controstagione. Il mare preso in primavera o di primaestate e d’autunno, prima dell’inverno. Così, curvo e ricurvo, ancora oggi, tento riposo in uno squarcio di roccia o su una pagina bianca, in una sabbia anfibia. Un riposo di ventura o un rigo di speranza, nel primo sale di primavera, a bordo campo di un quadro d’appennino.
A spiovere verso oriente, sopra a un lembo di terra che mi vide, non ancora ragazzo, lasciare quelle montagne e le capre e destituire per sempre il mio regno arcadico d’entroterra. E cederlo, così, allo sguardo colmo d’un orizzonte aperto, sotto l’ombra di un palmo di mano, sugli occhi come di un marinaro sperso e ripescato altrove.

Pietanza

Affresco ombre che sanno di creta umida. Grotte e tane d’anime e bestie dentro cui vive la storia della mia gente. Arenarie, arenili, fiumare, ischitelle d’asini e basti. Ulivi laggiù che sbucano all’alba fanno l’argento del mattino. Mi siedo nel quadro di ginestre ancora secche d’inverno a tracciare ipotesi che sanno d’alture, plaje e sale insieme. Così accade che chi crede di stare in crosta di terra alta, appena scorge una slavina ci trova dentro il mare.
Da bambino, pastore di capre di queste montagne, non ho mai raccontato abbastanza che quassù ho giocato con orecchie e tartufi di mare, canestrelli, cannolicchi, litofaghe, piè di pellicani. Non l’avevo ancora visto il mare, al tempo. Qui, sul picchio astuto di nibbi che sfioravano il capo, il mare arrivava in forma di gusci. In forma d’incavi disegnati dal tempo. Ci mettevo dentro aghi di pino, ghianda di quercia, asfodeli di felci, viole, campanelline, mughetto, caglio odoroso. Non lo sapevo allora che in quei giochi mettevo il bosco nel mare. Non sapevo che un giorno, in adolescenza, avrei lasciato queste alture e le capre, per le coste e le tirreniche plaje (Tirreno, in greco Τυρρηνός; nella mitologia greca, eroe eponimo dei Tirreni, gli Etruschi). Nelle grotte di sale, passate a nuoto, non avrei cercato più quei gusci, ma le tracce della montagna, del bosco, le praterie di posidonia, i tenui fiorellini della madrepora, i libani (dall’arabo libāno, corda, erba per corde).
Mentre scrivo l’arancio di sole si è frantumato nel grigio e bianco delle nuvole. La creta d’oro, di prima, è oramai un biancofumo. Le marne, che erano gialle, ora sono cobalto e indaco. Le argentee olivete ora sono nomi che ripasso sotto la lingua: leccino, pendolino, carolea, carpellese, rotondella, nocellara, itrana. Sono belli i nomi di questa palma asciutta finita nelle scritture sacre di ogni tempo e luogo. Riannodo termini che occorrono al cammino: Getsemani, orto degli ulivi, in ebraico gat šemanîm, frantoio. In arabo Jabal at-Tur, monte santo, monte degli ulivi. Siamo legati a questa pianta, al suo frutto, al condimento di pietanza. Pietanza «pietà», perché in origine alludeva al cibo dato in elemosina. Pietà nel significato arcaico di «cibo straordinario», che si dava ai monaci in occasioni particolari. Bisogna allenarsi.
In ogni pietanza bisogna scorgere la pietà.
In ogni filo d’olio bisogna sentire il sacro.
In ogni parola il ripasso di un mistero.

La preghiera del lupo

Seduto su mezzaluna di pietre, fra arbusti di ilatro e ceppi di ginestre disseccate. Nel canto violaceo d’isca e salice umido, fruscia un vento d’alba che scarta fronde d’orizzonte. Appesa a un palo m’appare la testa dissanguata d’un lupo, issata a vedetta d’una valle chiamata Racanello.
L’uomo cacciatore ha esposto l’immolo notturno d’una fera. Vuol dire, questa testa sul palo, per i pastori come me, che ora le capre hanno un predatore in meno nella zona. Segno buono di libertà dovrebbe essere nel mio mattino quest’asta di sangue. Ma non so capire da che parte stare. Dovrei gioire, ballare, mettermi a cantare, quasi. È questo che fanno gli altri quando accade.
La fera ha perso. L’uomo ha vinto. L’uomo signore ha dettato legge di dominio, anche stavolta. Comanda l’uomo sul cane selvatico, sulla capra, sul pesce, sul fiore, sull’isca. Il cacciatore ha aiutato il pastore a dormire, ad evitare ore di veglia all’addiaccio di giorni e notti a venire. Se un lupo è morto allora, almeno per poco, gli altri del branco eviteranno il lezzo di morte, il tanfo di tenebra e carne di quel cane selvaggio appeso all’orizzonte.
Ma sono solo un bambino ora, qui, mentre vedo la scena. Un pastore d’altura, non ancora ragazzo, che negli occhi rimasti semichiusi di quel pezzo d’animale lassù legge l’invoco d’una carezza, d’un aiuto, l’implorazione quieta di un’anima divelta che urla e tuona in gola.
Un pianto viene a scavarmi, a stanarmi dal covo dei miei pochi anni e un ghigno di rabbia mi spolpa i nervi del collo e mi scaraventa i polsi per terra. Sono in ginocchio, ho undici anni, non conosco preghiere, ma prego.
Azzanno parole che non ho mai pronunciato prima: altare, patibolo, pietà, misericordia, anima. Parole che stanno nei libri, i pochi che ho toccato alla mia età. Non frequento chiesa o dottrina qui nei boschi, come fanno, invece, i ragazzi in paese.
La testa di fera sulla pertica apre gli occhi semichiusi, così mi appare ora, fra le lacrime, il sudore e la terra che mi tiro in faccia per chiudermi le palpebre e non vederlo più. La preghiera smarrita si fa imprecazione, bestemmia, maledizione.
L’assassino di quel trapasso di fera, il cacciatore, non è il mio salvatore né mai lo sarà. Non userò mai un fucile, né un cappio, né un coltello, mi prometto dentro. Lo sguardo disseccato su quella testa mi porta a odiarmi. Odio persino la terra. Sono io il colpevole. Sono io che ho ucciso il lupo immolato. Sono stato io che ho lamentato nei giorni passati la fuga delle capre per colpa dei lupi e qualcuno dei cacciatori che mi ha sentito è venuto ad appostare l’animale stanotte.
Piango, prego, chiedo pietà al Dio selvatico, sbatto polsi e mani in terra d’Appennino. Dissanguo parole. Chiedo di morire. Chiedo di finire sul palo. Ucciderò quel cacciatore. Lo troverò. Quel cane d’uomo deve pagare.
Il Dio selvatico alla mia violenza risponde: pietà, perdono, grazia. Il giorno si fa luce. Il sangue sull’asta s’asciugherà prima di sera. Non smetterò preghiera. Non tornerò a casa. Voglio scavare tomba per quegli occhi lassù. Non voglio essere come loro. Non sarò mai come loro. Voglio vegliare le parole. Voglio cambiare nome. Voglio pregare.

  1. Die Texte wurden der Redaktion von Horizonte freundlicherweise vom Verlag AnimaMundi Edizioni als Vorabdruck zur Verfügung gestellt, wofür sich die Redaktion bei Giuseppe Conoci bedankt. Eine erste kleine Auflage ist zur Frankfurter Buchmesse im Oktober 2024 vom Verlag parallel veröffentlicht worden: Franc Arleo, Il Dio selvatico, Otranto: AnimaMundi Edizioni 2024.
Literarische Stimmen

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Lucus