Gian Marco Griffi: Ferrovie del Messico. Un romanzo d’avventura. Milano: Laurana Editore 2022, pp. 824, Euro 22,-, ISBN: 979-1280845023
Negli ultimi tempi ben pochi libri italiani di narrativa sono riusciti a riscuotere il successo di Ferrovie del Messico. Ristampato diverse volte nel giro di pochi mesi e vincitore, fra l’altro, del Premio libro dell’anno di Fahrenheit 2022, la storica trasmissione radiofonica di Radio 3 dedicata ai libri e alle idee, il romanzo si è imposto come un caso letterario. A godere di questa straordinaria accoglienza è l’opera di un autore in cui ha saputo credere una piccola e lungimirante casa editrice come Laurana. E si tratta certamente di un evento incoraggiante, che segnala come talvolta sia ancora possibile a uno scrittore farsi riconoscere per la propria qualità, senza necessitare della promozione di un grande editore.
La risonanza del romanzo di Gian Marco Griffi è arrivata nel frattempo oltreconfine: la versione in traduzione in francese, per Gallimard, è già disponibile in libreria, quella in tedesco pure (Claassen Verlag, 2024), mentre altre ancora sono in fase di elaborazione.
Ferrovie del Messico è uscito con un sottotitolo che lo indica «romanzo d’avventura» e certamente è anche questo, ma vi si potrebbero assegnare pure altre definizioni (romanzo di formazione, romanzo allegorico, romanzo a sfondo storico di tono umoristico) per quanto con la consapevolezza che tali etichette resteranno sempre approssimative ovvero capaci di descrivere solo parzialmente quanto il testo propone. La sua peculiarità consiste infatti proprio nelle plurime impostazioni di genere e quindi di motivi, scelte discorsive, toni e linguaggi che lo strutturano.
Tramite il racconto di situazioni collegate all’incarico ricevuto dal protagonista di stendere una mappa ferroviaria di un Paese a lui sconosciuto (e al tentativo, da parte dello stesso, di liberarsi da un lacerante mal di denti) il testo sviluppa nel contempo una molteplicità di altre storie.
Nel ri-uso originale di noti strumenti romanzeschi, fra cui appunto quello di costruire l’avventura attraverso la quête di un oggetto difficile a raggiungersi (soluzione che ci fa pensare all’Orlando furioso o anche a un romanzo come Se una notte d’inverno un viaggiatore), c’è un ammicco a illustri esempi della tradizione letteraria e al contempo un ossequio di tale tradizione. Nello stesso senso agiscono anche citazioni dirette e indirette da testi di evidente culto per Griffi, non ultimo il borgesiano racconto «Il giardino dei sentieri che si biforcano». Ancora all’Ariosto (ma ovviamente non solo a lui) rimanda pure la capacità dell’autore di tenere connessi gli episodi che tessono la trama della storia principale: ed è impresa non scontata in una narrazione fatta d’innumerevoli digressioni. Capitolo dopo capitolo, l’adozione di differenti prospettive narrative − quasi un narrare caleidoscopico − crea una visione poliprospettica sulle cose e contribuisce a produrre un continuo senso di sorpresa nel lettore. Nulla, del resto, nel romanzo di Gian Marco Griffi giunge come già atteso, nemmeno le scelte compiute a livello espressivo.
Il linguaggio adottato – in gran parte vicino al parlato, ma in ogni caso formulato su un registro plurimo, lessicalmente ricco e fortemente intessuto di immagini («il cielo sembrava smacchiato da mia mamma», 156) − prevede anche brani costruiti come pastiche con il rispettivo uso di espressioni legate a precisi ambiti settoriali: burocratico, militare, medico. In un’intervista apparsa sul sito di un giornale letterario l’autore ha osservato al proposito:
Il mio obiettivo nella scrittura, e di conseguenza in Ferrovie del Messico, è quello di raggiungere una sorta di linguaggio parlato letterato. Raccontare come se si fosse al bar, ma inserendo nel linguaggio dei significati diversi che si intrecciano tra loro. Quindi troviamo il parlato della Asti del 1944 affiancato al linguaggio aulico.1
La lettura del testo ci conferma trattarsi di un linguaggio che nasce da un’attenta costruzione; lo percepiamo tuttavia come se portasse un carattere d’immediatezza e lo gustiamo sbalorditi, frase dopo frase, godendo del riuscito connubio fra agilità espressiva e profondità semantica, sperando che quelle ottocento pagine non finiscano ancora (il che non è speranza illusoria, visto che nel finale, introdotto quasi controvoglia, si profila perfino un seguito della storia).
Nel loro insieme i personaggi delle vicende narrate in Ferrovie del Messico delineano un quadro variegato del mondo umano: tra malignità e atti solidali, ingenuità e furbizia, passione e disorientamento. Non poche riflessioni gnomiche contribuiscono poi a fissare in forma cristallina come vada la vita. A stendere quindi una mappa, e non di binari bensì di destini che s’intersecano, è quindi l’autore più che il protagonista.
L’umanità ritratta nel romanzo è colta muoversi per lo più in uno spazio e un tempo precisi: una provincia d’Italia nel periodo del nazi-fascismo e della resistenza, ma singoli episodi ci portano anche altrove, in altri spazi e tempi, o spaziano in una dimensione inverosimile, vagamente onirica. A fissare i tempi e l’ambientazione dei presunti eventi sono, in forma di titolo ai singoli capitoli, anche delle indicazioni di luogo e data, quasi il testo fosse una cronaca, e una cronaca che ingloba però, oltre al racconto di pretese azioni vissute, anche storie riferite, lettere, sogni, poesie.
Il protagonista, Cesco Magetti, soldato della Repubblica sociale con compiti d’ufficio, è una figura di amabile inetto − ricorda vagamente nel suo fare i fallimentari movimenti del protagonista della bontempelliana Vita operosa, ma diversamente da quest’ultimo non ha velleità di scrittore. Tanto Cesco, quanto i personaggi collaterali del romanzo costituiscono un universo di tipi bizzarri. Seppur siano delineati in termini tendenzialmente caricaturali, ci trasmettono l’impressione di possedere qualcosa di fortemente vitale, oltre che di unico, e ciò in primo luogo grazie ai modi espressivi loro attribuiti. Si pensi ad esempio a un episodio del capitolo intitolato «Cimitero di San Rocco, 10 febbraio 1944» dove a parlare, o per meglio dire a imprecare, è un becchino indignato dai nuovi tempi in cui si trova a dover eliminare dei cadaveri che gli arrivano dalla Germania:
Vedi queste mani? Ormai sono le mani da becchino. Mani infestate dai germi della morte, porcaccia boia. Tre ore di vita, mi ci vuole, per strofinarle. Le mie mani che hanno costruito le ferrovie di mezzo mondo. […].
Chiamò Mec perché venisse con l’antiparassitario. Mec ne spruzzò una quantità industriale.
Spruzza, catròia, spruzza. Questo prodotto non è buono manco per i pidocchi cristo. A noi solo prodotti di seconda scelta. Non funziona più niente, kraut. L’anima la estirpiamo io e Mec con l’antiparassitario, kraut, è per questo che in paradiso si sente profumo di pulito, porcaccia vacca schifosa. Altro che fiori, sto parlando di disinfettante al pino silvestre e gardenia nebulizzata, ristosanto. Più segreti degli angeli sono i suicidi. E va bene, orcoìo, ma che poi finisci in questo schifo di posto mica te lo dice nessuno; mica te lo raccontano che il paradiso è un bollitore industriale che ti spedisce dritto nel culo del nulla, accaèva impestata. Mi capisci, kraut? Più segreti degli angeli sono i suicidi. Ma i calcagni di sant’Alto si fanno gli affari loro kraut, mica possono perdere tempo con gente come noi. E allora se la gente potesse vedere lo schifo che li aspetta, malora boia, ci penserebbe due volte prima di crepare. Si mettono lì a pregare, a supplicare, ma alla fine è un buco nell’acqua. E dell’anima cosa rimane poi? Un grumo di vermi di merda rimane, ecco cosa, risto schifoso (188 e 194-195).
I personaggi di Griffi prendono forma del resto non solo grazie a precisi modi espressivi, ma anche attraverso il dettaglio descrittivo. È il caso del vecchio dalla faccia «impreziosita da baffi a manubrio piuttosto curati» (493) che attende il suo turno nella sala d’aspetto di un ambulatorio: «La pelle bruciacchiata dal sole e la postura stridevano con i suoi abiti eleganti ma dozzinali (braghe di flanella, giacca e cravatta fuori moda), come fosse un contadino che per l’uscita mondana dal dentista avesse indossato la mise da messa grande» (494).
Un’immaginazione esuberante attraversa ogni pagina di Ferrovie del Messico e supporta un narrare che esce dagli schemi di un certo romanzo italiano dell’ultimo trentennio, i cui autori, spesso guidati da volontà documentaria, appaiono piuttosto restii a sfruttare l’inventività e a sollevarsi dal terreno del verosimile. Il titolo stesso presceltovi, depistante per chi fosse in cerca di storie di vita, e anche poco commerciale, annuncia che in questo caso si è percorsa un’altra direzione.
Oltre che da immaginazione, il romanzo è segnato da un umorismo graffiante, ma non tale da annullare il senso del tragico che traspare dalle situazioni, spesso grottesche, via via narrate; ed è un umorismo guidato dalla lezione gaddiana più che pirandelliana, visto che il suo impiego sfocia anche in satira politica e in un’immagine aggrovigliata del mondo. «La nostra vita è un labirinto inestricabile, un gomitolaccio aggrovigliato da un beffardo artefice, i cui capi stanno sommersi in abissi che non raggiungeremo mai.» (378)
Anche le immagini adottate, per nulla logore, illustrano bene come l’idea di realtà che passa nel testo comprenda allo stesso tempo l’esuberante disordine della vita e lo sclerotico ordine dei sistemi (dei sistemi politici in primis). Sempre ancora in termini figurali vengono tracciate nel testo, meta-narrativamente, anche le linee del racconto che si sta svolgendo sotto i nostri occhi: linee che, pur privilegiando la variazione, creano un disegno dalle coordinate chiare e coerenti. Nel disegno testuale di Ferrovie del Messico ci si orienta quindi sempre bene, a differenza di quanto avviene nel leggere la mappa che concerne il mondo referenziale di cui parla il romanzo, e ciò per la complessità stessa della vita (lì rappresentata dalle carambolesche avventure dei personaggi), e a differenza di quanto si coglie nella descrizione del precisissimo impianto di un edificio raffigurante in termini esemplari il sistema politico posto a sfondo storico della vicenda (cap. «Berlino, 7 giugno 1943»), dove l’imprevedibile e il fuori norma restano esclusi. Sono cose note del resto: se nel bosco di un testo letterario ben costruito è difficile smarrirsi, come insegna Eco in Sei passeggiate nei boschi narrativi, nella selva della vita e degli affetti capita più spesso di perdersi, ma nel labirinto di un sistema iperordinato è quasi impossibile trovare via d’uscita.