La rappresentazione letteraria dell’industrializzazione in Campania è stata, lungo tutto il XX secolo, minoritaria rispetto all’interesse prevalente dimostrato per i temi della povertà urbana e della bellezza paesaggistica. Maggiore rilievo assumono allora quei pochi testi che ci restituiscono non solo le cronache di vita in fabbrica ma anche riflessioni e approfondimenti (ora ai limiti della divagazione elzeviristica, ora a quelli dell’inchiesta giornalistica o della ricerca sociologica) sull’importanza dell’industrializzazione nel miglioramento delle condizioni di vita delle classi deprivate e sull’impatto quasi sempre negativo rispetto all’integrità ecologica del paesaggio.
Si intende esaminare dunque, attraverso una prospettiva geo/ecocritica, i testi in cui Bernari, Prisco, Ottieri e Rea hanno raccontato i cambiamenti identitari di luoghi e gruppi sociali legati allo sviluppo industriale, descrivendo l’evoluzione delle classi deprivate rispetto all’economia di fabbrica e le trasformazioni ecologiche e paesaggistiche che l’industria ha provocato.
1. Il tema, il corpus, il genere
La rappresentazione letteraria del meridione d’Italia è stata, in prevalenza, focalizzata su due temi antitetici eppure inscindibili, vale a dire la descrizione idillica del paesaggio, visto come sintesi di natura e cultura, e la descrizione stigmatizzante delle condizioni di vita delle classi deprivate, soprattutto urbane. Poco spazio è stato dato alla rappresentazione del lavoro e in particolar modo delle attività moderne, di cui l’industria è la principale rappresentante. I testi presi in esame costituiscono un’eccezione tanto più notevole in quanto si pongono delle problematiche, derivanti dal contesto socio-culturale, che sono pur presenti in altre opere di diversa ambientazione ma che emergono con caratteri differenti.
La precoce preoccupazione degli ambienti intellettuali di estrazione borghese verso la depauperazione del patrimonio storico-naturalistico, le forti aspettative delle stesse classi borghesi circa la modernizzazione socio-economica indotta dallo sviluppo industriale, la soddisfazione per il miglioramento delle classi subalterne e allo stesso tempo il riconoscimento del rischio di una perdita di identità di queste ultime così come della comunità nel suo insieme, sono questioni che trovano, negli autori scelti, riflessioni e approfondimenti di grande interesse.
Se si considera la tendenza storica a rappresentazioni letterarie del meridione fitte di contrasti, tra una polarità quasi utopica (la descrizione della bellezza storico-naturalistica del paesaggio) e una polarità quasi distopica (la descrizione della povertà urbana), è possibile ipotizzare il tema industriale come una connessione dialettica. La fabbrica è infatti contemporaneamente un’utopia sociale, per le sue opportunità di miglioramento delle condizioni di vita delle classi deprivate, e una distopia ecologica, non solo per il suo impatto sulla bellezza paesaggistica ma anche per le trasformazioni che induce nell’identità culturale delle stesse classi deprivate. Nel corso del Novecento si crea dunque un’ambivalenza interessante anche nella percezione e rappresentazione delle conseguenze dell’industrializzazione: da un lato si apprezzano i miglioramenti materiali e culturali della vita della cosiddetta plebe, dall’altro si paventano i rischi dell’alienazione e spersonalizzazione insiti nel passaggio dalla cultura pre-moderna del meridione arretrato a quella capitalistica.
Giuseppe Lupo considerava Tre operai e La dismissione come punti di inizio e fine della letteratura industriale:
Dal punto di vista cronologico, il periodo aureo va da Tre operai (1934) di Carlo Bernari alla Dismissione (2002) di Ermanno Rea, due romanzi che paradossalmente si collocano in un meridione industrializzato a macchia di leopardo (anziché, com’era più logico aspettarsi, in contesti settentrionali) e con un fulcro geografico ben preciso: gli stabilimenti siderurgici dell’Ilva di Bagnoli, in provincia di Napoli. Questi luoghi, che sembrano esasperare il contrasto tra paesaggio naturale e paesaggio artificiale, assurgono a simboli di un’ascesa e di una caduta, svolgono la funzione di palcoscenico in cui registrare l’avvento e l’agonia della modernità.1
È proprio nel contesto scarsamente industrializzato del meridione che risaltano maggiormente i caratteri peculiari dell’industrializzazione, ormai naturalizzata e quindi non più ‹visibile› nel settentrione che aveva conosciuto la rivoluzione industriale fin dalla metà dell’Ottocento. È significativo che anche una delle opere più riconosciute e apprezzate della letteratura industriale italiana, Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri, sia ambientata in Campania e precisamente a poca distanza dal fulcro geografico dell’Ilva. Analizzando questi tre testi è possibile ricostruire l’intera parabola rappresentativa della letteratura industriale italiana dai suoi inizi, al suo momento apicale, fino alla sua relativa scomparsa. Parabola che corrisponde poi a una progressione storica, referenziale: l’avvio dell’industrializzazione nel meridione, il suo acme, anche in termini di ambizioni e progettualità sociale, la sua decadenza, in linea con la de-industrializzazione europea.
Infine si è deciso di considerare un ulteriore rappresentazione dell’Ilva di Bagnoli, attraverso l’analisi di un testo singolarmente in bilico tra letteratura e altre forme di espressione (l’inchiesta giornalistica, la divagazione storico-sociologica), ovvero L’acciaio di Napoli ha cinquant’anni di Michele Prisco, un elzeviro commissionato dalla stessa Ilva, che si interseca proficuamente con le tematiche evidenziate nelle altre opere.
In questi testi è presente una fitta rete di riferimenti e descrizioni ad alcuni luoghi particolari, non coincidenti ma adiacenti e confrontabili, situati in un arco costiero che va dall’estremità più nord occidentale di Pozzuoli a quella più sud orientale di Castellammare di Stabia. Si tratta di tre stabilimenti industriali – Olivetti di Pozzuoli, Ilva di Bagnoli, Officine Cattori di Castellammare – sorti sulla costa o nelle sue prossimità, tre «fabbriche sul mare» in inevitabile confronto con la bellezza storico-naturalistica del paesaggio e le condizioni di arretratezza e povertà sociale del territorio circostante.
Per poter rappresentare il tema della fabbrica nel paesaggio meridionale la letteratura deve munirsi di strumentazioni adeguate e, non a caso, Tre operai, Donnarumma all’assalto e La dismissione si trovano a cercare una dimensione non esclusivamente letteraria, ponendosi più o meno esplicitamente in dialogo con il contesto extra-letterario (a cui appartiene l’elzeviro di Prisco) e sfiorando, negli ultimi due esempi, i limiti della testimonianza documentaria, dell’inchiesta giornalistica o della ricerca sociologica.
Ma anche Tre operai, se pure «non vuole essere un documento sociologico»2 , come scrive Cantoni nella prefazione alla ristampa del 1951 e ricorda lo stesso Bernari nella Nota del 1965, non tollera l’intromissione di «nessun elemento autobiografico»3 , come spiega ancora l’autore. È finzione narrativa ma allo stesso tempo «esigenza di una nuova obbiettività»4 .
Il romanzo di Ottieri nasce invece da un diario e da un’esperienza scopertamente autobiografica, il cui contenuto è tuttavia la realtà di un fatto storico, l’apertura di una fabbrica olivettiana nel meridione, così come vista e interpretata dallo scrittore in persona, in qualità di testimone attivamente coinvolto, con un ruolo niente affatto secondario.
Infine il testo di Rea è stato più volte ascritto ai modi narrativi non fiction, anche per la sua tendenza a includere elementi referenziali come dati e documentazioni, stralci di report aziendali o di inchieste storiche, giornalistiche, sociologiche e urbanistiche. Eppure anche Ottieri cita e utilizza documenti autentici nella sua opera (segnatamente il discorso di inaugurazione di Adriano Olivetti) e anche Rea utilizza finzioni narrative (le bugie che «assomigliano alla verità»5 ).
Forse questi tre testi appartengono a un certo tipo di realismo, caratterizzato, tra le tante sue declinazioni e sfumature, anche dall’importanza che i luoghi assumono come ancoraggio della narrazione alla realtà, intesa come esperienza di una collettività storicamente determinata e vissuta, per l’appunto, in determinati luoghi e spazi.6
2. Metodologia geocritica ed ecocritica
Si intende provare ad applicare all’ermeneutica del testo letterario alcune metodologie di recente proposta, tanto per evidenziarne i limiti, quanto per saggiarne le potenzialità critiche.
Il metodo geocritico teorizzato da Bertrand Westphal ha suscitato un certo interesse, dichiarando una propria diversità e innovatività rispetto alla critica tematica. Tuttavia, al di là di poche indicazioni teoriche generali, le analisi di Westphal rientrano semplicemente nell’alveo di una delle metodologie critiche di più antica e consolidata tradizione, ovvero appunto la critica tematica. Volendo verificare quindi l’applicazione delle indicazioni teoriche di Westphal alla critica tematica, si utilizzeranno i due principali strumenti metodologici proposti dallo studioso francese e cioè approccio geocentrato e multifocalizzazione.
Il primo consiste, in estrema sintesi, nel centrare il discorso critico sul luogo, come catalizzatore della rappresentazione: l’approccio tradizionale, definito da Westphal come «egocentrato», in effetti, «si articola attorno al punto di vista dell’autore e/o del personaggio […]. Il campo d’azione è, come si vede, pur sempre intrinseco alla letteratura, ma in ultima analisi elude proprio la questione della relazione tra lo spazio di riferimento e lo spazio trascritto»7 . La geocritica d’altra parte, ponendosi «a metà strada tra la geografia del “reale” e la geografia dell’“immaginario”»8 non analizza unicamente i luoghi di per sé, nella loro referenzialità reale, ma nemmeno i luoghi come pura rappresentazione letteraria, senza legami col piano della realtà.
Il secondo concetto critico, la multifocalizzazione, consiste invece nel logico ricorso a più rappresentazioni, di diversi autori, per ricostruire la storia della descrizione culturale di un luogo, senza incorrere negli errori di stereotipia o parzialità che possono verificarsi se si considera un’unica rappresentazione.
L’analisi geocentrata e multifocalizzata, per non ridursi a una semplice astrazione, presuppone quindi lo studio comparatistico di diversi autori che hanno rappresentato il medesimo luogo reale, nello stesso tempo o in una stratificazione di tempi successivi.
Tuttavia trovare dei casi di studio non è facile perché, nonostante ad esempio per la Campania novecentesca ci si trovi di fronte a un corpus molto consistente di testi, è necessario riconoscere che la maggior parte di essi si riferisce a luoghi solo apparentemente confrontabili: se infatti l’assoluta maggioranza di rappresentazioni è relativa alla città di Napoli e ai luoghi compresi tra il golfo e l’immediato entroterra puteolano e vesuviano, non sempre i luoghi descritti hanno una valenza geocritica (riducendosi talvolta a semplici sfondi o alla citazione sommaria di landmark, come i paesaggi o i monumenti più famosi) e non sempre combaciano nei dettagli, essendo preponderanti le descrizioni di spazi generici (il mare, i vicoli). Se insomma le rappresentazioni di Napoli sono innumerevoli, ben poche di queste si concentrano su di un luogo specifico e riconoscibile che non sia un elemento già ridotto a stereotipo da un eccesso di rappresentazione e che abbia al contempo un ruolo determinabile all’interno della narrazione.
Per quanto riguarda l’ecocritica, essa non si occupa solo dei testi in cui sia esplicitamente presente una tematica ecologista ma, più in generale, di tutti quei testi in cui assumano un qualche rilievo la descrizione e l’approfondimento dei rapporti tra uomo e oikos, inteso come «dimora» e «ambiente» degli organismi viventi. La proposta di una prospettiva critica «earth-centered»9 , in The Ecocriticism Reader (1996) di Cheryll Glotfelty e Harold Fromm, si traduce essenzialmente in analisi interdisciplinari che mostrino l’inevitabile intreccio dei discorsi sull’ambiente con le tematiche dell’identità umana e delle questioni di genere, etnia e classe sociale.
Nella presente analisi, la proposta geocritica, in sostanza, è stata utilizzata come guida alla selezione di un corpus per un’indagine tematica, mentre quella ecocritica ha fornito le coordinate per illustrare la complessità dei rapporti uomo-ambiente nelle rappresentazioni prese in esame.
3. Carlo Bernari
Carlo Bernari descrive, in un brevissimo scorcio di Tre operai, pubblicato nel 1934 da Cesare Zavattini per Rizzoli e ambientato tra gli anni Dieci e gli anni Venti, il quartiere operaio sorto tra le Officine Cattori di Castellammare di Stabia e la vicina Ferriera del Vesuvio di Torre Annunziata, uno stabilimento siderurgico assimilato dall’Ilva nel 1918:
Il rione Cattori era formato da un gruppetto di palazzine e due palazzi grandi, costruiti quasi sulla spiaggia, che si stendeva tra Torre Annunziata e Castellammare. Il vecchio Cattori, proprietario della fonderia che sorgeva poco più lontano, cominciò a costruire questo rione per farlo abitare dai suoi operai. Il progetto comprendeva la costruzione di un ospedale, di una infermeria, di uno spaccio cooperativo, e di un albergo che doveva fornire alloggio a tutti quelli che non avevano famiglia. Ma la morte di Cattori mise fine al progetto. Gli eredi erano gente votata a tutt’altri pensieri che non quello di assicurare agiatezza agli uomini abbrutiti dal duro lavoro e dalla vita isolata, e finirono per fittare queste casette per la villeggiatura dei signori che venivano nei mesi estivi.10
Il progetto di Michelangelo Cattori viene presentato da Bernari quasi come un intervento di urbanistica sociale, mirante non solo a fornire alle famiglie operaie alloggi moderni a costi contenuti ma anche a creare un quartiere funzionale, completo dei servizi essenziali come quelli sanitari e alimentari (erano previste anche una scuola e una chiesa, che però lo scrittore non cita).
La narrazione sembra addirittura sfiorare l’utopistico, nell’attribuire implicitamente a Cattori l’obbiettivo di «assicurare agiatezza» agli operai, «abbrutiti», resi quasi non umani, dalle condizioni di lavoro, che quindi sembrano essere considerate inalterabili, non dipendenti dalla gestione capitalistica ma connaturate all’essenza stessa dell’industria. D’altro canto la descrizione della fabbrica in sé ha poco di idilliaco e Bernari racconta la Ferriera dell’Ilva in cui viene assunto l’operaio Marco soffermandosi su caratteristiche che poi diventeranno veri e propri stilemi nella tradizione della letteratura industriale. Abbondano ad esempio le descrizioni basate su forti contrasti visivi, di luce e di colore: «la strada davanti alla fabbrica è rossa di ruggine o nera di carbone: da essa si diparte il lungo ponte di ferro che si spinge sul mare calmo» (148); «le gru e i castelli delle calamite che si ergono neri e snelli contro il cielo di cristallo vi stampano le loro ombre gigantesche. Di lontano, […] si vedono le macchie rosse degli altiforni perennemente accesi» (149). È da notare che, nella descrizione della bruttezza visiva della fabbrica sul mare, gli elementi propri dell’industria vengono accostati a quelli del paesaggio naturale (il mare calmo, il cielo di cristallo), a far risaltare maggiormente il contrasto. Le descrizioni basate sugli altri sensi sono invece equivalenti a quelle di altre realtà geografiche.11
La vita nel rione Cattori appare comunque una prospettiva rasserenante e desiderabile per i tre protagonisti del romanzo e, da notare, soprattutto per Teodoro, in un primo momento impegnato nelle lotte operaie e in un infruttuoso tentativo di trasformazione in intellettuale di partito. Come sottolinea giustamente Antonio Franchini, la sua ambizione rivoluzionaria «si riduce a essere quella di entrare nel mondo piccolo-borghese»12 , a godere, almeno in minima parte, durante le sole domeniche, dell’idillio paesaggistico. Per Teodoro, infatti,
la proposta è questa: fittiamo una casetta in tre su una spiaggia dei dintorni, e abiteremo là tutti e tre, in modo che Anna possa fare per un po’ vita sana, al sole, alla spiaggia, curandosi il più possibile. Egli continuerebbe il suo lavoro abituale, e Marco, se vuole, il suo. E la domenica la passerebbero insieme alla meglio, a divertirsi.13
È il miraggio di «una vita ordinata» (145), borghese, che nasce però da un presupposto inaccettabile per la morale borghese, ovvero una condivisione sentimentale con Anna, la terza operaia del titolo, che si dimostra poi in effetti non sostenibile. L’obbiettivo consiste innanzitutto nella salute al di fuori della fabbrica e, secondariamente, nel divertimento oltre l’orario di lavoro. Tuttavia, anche questa ambizione ridimensionata finisce per essere frustrata e il romanzo, che a un certo punto sembra costituito da un susseguirsi di domeniche, registra la vuotezza del tempo libero in una vita identificata col lavoro.
Si è spesso notato come Bernari sembri voler rovesciare lo stereotipo descrittivo del meridione, rappresentando interminabili giorni di pioggia e «mari sporchi, color marrone» (122). Tuttavia, anche quando racconta di domeniche piene di sole, in cui si sentono grammofoni, chitarre e canti, nei cortili lavati di fresco (cfr. 54), permane una sensazione di scacco che è determinata dalla delusione rispetto alle aspettative. Gli operai vivono l’intera settimana aspettando una libertà e una felicità14 che possono arrivare solo di domenica, e dunque qualsiasi progetto, dalla gita organizzata da Anna e Teodoro, «fallita miseramente» (24), alle lunghe passeggiate solitarie in riva al mare di Crotone o di Castellammare, non può reggere il confronto con le aspettative e finisce per deludere. Gli operai tentano tra loro oziose conversazioni al bar-bigliardo ma «si vede che sono annoiati dalla lunga domenica in ozio» (54).
Sembra anzi che i tipici tratti rappresentativi del meridione aggravino le condizioni di frustrazione dei personaggi, tanto durante le domeniche, in cui le descrizioni, al di là del tempo meteorologico, finiscono per non essere mai davvero idilliche (si veda ad esempio: «La sabbia s’è fatta calda e negli intervalli di silenzio si sente, sul rumore del mare, il ronzio degli insetti che volteggiano intorno agli escrementi. Il puzzo; la calma che si stende lungo tutta la spiaggia», 91), quanto specialmente durante i giorni di lavoro quando la fabbrica diviene «una scatola di vetro sotto il sole. Una gabbia per sudare e soffrire!» (136) Allora «sui lanternini picchia il sole forte» e gli operai «sono nudi fino alla cintola e dalla cintola in giù ricoperti da un semplice sacco» (140).
Il godimento della bellezza naturale durante il tempo libero non basta insomma a riscattare l’angoscia di una vita sospesa tra l’identità alienata fornita dal lavoro e il vuoto della disoccupazione: «un borghese che non lavora è sempre un borghese, ma un operaio disoccupato non è più un operaio. E che cos’è? […] come si può definirlo un operaio che non lavora?» (45)
La stessa utopia urbanistica di Cattori, come raccontata da Bernari, mostra, quasi simultaneamente, anche il suo disvelamento realistico: alla morte del capitalista illuminato i pochi edifici realizzati vengono adibiti a una funzione turistica, per una committenza borghese.
La plaga stepposa e arida, chiusa fra Castellammare e Torre, divenne così una colonia di piccoli borghesi che nelle sere di luna e nelle domeniche lunghe si riunivano in grosse comitive a sorbire bibite ghiacciate, a organizzare gite in barca e in automobile. Gli operai, per i quali erano state costruite quelle case, passavano sull’imbrunire il più lontano possibile da quella gente quasi per non vedere la loro vita meravigliosa. (144)
I borghesi si caratterizzano innanzitutto per una diversa disponibilità di tempo libero («domeniche lunghe», «sere di luna») e di beni materiali come barche e automobili, non ancora di massa negli anni in cui è ambientato il romanzo. Tuttavia, quella che è una differenza oggettiva, sancita dall’economia, ha una serie di risvolti nel campo dell’immaginario, della percezione e della narrazione. Gli operai si allontanano dai luoghi che erano stati costruiti per loro, auto-marginalizzandosi15 per non essere costretti a un confronto con quelle vite borghesi che immaginano come meravigliose.
La medesima spiaggia, prospicente il Rione Cattori e limitata dalla fabbrica, viene vissuta in due modi diversi e così la rappresentazione letteraria descrive questo spazio non come oggettivamente è ma come viene socialmente percepito:
La domenica anche gli operai andavano al bagno, ma si riunivano fra di loro e se ne stavano in disparte in qualche angolo della spiaggia, che non aveva fine; dove gli uomini e le cose, per la vista larga, si perdevano in una nebbiolina lucente che il caldo sollevava dalla rena. Le voci dei villeggianti si facevano eco di tenda in tenda e giungevano fino ai diseredati cariche di vapori, di colori e d’intatta felicità, e sembravano provenire da una terra ignota, dove tutto squilla di piacere e ogni cosa brilla, anche la spiaggia che, da quella parte, invece, appariva più sporca e triste. Il mare batteva quasi sempre su quel lato portandovi sbavature di alghe e di catrame, che seccandosi attiravano mosche, zanzare, nugoli di moscerini. (144–145)
Le espressioni «in disparte», «in qualche angolo», «da quella parte», «su quel lato» identificano l’auto-marginalizzazione dei proletari che, constatando una differenza concreta tra loro stessi e i villeggianti borghesi, contribuiscono a rimarcare quella differenza rispettando un margine invisibile e intangibile ma non per questo meno reale ed effettivo.
Le voci dei borghesi sulla spiaggia arrivano agli operai «cariche di vapori, di colori e d’intatta felicità»: i primi due elementi difficilmente si possono associare a delle voci e l’espressione sinestetica ha un che di fantastico e irreale; semmai, con un’ipallage, sono le tende dei borghesi (antesignane lussuose dei moderni ombrelloni) a poter essere colorate e vaporose. Anche l’intatta felicità altrui non è che una percezione soggettiva, e questa soggettività risulta evidente nei passaggi successivi: «sembravano provenire da una terra ignota, dove tutto squilla di piacere e ogni cosa brilla, anche la spiaggia che, da quella parte, invece, appariva più sporca e triste». Quella che all’inizio è solo una percezione (non individuale però, ma impersonale, condivisa: «sembravano», «appariva») viene poi convalidata dalla realtà e la risacca butta da quel lato i detriti e sporca la spiaggia: forse la parte scelta e ‹acquisita› dai borghesi è proprio quella pulita oppure nessuno pensa di pulire anche la parte operaia, in quanto gli operai stessi finiscono per adeguarsi allo stereotipo dei «diseredati», alla percezione e narrazione borghese delle classi subalterne come gruppi umani senza ordine e senza pulizia. Sono numerosi nel romanzo gli spazi, soprattutto domestici, in cui i personaggi tentano di dare «un assetto anche teorico alla loro vita» (145), cioè di compensare le scarse disponibilità economiche con uno sforzo volontaristico verso l’ordine, la pulizia, il decoro se non proprio la bellezza. Ciononostante la maggior parte degli sforzi è frustrata e, ad esempio, gli operai di Crotone «si sono ridotti a vivere con le loro famiglie in certe baracche di legno e di bandone costruite sulla spiaggia» (87).
La «plaga stepposa e arida, chiusa fra Castellammare e Torre» è inizialmente un non-luogo, un trascurato e anonimo lembo di costa senza particolarità. La costruzione delle Officine Cattori e della Ferriera Ilva sembra avviarla a un destino industriale e richiama operai provenienti dalle cittadine vicine e dal capoluogo campano, tra cui anche i protagonisti della storia. Successivamente però si tenta anche uno sviluppo turistico dell’area, attirando turisti borghesi di non precisata provenienza. Le percezioni che tanto i protagonisti operai quanto i villeggianti borghesi hanno del luogo, raccontate dal narratore in terza persona, non sono quindi classificabili geocriticamente come endogene16 , in quanto nessun personaggio appartiene propriamente a questo rione nuovo, ancora in via di definizione. Tuttavia non si può parlare nemmeno di sguardi esogeni perché la maggior parte degli operai e – possiamo presumere – anche la maggior parte dei villeggianti proviene da luoghi vicini, sostanzialmente simili, e non esperisce il luogo in maniera saltuaria. Lo sguardo degli operai della Ferriera dell’Ilva e soprattutto quello dei tre personaggi potrebbe essere considerato allora come allogeno, nel senso che vorrebbe ma non ha ancora sviluppato un rapporto identitario con il luogo in cui abitano e lavorano. Sono sguardi in transizione, che vorrebbero considerare il nuovo rione e la spiaggia come i luoghi di un futuro benessere familiare, che però idealizzano come raggiungimento di uno stile di vita borghese, non come ottenimento di una piena dignità autonoma. Da qui il continuo confronto e l’inevitabile scacco.
Nel romanzo di Bernari, in conclusione, la fabbrica non è ancora in grado di forgiare un’identità operaia che sia funzionale come alternativa a quella borghese e infatti, secondo Giuliano Manacorda, il fulcro del romanzo sta proprio nella rappresentazione del «popolo come assenza, nella testimonianza di una classe operaia che vive in una condizione di non-classe»17 . La partecipazione di Teodoro e in parte di Marco alle lotte sindacali, le scelte di Anna per tutelare la sua maternità, non indicano ancora un’appartenenza consapevole a un orizzonte di idee e costumi condivisi. Parallelamente i luoghi e gli spazi abitati dai tre personaggi si caratterizzano come non-luoghi, come spazi trascurati e squallidi, in cui l’ombra lunga della fabbrica determina esclusivamente esperienze negative o non significative. La narrazione si concentra quindi su di un continuo sforzo di messa a fuoco di un’identità, che si vorrebbe ancorare a luoghi propri, avvertiti finalmente come familiari e domestici. Tuttavia la minaccia altrettanto continua del licenziamento e della disoccupazione costituisce un limite insormontabile per questa costruzione identitaria, il rischio perpetuo di cadere in una condizione di marginalizzazione più estrema, che, nel meridione soprattutto, prende il nome di plebe.
4. Michele Prisco
Anche Michele Prisco, nato a Torre Annunziata nel 1920, ricorda in un elzeviro il «paesaggio di dune e sterpi»18 della Ferriera del Vesuvio, che lui già conosce come Ilva, e di cui ricostruisce brevemente la storia. Ma è ragionando dell’Ilva per antonomasia, quella di Bagnoli, che lo scrittore abbandona la cronaca o il ricordo elzeviristico, riflettendo precisamente su come l’industria possa farsi promotrice di un’identità alternativa sia rispetto a quella borghese che soprattutto rispetto a quella della plebe.
In Bagnoli anni Cinquanta 1911–1961, una pubblicazione celebrativa voluta dall’Italsider ovvero la nuova società ottenuta dalla fusione di Ilva e Cornigliano nel 1961, Prisco viene invitato a «raccontare la storia di Bagnoli»19 ma soprattutto dello stabilimento siderurgico più importante del meridione. Il suo testo, intitolato L’acciaio di Napoli ha cinquant’anni, nasce quindi da un’occasione e una committenza precisi, eppure contiene una rappresentazione del luogo e del tema degna di attenzione.
L’Ilva di Bagnoli è un’altra fabbrica sul mare, come le Officine Cattori, e la seconda «voce»20 del pamphlet, Glauco Della Porta, economista e membro del Comitato Tecnico Consultivo dell’IRI per la siderurgia, nonché «appassionato meridionalista», non manca di difendere questa scelta, nel suo Bagnoli nell’economia del Mezzogiorno:
Dati i tempi, lo stabilimento fu progettato con ampiezza di vedute e lungimiranza d’intendimenti, sicché, i cinquant’anni trascorsi, solo in parte fanno sentire il loro peso. Anzi, al riguardo, non si può sottacere il fatto che esso, precorrendo veramente i tempi, fu localizzato sul mare, indirizzo che solo oggi ha rivelato la sua profonda importanza tecnico-economica, talché è ormai divenuto una costante nelle decisioni di localizzazione degli impianti siderurgici, soprattutto per quei paesi, come il nostro, che hanno carenza di materie prime e per i quali il problema dei trasporti assume fondamentale rilevanza. (58)
Ma, a differenza del litorale tra Torre Annunziata e Castellammare di Stabia, la costa tra Posillipo e Pozzuoli è stata frequentemente rappresentata e narrata, sin dall’antichità, e risulta ancora oggi disseminata di testimonianze archeologiche e memorie storiche, senza contarne la bellezza puramente paesaggistica. A questo sembra alludere Prisco decidendo di iniziare il suo testo, dopo aver brevemente accennato al «contrasto»21 che costituirebbe la chiave di comprensione di Napoli, con una descrizione del luogo in cui sorge la fabbrica:
A sinistra si leva Posillipo, uno dei miti più tenaci e universali della Napoli folcloristica; a destra si estendono i Campi Flegrei, impenetrabile testimonianza d’una civiltà che s’arretra nel tempo sino a confinare col mito: e così […] il paesaggio alterna alla suggestione dei ricordi della musa virgiliana e alla presenza dei ruderi affioranti nell’intrico della campagna i simboli d’una realtà di lavoro non meno necessaria e vitale all’uomo moderno, soprattutto all’uomo meridionale. (10)
La realtà del lavoro industriale non è insomma meno necessaria, per l'uomo moderno, del paesaggio culturale storico, vale a dire dell’insieme di bellezza naturale e artistica. Si suggerisce implicitamente una dicotomia: le strutture della modernità non sono belle, mancano totalmente di quella dimensione, pure indispensabile all’essere umano; d’altra parte il lavoro non è solo una necessità pragmatica e sociale, bensì un simbolo, attivo nell’immaginario contemporaneo e costruttore di identità al pari e forse più della tradizione storica.
In altre parole la fabbrica minaccia dapprima e poi fattivamente distrugge un paesaggio che non è solo realtà naturalistica e testimonianza storico-culturale ma anche parte indispensabile di un’identità collettiva; allo stesso tempo però la fabbrica si sostituisce a esso, non solo con i suoi vantaggi materiali (progresso, profitto, benessere) ma anche con i suoi simbolismi, quali la dignità del lavoro, l’identità razionalistica, l’orgoglio dell’homo faber.
Lo scrittore decide a questo punto di inserire un’ulteriore descrizione paesaggistica, però in analessi: arretra quindi nel tempo fino agli anni fra il 1904 e il 1911, vale a dire al periodo intercorrente tra la progettazione e l’inaugurazione dell’acciaieria. Nell’immaginario collettivo degli italiani del tempo22 – sostiene Prisco – Bagnoli non è più il luogo dei miti evocato da Virgilio, né tantomeno una nota località turistica e termale, come suggerisce anche il suo stesso nome, bensì il teatro della prima vicenda di camorra accompagnata da una risonanza nazionale. In seguito all’omicidio Cuocolo23 si viene a sapere infatti delle riunioni della malavita organizzata nelle locande bagnolesi e l’opinione pubblica associa a Bagnoli «l’idea di un luogo sinistro dominato dal misterioso e assurdo codice della camorra» (15). Contemporaneamente, in virtù della legge dei contrasti già citata, si inaugura, con molto meno scalpore giornalistico24 , la fabbrica che, in quest’ideale dialettica tratteggiata dallo scrittore, sembra quasi destinata a opporsi all’identità camorristica e allo stereotipo del meridione come paradiso abitato da diavoli.
La strategia retorica prischiana è chiara: non si può negare che la fabbrica distrugga la bellezza naturalistica e antropica, così come gran parte della memoria culturale di un luogo come Bagnoli ma, d’altra parte, si oppone a un degrado sociale altrimenti inarrestabile. Ecco come lo scrittore rappresenta il momento in cui la trasformazione paesaggistica è ormai in atto, tra il 1908 e il 1911:
In tre anni una delle plaghe più belle di questo golfo che sinora non si sapeva concepire altrimenti che come un paese dolce, mite, ma sonnolento, beantesi al sole (nei caffè, nei circoli e nelle redazioni dei giornali cittadini il commento è lo stesso: neh, ma veramente stanno inguaiando Posillipo?), divenne una selva di camini, di fucine per il ferro, irta di enormi tettoie, di fasci di binari, di arditissime torri metalliche, di grandiosi forni per la colata della ghisa.(23)
Quella per il paesaggio è una preoccupazione che possono permettersi solo le classi agiate.25 Non a caso il commento dei borghesi e degli intellettuali, chiusi nei loro caffè, circoli e giornali, viene immaginato e trascritto quasi mimeticamente, con un accenno alla cadenza dialettale del parlato («neh, ma veramente…»), come se fosse insomma parte di un ozioso chiacchiericcio, non una preoccupazione fondata e meditata. D’altronde è la stessa borghesia capitalistica ad aver deciso l’impianto di un’industria siderurgica a poca distanza dalla famigerata Marechiaro e si ritorna infatti a Posillipo, il luogo definito prima come «uno dei miti più tenaci e universali della Napoli folcloristica»: la difesa della bellezza diventa, agli occhi dello scrittore, difesa di un’identità stereotipata del paese meridionale, «dolce, mite, ma sonnolento», ancora una volta parte di quella ‹provincia addormentata› descritta agli esordi del narratore.
Questo esercizio di scrittura è interessante anche per le sue motivazioni extra-letterarie. Tutti gli intellettuali che prestano la loro opera all’industria (e vedremo il caso esemplare di Ottieri), in qualche modo corrono il rischio di non suonare il piffero della rivoluzione e suonare invece quello del capitalismo26 , rischio tanto più presente se si considera, come riassume Cappelli, la «fama di Prisco come “scrittore della borghesia”, alieno alla sensibilità popolare»27 . Lo stesso Cappelli sostiene però che questa sensibilità «in questo testo “d’occasione” si dimostra spiccata quanto inattesa, nella forma di un’acuta percezione del significato liberatorio, politico e sociale, del lavoro» e soprattutto del «lavoro operaio»28 . Ciononostante lo scrittore borghese rientra perfettamente nella visione della sua classe sociale «se, a ben vedere, l’industrializzazione di Napoli è anch’essa uno dei “miti” della borghesia dell’epoca»29 . Si potrebbe dire che qui Prisco stia narrando propriamente la riflessione comune dell’intellighenzia borghese, divisa tra nostalgia per la bellezza perduta, approvazione per il miglioramento delle condizioni sociali delle classi subalterne e timore e fascinazione insieme verso il potere dell’egemonia culturale espressa dal capitalismo industriale, a cui resistere politicamente o aderire oppure soggiacere in quanto intellettuali.
È da notare che, nel descrivere la nostalgia per la bellezza perduta, Prisco decida di inserire contestualmente una descrizione del nuovo paesaggio industriale in termini di arditezza e grandiosità. Poche righe più avanti, cita infatti direttamente l’articolo con cui un «anonimo cronista» (31)30 raccontava l’evento dell’inaugurazione:
Lo spettacolo di tutta quella massa numerosa ed intricata e stupefacente di costruzioni in ferro, di tutte quelle officine, quei camini, quei binari che avevano per sfondo l’immensa conca del golfo e restavan quasi chiusi nel verde di tutte le tinte dell’Isola di Nisida, dei Campi Flegrei e di tutta la collina che da Pozzuoli si avanza nel mare, lo spettacolo, ripetiamo, era maestoso. (27)
Evidentemente alla ricerca di un effetto enfatico, il cronista arriva a sfiorare la ripetitività, parlando del grande pontile di attracco:
L’opera grandiosa che si stende sul mare per trecento metri e che lancia nello stabilimento un fascio di binari che, se fossero messi l’un dopo l’altro raggiungerebbero la distanza tra Napoli e Roma, apparve in tutta la sua grandiosità. Sull’armatura poderosa di cemento armato si allineavano le enormi e potenti grue [sic] tutte infiorate e imbandierate, e intorno ai treni s’affollavano mille operai acclamanti. L’opera apparve tanto grandiosa che […] (28)
Occorre pensare debba esserci un motivo preciso per inserire una citazione che contiene tre volte in quattro frasi successive (anche se in figura etimologica) l’aggettivo «grandioso», che lo stesso Prisco aveva prima utilizzato. Probabilmente qui si vuole sottolineare come anche l’opera umana moderna, sebbene non caratterizzata da proporzioni e misure classiche, possa aspirare a un suo tipo di bellezza, appunto alla «grandiosità». E il tono enfatico del cronista serve a Prisco per evidenziare come la peculiarità del moderno stia proprio in quell’essere fuori scala, sproporzionato rispetto a qualsiasi modello e contesto naturale. L’opera dell’essere umano moderno non cerca di porsi in dialogo con la natura, anzi la sacrifica: in qualche modo la grandezza di questo sacrificio entra a far parte dell’immaginario simbolico, quasi epico-tragico, dell’opera stessa.
L’industrializzazione viene infine presentata come un’occasione «offerta al Sud per uscire dal suo torpido mondo prenatale di miseria e d’umiliazioni al quale l’avevano portato un destino segnato dalla natura e il secolare malgoverno degli uomini» (24): da un lato si indica una causa razionale e spiegabile, ovvero il malgoverno, ma dall’altro si ripete una motivazione fatalistica e irrazionale, in quel «destino segnato dalla natura» che si configura come una tara inevitabile, quasi fosse scaturita, non si sa bene come, dalla bellezza stessa dei luoghi e dei paesaggi.
Prisco conclude notando che la riapertura dell’Ilva, dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale, non suscitò la stessa attenzione giornalistica, quasi a evidenziare un cambiamento nella stessa cronaca, forse sempre più incapace di distinguere l’essenziale dal transitorio. A questa seconda inaugurazione mancava la partecipazione della politica nazionale, l’attrattività della cronaca mondana, gli effetti della retorica, dunque non ‹faceva notizia›. Eppure Prisco, con istinto da esperto giornalista, immagina come avrebbe potuto essere un ideale articolo su quella riapertura, tanto importante quanto ignorata, e tratteggia perfino le figure più adatte a suscitare qualche effetto enfatico.
Lo spunto viene dato, ancora una volta, dal paesaggio e precisamente dal fatto che, «se il Vesuvio dopo l’eruzione del 1944 non fumava più, fumavano in compenso adesso i camini dell’altoforno dell’Ilva» (44). Alla cartolina del paesaggio napoletano si sostituisce insomma la realtà moderna, antiromantica ma concreta: quasi, afferma Prisco, «un passaggio di consegne», la conclusione di «una leggenda, fantasiosa quanto si vuole ma sterile e persino dannosa» (ibidem)31 . Napoli insomma è «finalmente tesa a scardinare i suoi miti» (ibidem), che, se partono sempre dalla descrizione naturalistica e storica, presentano anche quasi infallibilmente un risvolto sociale, precisamente nella descrizione delle classi subordinate. Ecco che quindi il maggiore mito che la fabbrica può scardinare è quello dei lazzaroni, il topos cruento e romanticizzato della ‹plebe›. L’eterno disoccupato, attraverso la moderna etica capitalistica del lavoro, può scrollarsi di dosso lo stereotipo e finalmente cambiare la propria identità, non solo agli occhi degli altri ma nella sua stessa auto-percezione, acquisendo una dignità sociale distinta ma confrontabile rispetto a quella borghese: «il napoletano forse ha smesso per sempre il bianco camice di Pulcinella, indossata una tuta d’operaio sta avviandosi a vivere la sola esperienza da cui possa sperare sopravvivenza e salvezza: la dignità del lavoro».
5. Ottiero Ottieri
L’inclusione all’interno del sistema industriale e quindi nella nuova identità e dignità di operaio è il tema portante della narrazione di un’ennesima «fabbrica sul mare»32 , dicitura che appare tra i possibili titoli previsti per Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri, romanzo dedicato alle sue esperienze come capo selezionatore del personale alla fabbrica dell’Olivetti di Pozzuoli33 .
In questo testo è presente una sorta di implicito confronto tra l’Olivetti e l’Ilva, cioè tra due fabbriche distanti pochi chilometri ma apparentemente dissimili in tutto, così come tra due differenti approcci al contesto paesaggistico e sociale. Sebbene sia indebito confrontare le due realtà in quanto essenzialmente diverse (una fabbrica siderurgica e una di meccanica di precisione) e nonostante Ottieri non ponga mai esplicitamente questa comparazione, sembra che l’opera letteraria suggerisca comunque questo confronto.
L’impressione finale è che tanto la fabbrica tradizionale per eccellenza, l’acciaieria che attraversa un secolo, quanto l’appena inaugurata e innovativa fabbrica di meccanica di precisione, dimostrano di appartenere allo stesso campo di problematiche sociali non ancora del tutto comprese. Entrambe incarnano il tema dell’uomo contemporaneo di fronte al lavoro tecnico che ormai lo identifica e insieme lo aliena, così come entrambe si pongono inevitabilmente in relazione con uno stesso paesaggio naturale e culturale, con diversi intenti e risultati tuttavia paragonabili.
Nei suoi giri in auto nei dintorni dell’Olivetti, l’anonimo narratore si spinge oltre Santa Maria, ovvero Pozzuoli, il centro urbano più vicino, fino a Castello, vale a dire a Bagnoli e ai suoi rioni dominati dall’Ilva.
Proseguendo a sinistra dell’Acciaieria verso città, si aggira l’impenetrabile muro che taglia alla vista due ciminiere, un alto forno, e poi piegando a destra, si finisce in un quartiere cadaverico di alti palazzi scalcinati, morti, di strade e piazze svuotate. I bambini giocano nelle vie terrose tra la polvere di questa borgata tetra e improvvisa. Sono palazzi floreali, bucati da vecchi bombardamenti, grigi come mai sono grigie le case meridionali, squadrati su vie cieche come cortili. Erano le abitazioni degli alti impiegati dell’Acciaieria costruite con pretensione razionale perché, trasferiti dal nord, ritrovassero la civiltà dei palazzi moderni. Adesso popolato di operai e di plebe, rappresenta il paesaggio decaduto, lunare della grande industria meridionale, non fusa con l’antica terra; e il quartiere, rimasto isolato, sbocca soltanto contro uno spiazzo di rottami, ancora contro il muro dell’Acciaieria.34
Il primo elemento che differenzia l’Ilva rispetto all’Olivetti consiste in quell’«impenetrabile muro» che impedisce non solo l’accesso ma perfino la vista dello stabilimento industriale tradizionale. Per la moderna fabbrica Olivetti, invece, l’architetto Luigi Cosenza aveva optato per cancellate esterne e per l’uso del cristallo a sostituire, dove possibile, le murature degli stessi edifici, per cui gli operai potevano guardare da ampie finestre continue scorci del paesaggio.
Cristina Nesi ha scritto esaustivamente sulla rappresentazione di Ottieri della fabbrica di cristallo e sulle «mille contraddizioni de La società della trasparenza, che “non tollera lacune”, come ci ricorda Byung-Chul Han, “né nell’informazione, né nella visione”» e sulle sue due polarità, «da un lato il controllo collettivo onnivedente alla Foucault […], dall’altro il desiderio prammatico di affidare una missione emancipatrice alla visione dall’esterno delle attività interne»35 .
Dunque, se da un lato la retorica della trasparenza vuole garantire un dialogo interno-esterno, la possibilità per gli operai di vedere assieme al paesaggio anche, idealmente, la vita fuori dalla fabbrica, dall’altro la trasparenza consente alla collettività di vedere quello che accade nello stabilimento, di assistere a dinamiche che non riguardano solo il rapporto capitalista-lavoratore ma l’insieme della società. Questo almeno idealmente poiché poi, nella pratica, la fabbrica sorge al di fuori del contesto urbano, in una zona periferica e ‹vuota›, dove il polo esterno di questo dialogo è costituito soltanto dai disoccupati che si affollano ai margini della fabbrica per chiedere insistentemente un colloquio di lavoro. Le finestre sulla strada permettono allora a Donnarumma di spiare l’interno e gli impiegati dell’ufficio personale sono costretti ad abbassare le tende per non subire il suo inquietante controllo. Allo stesso modo la visione del paesaggio dall’interno permette agli operai di godere, durante il lavoro, della bellezza esterna ma questo, come vedremo in seguito, presenta lati positivi e negativi.
Se i muri perimetrali del complesso sono sostituiti da cancellate che racchiudono un giardino, l’accesso alla fabbrica è comunque presidiato da una portineria, sotto una «pensilina a colonnine bianche, tra i pini» (103), che finisce per essere uno dei luoghi cruciali del romanzo, ambientazione delle interminabili attese e degli agguati dei disoccupati più insistenti e disperati. La fabbrica tradizionale è immediatamente percepibile come autoreferenziale, luogo alieno dal contesto, un’eterotopia36 segnalata appunto dal muro che la rende anche visivamente irraggiungibile. Nella fabbrica olivettiana invece il muro si smaterializza ma in sostanza non scompare, sostituito da un più raffinato – e teoricamente equo – dispositivo razionale, ovvero la psicotecnica, vale a dire la tecnica di selezione del personale attraverso test e valutazioni psico-attitudinali.37 La ricerca estetica voluta dall’architetto e dal committente, con la riduzione delle «chiuse muraglie» (117) e con la messa in dialogo tra interno ed esterno, indica l’intenzione di fondere la fabbrica con l’«antica terra», di realizzare «una delle più belle fabbriche d’Europa» (7). Per questo sembrano fondamentali le visite del narratore all’acciaieria Ilva e alle vicine Cementir e Eternit (aziende produttrici di cemento e prodotti in cemento-amianto), che potrebbero essere scambiate per semplici excursus: la descrizione dei lati negativi dell’industria tradizionale mette in dubbio le possibilità di successo del tentativo olivettiano, di cui vengono evidenziate tanto le innovazioni quanto le sotterranee somiglianze e coincidenze con il modello corrente.
La vista negata dell’acciaieria, per via dell’«impenetrabile muro», spinge il narratore a inoltrarsi nello spazio immediatamente ai confini di questa e fuori dal centro storico di Bagnoli, dove, agli inizi del secolo, la dirigenza Ilva aveva deciso la costruzione di un rione per i quadri impiegatizi settentrionali. I nuovi edifici in stile liberty o floreale erano stati pensati dunque per assicurare «la civiltà dei palazzi moderni» a una committenza borghese, a differenza del quartiere operaio voluto da Olivetti, poco distante da Pozzuoli38 . Tuttavia dopo pochi anni ci si era resi conto del prezzo ecologico dell’acciaieria e le case vennero abbandonate dai borghesi perché troppo vicine alla fabbrica e quindi inquinate dalle polveri e dalle emissioni gassose, oltre che acusticamente e visivamente. È la dinamica contraria a quella osservata per il rione Cattori, vale a dire una ghettoisation39 , una ghettizzazione, e questo rione risulta tetro e non pianificato, «improvviso», come se la razionalizzazione urbanistica da cui è nato fosse un’operazione pretestuosa, incapace di prevedere e dirigere verso il meglio le dinamiche abitative e sociali. Ecco perché il quartiere finisce per rimanere isolato, per riferirsi sempre e soltanto all’acciaieria, come se non fosse possibile comunicare con altri luoghi e spazi: diventa un paesaggio alieno, «lunare», lontano da tutto e abbandonato a se stesso come un corpo celeste, popolato solo «di operai e di plebe».
Ad abitare Bagnoli non sono quindi più i contadini e i turisti dei bagni termali come nella rappresentazione ambientata a inizio Novecento di Prisco, né quasi esclusivamente gli operai e i lavoratori dell’indotto come nella successiva rappresentazione di Ermanno Rea, bensì una popolazione mista, in cui gli operai sembrano una minoranza ristrettissima e relativamente agiata rispetto alle condizioni comuni, ancora segnate da una profonda povertà. In Donnarumma si adopera prevalentemente il termine «disoccupati» e sono perciò significative tutte le poche occorrenze del termine «plebe», che ha una sfumatura fortemente connotata in senso peggiorativo e riconduce a un vasto campionario di rappresentazioni stereotipate delle classi sociali deprivate, soprattutto meridionali.
Ottieri narra attraverso un punto di vista esogeno e racconta delle case meridionali che «mai sono grigie» e di altri luoghi comuni40 che egli riscopre come essenzialmente veri ma giustificati da motivi storici e superati dall’uniformizzazione industriale. Al contrario che in altre opere letterarie, in Ottieri è sempre viva la coscienza della causa storica delle storture sociali, anche quando queste sono di così vecchia data da poter facilmente essere scambiate per tratti innati o peggio razziali e si incarnano fatalmente in stereotipi. Nello sguardo esogeno di Ottieri «tutti i luoghi comuni intorno al mezzogiorno […] tornano a galla, veri» (176), dunque lo scrittore conferma la veridicità degli stereotipi ma li vede determinati da ragioni storiche. «La storia […] giustifica pienamente [i meridionali], avendoli deformati» (176) per cui anche oggi «l’uomo meridionale non è diverso dagli altri, ma è un uomo deformato. Le avventure della sua vita, la storia, lo peggiorano e lo esaltano fuori da comuni leggi» (130).
Da notare però che questa condizione cronica di disoccupazione e arretratezza può deformare un popolo, renderlo plebe, e la «giustificazione storica» non può diventare un’assoluzione perpetua, soprattutto per quanto riguarda il presente e, a maggior ragione, il futuro, «perché il male è male anche se determinato da una ragione […]. Il male diventa colpa, razza» (176). Il problema si sposta quindi dalla veridicità dello stereotipo meridionale alla responsabilità condivisa, italiana, di non perpetuare le ragioni storiche delle deformazioni sociali e individuali. Nel presente di Ottieri questa responsabilità finisce per essere assunta dalla parte migliore, più consapevole ed etica, dell’industria nazionale. Nel momento in cui il capo selezionatore dell’Olivetti decide gli inclusi e gli esclusi, sa bene che «gli esclusi soffrono perché restano plebe» (174) e che il suo vaglio contribuisce a perpetuare le storture, a far sì che la plebe si continui a formare al di fuori del recinto industriale, nello spazio cadaverico, morto, svuotato del paesaggio meridionale che non rientra più nell’antica cultura contadina, mentre in quella moderna e capitalistica non è altro che bacino di risorse da sfruttare, spiazzo di rottami, deserto in cui sorgono le cattedrali dell’industrializzazione fallita. Allo stesso tempo il selezionatore non può tenere in conto le ingiuste deformazioni a cui è stato sottoposto il ‹materiale umano› prima del colloquio: così è, ad esempio, per l’esclusione di un operaio trentacinquenne, dotato ma ormai reso inadatto da lunghi anni di impieghi precari, di lontananza dalla disciplina aziendale e dall’etica del lavoro. La dirigenza decide di non fidarsi dell’«operaio Barca Armando […] uno dei più intelligenti e dei più furbi, uno alto, robusto, vivace […]. Il materiale di cui è composto Barca è stato lavorato, fucinato, picchiato, ammaccato, raddrizzato; egli è molto duttile; sì, avrà anche perso la fibra. Chi si fida ora di Barca?» (130)
In conclusione tanto l’Ilva, con la sua iniziale volontà di impiantare un moderno quartiere borghese ai confini di uno spazio che stava ecologicamente sconvolgendo, quanto l’Olivetti, con i suoi progetti di miglioramento sociale, finiscono per mostrare la stessa «pretensione razionale», la medesima pretesa, tra arrogante e ingenua, che viene determinata dalla sopravvalutazione del progresso tecnico ed economico come volano di crescita sociale, che in effetti si realizza, fino a un certo punto e con un prezzo non immediatamente evidente.
Arriviamo quindi al problema non tanto del degrado ecologico ma più specificamente del rapporto con la bellezza che la moderna fabbrica sul mare stringe in particolar modo. La volontà di Olivetti – e dunque dell’architetto Cosenza – sembra voler decostruire lo stereotipo stesso della fabbrica, immaginare un’industria architettonicamente bella e correlata alla bellezza del paesaggio naturale. Come dichiara Olivetti il giorno dell’inaugurazione e come Ottieri riporta fedelmente: «“Così, di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto alla bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno.” Nessuno ne rise» (116)41 . Lo scrittore-narratore conclude la citazione dal vero discorso dell’industriale con quella che poteva essere – e invece non fu – la verosimile accoglienza delle sue parole. L’idea olivettiana poteva apparire ridicola o velleitaria ma nessuno ne rise, e probabilmente non per prona disciplina aziendale, formalistico ossequio verso le bizzarrie dei dirigenti, bensì per una sincera adesione di impiegati e, almeno in parte, operai, alla visione del fondatore e proprietario. Restano valide comunque alcune obiezioni, presentate già molte pagine prima, all’inizio del romanzo, dal narratore che descrive per la prima volta la fabbrica, il suo contesto e persino se stesso:
Il sole nella fabbrica, il cielo, il verde e il mare, benché li ami, non mi convincono. Sono nato nel centro d’Italia e la giovinezza l’ho tutta trascorsa in paese di sole, diventando meridionale. Ma l’industria l’ho conosciuta nel nord e la caratteristica di essa rimane sempre quella d’essere grigia, se è una industria vera. Le officine le ho sempre viste nere e senza spazio, come se la loro forza fosse proprio questa. (24)
Nel suo diario personale Ottieri si dice interessato a tre problemi, di cui il primo consiste nel misurare l’aziendalismo degli operai olivettiani, per capire quanto la loro condizione privilegiata li estranei dalla massa dei disoccupati e da «quelli che lavorano in stabilimenti “tradizionali”». Ma il secondo e il terzo problema riguardano la bellezza:
2°) Fino a che punto la rara bellezza – innegabile – dell’ambiente (e per bellezza intendo un insieme di circostanze moralmente e igienicamente favorevoli) non sarà tradita dalle esigenze della produzione. 3°) Se non si creerà un’atmosfera molle, dannosa sia alla coscienza degli operai che alla produzione.42
La presupposta antitesi tra fabbrica e bellezza viene addirittura rivendicata: è proprio il sacrificio dell’estetica, e con essa di una certa concezione (umanistica) della vita, a permettere la concentrazione e razionalizzazione del lavoro che è l’essenza dell’industria capitalistica moderna. La bellezza che conforta durante il lavoro rischia di essere una strumentalizzazione o un’operazione di facciata; tuttavia il tentativo olivettiano di coordinare industria e bellezza è inusitato per i tempi e viene condotto con una fede e un rigore forse mai più raggiunti in seguito.43
Quello della bellezza nella fabbrica costituisce, rispetto al resto della letteratura industriale, un tema fortemente innovativo nel romanzo di Ottieri: all’unicum, nella realtà, della «bella fabbrica sul mare» corrisponde insomma quello della sua descrizione letteraria. Eppure esso potrebbe essere ricondotto, con un’analisi parallela, a un tema invece fondamentale e onnipresente della letteratura industriale, ovvero quello della schiavitù meccanica e della libertà dell’immaginazione, vale a dire uno dei rapporti basilari dell’alienazione. Ottieri ne parla verso la fine del suo romanzo, quando le contraddizioni rivelate da Donnarumma e dal gruppo di disoccupati della portineria sono già evidenti e si avviano verso il culmine della minaccia e della violenza fisica. La questione verte sulla vera natura dell’alienazione, al di là del presupposto teorico marxista del non possedere strumenti e risultati della produzione e partendo invece dalla necessaria parcellizzazione del lavoro nella catena di montaggio. La produzione in grande serie obbliga per ora (vedi 116 e 171) gli operai alla ripetizione degli stessi gesti, con tempi e movimenti dettati dal cronometrista. Senza poter lavorare a un singolo oggetto dall’inizio alla fine e costretto a ripetere gesti funzionali alla macchina, l’operaio subisce «quella monotonia famosa e tanto studiata che secondo alcuni scrittori conduce, a tempi alterni, allo svuotamento d’ogni pensiero e alla malsana fantasticheria» (171). Tuttavia «ad altri scienziati del lavoro e ingegneri delle anime la stessa monotonia risulta un bene; perché lascia libera la fantasia e quindi riscatta lo spirito dell’uomo»(. (ibd.) La definizione ironica lascia trapelare un certo fastidio per la pretesa razionalistica di poter giudicare gli esseri umani con la stessa sicurezza con cui si misura e conosce la materia. Per controbattere, a questo punto Ottieri cita, pur senza nominarla, Simone Weil, per cui la vera alienazione,
il dolore [della condizione operaia] è provocato dalla fantasia che vorrebbe, potrebbe liberarsi, mentre una corda continuamente la ristrappa contro gli scatti della macchina; la peggiore, la più avvilente, sarebbe questa libertà dimezzata e finta, contro la quale il tempo libero non serve.» (173)44
Allo stesso modo rischia forse di risultare finta o frustrante la bellezza che è a un passo di distanza ma che non può essere raggiunta e liberamente goduta. Si veda il caso dell’«ex pescatore Palumbo Vincenzo» che lavora «accanto a una porta-finestra aperta sul prato del giardino. Se muove un passo di fianco, è sull’erba, sotto il cielo» (116), però quel passo non può farlo: gli operai continuano a essere inevitabilmente, necessariamente «nascosti dietro le macchine, appiccicati ad esse» (ibidem).
Sia la fantasticheria alla catena di montaggio che il tempo libero dopo il lavoro non bastano, secondo Weil, a compensare l’operaio della costrizione fisica e mentale subita durante il lavoro, e così potrebbe dirsi anche della bellezza dentro e fuori la fabbrica. Parafrasando Weil, Ottieri sintetizza: «essendo la vita degli operai, degli uomini, materiale e spirituale, dentro il lavoro […] nel lavoro devono essere liberi, cioè nel momento in cui vivono; e il tempo libero non ha senso se non è ritagliato dal lavoro». Vale a dire che la libertà non ha senso in un tempo vuoto, alternativo e separato dal lavoro inteso come applicazione della parte migliore di sé45 alla realizzazione di un prodotto o servizio: allo stesso modo immaginazione e bellezza dovrebbero essere sperimentate durante la vita pienamente vissuta (diciamo l’Erlebnis46 ) e non come edulcorante per una condizione insostenibile o, ancora peggio, fatte esse stesse oggetto dell’industria47 .
Ciononostante è evidente quanto l’idea olivettiana sia avanzata rispetto al contraltare costituito dall’Ilva. L’acciaieria non può e non intende entrare in colloquio col paesaggio naturale e culturale preesistente, anche se Rea, come vedremo, riferisce alcune testimonianze secondo cui l’industria e il paesaggio riuscirono a convivere fino a un certo punto, oltre il quale il dilagante sviluppo della fabbrica condusse a una definitiva devastazione ecologica. Fatto sta che l’Ilva causa una reale perdita di bellezza non solo per i suoi operai ma per l’intera collettività presente e futura. Ottieri descrive anche la struttura esterna del cementificio che sorge accanto all’Ilva: «Piante verdi di eucalipto rinfrescano i cancelli e il piazzale ad aiuole del Cementificio: queste piante e il finto giardino, l’ingresso e la facciata novecento rassomigliano tanto a una piscina o ad un edificio termale, che uno non si accorge che è il cementificio» (140). La differenza con l’Olivetti sta tutta qui, nel giardino finto, nella facciata, nell’aspetto da edificio termale, vale a dire nell’esteriorità e superficialità del tentativo di estetizzazione delle poche parti valorizzabili. La maggior parte dell’industria non si può rendere bella né si può integrare nel contesto di un ecosistema urbano, rurale o non antropizzato, senza gravi danni per tutti gli elementi coinvolti, non viventi e ovviamente viventi.
La comparazione implicita tra le due fabbriche prosegue anche nel corso del tentativo di misurare la soddisfazione degli operai finalmente assunti all’Olivetti. L’ufficio personale tenta di prevenire i rischi di alienazione ma inevitabilmente si imbatte ancora in un confronto con le altre fabbriche e, probabilmente, con la fabbrica per antonomasia della Campania:
Forse è inutile chiedersi se gli operai assunti in questa fabbrica, i vincitori della psicotecnica, ormai saranno felici comunque, o se comunque debbano cadere nella infelicità e nella delusione. […] Dipende se hanno provato stabilimenti diversi, se hanno lavorato altrove; […] Un manovale venuto dalla siderurgia, un po’anziano e malato, ha detto al medico […]: “Dottore, in confronto, per me, questa verniciatura è un salottino.” (170)
Tuttavia la questione del popolo che preferisce l’inevitabile alienazione nella fabbrica bella piuttosto che quella nelle altre industrie o, a maggior ragione, rispetto all’alienazione della disoccupazione che rende plebe48 , subisce un’inaspettata svolta, quasi a metà del testo, per l’apparizione del personaggio che, per scelta di Bompiani, dà il titolo al romanzo, ovvero Antonio Donnarumma. In effetti, pur non essendo molto delineato psicologicamente e pronunciando al massimo una dozzina di frasi, Donnarumma si caratterizza per la sua diversità non solo rispetto ai lavoratori della fabbrica ma anche agli altri disoccupati. Costoro sembrano infatti desiderare, pur non consapevolmente, un cambiamento di autopercezione, un mutamento di identità grazie alla sostituzione, nella metafora di Prisco, del camice di Pulcinella con la tuta da operaio e quindi testimoniano l’affermarsi di un sistema di produzione – ma anche di una visione culturale – che inevitabilmente li giudica come inadatti e dunque marginali. Donnarumma invece è l’unico che non vuole nemmeno compilare la domanda di assunzione («Che domanda e domanda. Io debbo lavorare, io voglio faticare, io non debbo fare nessuna domanda. Qui si viene per faticare, non per scrivere», 121) e quest’evidente illogicità reclama una spiegazione. L’ipotesi più semplice viene fornita non dallo psicotecnico ma da un impiegato autoctono, il cassiere, «un uomo probo, aziendale», il quale dichiara al narratore che l’intero paese di Pozzuoli-Santa Maria «è grato» dell’impegno profuso a spiegare personalmente ogni rifiuto. Quando il narratore domanda allora: «“Ma Donnarumma?”», il cassiere risponde semplicemente «“Donnarumma è pazzo, dottore”» (188), liquidando insomma la sua come un’incapacità mentale a capire quello che per lui è nuovo e che si situa al di là del suo orizzonte culturale di analfabeta.
Ma si può anche sostenere che Donnarumma intuisca, magari confusamente, che accettare i termini del sistema capitalistico significhi esserne sconfitto ed escluso: acconsentire a essere valutato, tramite domanda e test psicotecnici, implica essere inevitabilmente scartato49 . Vorrebbe quindi utilizzare la fabbrica moderna per le proprie giuste necessità («debbo lavorare») ma rifiutare di farne culturalmente parte, di lasciarsi misurare e formare dal pretenzioso sistema razionalizzante capitalistico. Donnarumma in fondo non vuole cambiare la propria identità, legata forse non tanto alla maschera di Pulcinella, quanto alla figura del lazzarone sanfedista50 o del brigante in quanto elemento ribelle e non rivoluzionario, perennemente in lotta proprio con le parti più riformiste del sistema che lo marginalizza.
La ribellione inconsapevole e irrazionale di Donnarumma (poi di Papa e in modo potenziale di tutti i disoccupati irriducibili della portineria) fa da contraltare a una gamma di proteste e lotte operaie descritte nel romanzo, dagli esiti difficilmente giudicabili. Conduce ad esempio a una piccola conquista sindacale, comunque inferiore alle aspettative, lo sciopero del cementificio, che vediamo nel romanzo soprattutto dal punto di vista delle operaie, condizionate dalla paura di poter essere facilmente sostituite ma determinate nell’occupazione della fabbrica a dispetto di qualsiasi preoccupazione maschile circa il loro ‹onore›. Il primo sciopero dell’Olivetti sembra invece organizzato più per mostrare la coesione della commissione interna che per motivi reali. È la stessa gestione ‹democratica› o comunque sensibile della fabbrica modello a depotenziare la necessità della rivendicazione operaia, anche se in effetti alcuni problemi fondamentali (per esempio i tempi stretti) restano insoluti.
Rispetto alle lotte operaie sia l’insistenza pacifica di alcuni disoccupati, sia le minacce di Donnarumma e Papa, ottengono solo risultati indiretti, però molto particolari. Innanzi tutto, se è vero che il selezionatore non abbandona la fabbrica a causa di Donnarumma, è pur vero che il narratore immagina (con dispetto? fingendo indifferenza?) che questa sarà la percezione comune. Inoltre l’ostinata presenza degli esclusi dal sistema fa sì indirettamente che il sistema si inceppi, impedendo «il raffronto tra il risultato degli esami e la valutazione periodica dell’operaio in fabbrica» (187), cioè la verifica della validità della stessa psicotecnica. Fin quando l’ufficio personale sarà impegnato a spiegare le ragioni delle esclusioni, non potrà dedicarsi all’autovalutazione, vale a dire all’analisi di quanto i risultati dei test degli assunti collimino con i rapporti di rendimento alla catena di montaggio. Viene insomma a essere impedito il giudizio sulla razionalizzazione delle assunzioni, sollevando un dubbio non di poco conto sulla razionalità dello stesso sistema di gestione delle risorse umane e prefigurando uno scenario futuro di inevitabile conflitto sociale.
Se l’intenzione olivettiana, reinterpretata da Ottieri, era di dare vita a «un mondo unitario, caduto dall’alto nelle sue forme, ma per affondare nella terra e nello spirito di questo paese» (p. 7), anche l’Olivetti risulta infine «non fusa con l’antica terra» esattamente come l’Ilva e a maggior ragione proprio perché più moderna, razionale e democratica. Le buone intenzioni finiscono per assomigliare a pretensioni razionalistiche e alimentare delusioni rabbiose. Il capo della commissione interna, pur essendo un operaio sindacalista, dichiara pragmaticamente: «qua ci sono date troppe illusioni, troppe illusioni. Meglio chiudere i cancelli» (98). La fabbrica rischia di ridursi a «un miraggio di civiltà» (38) e la sua innovatività estetica ed etica, la sua «architettura trasparente», sia letteralmente che metaforicamente, «assume anche […] un aspetto 'finzionale' di rêverie fiabesca»51 che rende più crudo il confronto con la realtà. L’intero romanzo è percorso da una sensazione di irrealtà52 del protagonista, che tenta di attraversare il confine trasparente della fabbrica, poiché «al di là dello stabilimento gonfia una vita collettiva» (38), a cui però non riesce mai ad attingere pienamente.
I colloqui che lo psicologo intrattiene con gli aspiranti lavoratori finiscono per essere anche estrinsecazioni di un proprio dialogo interiore, tra un Super Io razionalizzante e un Es minaccioso perché indistinto, collettivo, intangibile dalla ragione.53 Il tentativo di ordine perseguito da Ottieri selezionatore e da Ottieri scrittore, così come il tentativo olivettiano di mettere in forma una comunità più razionale, corrono lo stesso rischio di irrealtà, di fondamentale incomprensione dell’aspetto irrazionale, magari anche istintivo e ‹folle›, rappresentato da Donnarumma. Dal lato opposto questo tentativo d’ordine può apparire una minaccia di dominio oppure un formalismo insensato a chi sperimenta l’alienazione della disoccupazione e l’allettante miraggio, l’illusoria promessa di una salvezza.
Il «limen, una membrana porosa destinata ad essere varcata, diviene nel corso della narrazione di Ottieri un limes, una linea di confine, invalicabile per le centinaia di migliaia di esclusi»54 ma anche per lo stesso narratore. La ‹linea gotica› in questo caso viene tracciata non tra una prospettiva di progresso sociale e la distruzione di un equilibrio e una bellezza ecologici, bensì tra un’utopia sociale e una distopia sociale. Tuttavia, per la rappresentazione di Ottieri, la fabbrica moderna nel meridione è effettivamente un’utopia sociale, nell’ambiguo senso etimologico di buon luogo e luogo che non esiste, sospeso in una sua dimensione diafana e favolistica, di «castello illuminato» (40); un «castello orizzontale di vetro, fluorescente di luci fredde» (88) che si integra perfettamente nel meraviglioso paesaggio della zona «fitta di paesi pittoreschi, di isole dal profilo famoso, di porti e di antichità» (163), così come di «ruderi romani» (104), perché è in qualche modo anch’esso un monumento, la testimonianza ormai già remota di un futuro che è stato possibile, un’ucronia di fusione tra capitalismo e umanesimo che non ha più tempo e luogo per realizzarsi. Parallelamente, il limen finisce per delinearsi anche all’interno dello stesso narratore e sostanzialmente per ogni essere umano: il dialogo tra istanze razionali e pulsioni irrazionali, illusoriamente funzionale per un attimo, rischia di spezzarsi in una caotica non comunicazione.
6. Ermanno Rea
L’ultima fabbrica sul mare e l’ultima rappresentazione in ordine cronologico che andiamo ad analizzare è l’Ilva de La dismissione di Ermanno Rea. Pubblicato nel 2002, il testo è un romanzo-reportage, basato sulle reali esperienze di un operaio, responsabile tra il 1991 e il 199855 dello smontaggio della fabbrica, dismessa e smantellata per essere venduta a pezzi a economie emergenti dell’Asia. Per il romanzo è stata più volte proposta e discussa la definizione di non-fiction56 o di «microstoria» secondo Adalgisa Giorgio57 .
Nelle memorie del protagonista e narratore di secondo grado, Vincenzo Buonocore, alter ego di un vero tecnico dell’Ilva, Vincenzo Buonavolontà, si trova inizialmente la fabbrica all’apice della sua espansione e modernizzazione:
Era una fumifera città rossa e nera (la chiamavamo Ferropoli) sovrastata da un cielo incandescente, pieno di lampi: si srotolava per chilometri tra strutture verticali e orizzontali, spiazzi, fasci di binari, carriponte lunghi fino a ottanta metri e oltre, neri cumuli di residui minerali, strade, colmate a mare, pontili, navi, lampioni, camion, gru alte come palazzi.58
Come in Prisco, anche qui la descrizione della fabbrica è improntata alla restituzione di un effetto di grandiosità, grazie all’accumulo di elementi e dati; tuttavia, subito dopo, si introduce una valutazione ecologica molto netta: «un tetro gigante che vomitava a mare venti milioni di litri all’ora di veleni: cloro, ammoniaca, solfuri, fenoli, idrocarburi. E forse altrettanti ne spediva in forma gassosa verso il cielo. Assieme a laceranti colpi di sirena» (14).
Se pure, dall’inizio secolo fino al secondo dopoguerra, la fabbrica aveva mantenuto, come abbiamo già menzionato, una certa possibilità di dialogo col paesaggio e con l’ecosistema, oltre un certo grado di sviluppo essa si pone come una vera distopia ecologica, che si riflette inevitabilmente nella sua percezione da parte degli abitanti:
fabbrica e paesaggio riuscirono a convivere a lungo, almeno sino alla seconda metà degli anni sessanta quando, con gli ampliamenti di territorio e di impianti dell’Ilva, lo scandalo delle polveri rosse e di tutte le altre forme aggressive di inquinamento mandò in mille pezzi il matrimonio fabbrica-quartiere. (181)
Inoltre, contrariamente all’Olivetti, l’acciaieria in sé è una fabbrica tradizionale, non apprezzabile dal punto di vista estetico, se persino Buonocore, tecnico innamorato delle sue macchine, descrive lo stesso muro incombente sul rione già rappresentato da Ottieri in questi termini:
Quando mai l’avevo osservata così minuziosamente, quella strada diritta come un incubo? Da un lato la fabbrica con il suo muro di cinta grigio, militare, un po’ sordido come tutti i muri di cinta; dall’altro un allineamento di edifici diseguali: vecchi, fatiscenti, un po’ meno malandati […] villette del tempo che fu con la palma davanti, belle palme dal fusto possente. (351)
Ciononostante a questo degrado ambientale, costituito in parte dall’inevitabile squallore delle cose unicamente funzionali e acuito dal contrasto con le trascurate villette borghesi, corrisponde una sorta di utopia sociale e Buonocore delinea chiaramente una dinamica per cui, a dismissione avvenuta, le condizioni sociali del quartiere si deteriorano velocemente mentre quelle ambientali faticano a essere ripristinate. Con la dismissione insomma si ritorna a una distopia sociale fatta di disoccupazione o lavoro precario, sfruttato dalla criminalità organizzata, mentre le prospettive di bonifica si allontanano in un futuro incerto.
Di sicuro, non appena la fabbrica smette la produzione, le condizioni prettamente ecologiche del quartiere migliorano, anche per lo stesso Buonocore:
Oggi che la fabbrica non c’è più, posso dire di abitare in paradiso, laddove prima potevo dire, come in effetti dicevo, di abitare a un passo dall’inferno, appollaiato sulla bocca delle ciminiere le cui emissioni, solide e gassose, entravano subito in casa insinuandosi dappertutto. […] Certe mattine, col vento in poppa, la farina nera si accumulava sul pavimento del terrazzino formando una coltre in cui un dito sarebbe affondato almeno per un centimetro e mezzo. A palparla, non era affatto vellutata ma ruvida, granulosa. (48–49)
Tuttavia man mano che mutano invece le condizioni sociali si fa strada la nostalgia per il paesaggio infernale della fabbrica, che coincideva con un paradiso operaio:
Era stato un quartiere felice. È vero, avevamo avuto la polvere rossa. Ma gli usci delle case venivano lasciati in maggioranza aperti a tutte le ore, non c’erano furti, scippi, risse, stupri, taglieggiamenti. La notte era tutta una pace, le strade illuminate di rosso dai bagliori della fabbrica non appartenevano affatto all’inferno […]. Adesso invece accadeva di tutto: aggressioni, borseggi, rapine. E anche di peggio. D’altronde, era arrivata la camorra […]» (155)
È notevole che l’inferno ecologico venga rimpianto anche se si constata la sua pericolosità per la salute: il benessere economico si rovesciava in malessere fisico, visto che i fumi e le scorie della fabbrica avvelenavano i lavoratori e le loro famiglie. Allo stesso tempo, però, i laceranti colpi di sirena e le polveri tossiche non sono – nella narrazione di Rea – soltanto cose materiali: diventano simboli di malesseri interiori molto più difficili a vedersi. Il tempo, le aspettative, perfino l’immaginazione dei cittadini di Bagnoli sono limitati e scanditi dalle necessità della fabbrica. Così le sue scorie diventano l’immagine che Buonocore utilizza per raccontare la sua difficile infanzia in una famiglia povera del centro di Napoli: «sul mio carattere si era depositata una polvere difficile da soffiare via di colpo» (50) e, parallelamente al matrimonio fabbrica-quartiere, si descrivono le difficoltà del rapporto tra Buonocore e sua moglie.
Il testo si costruisce quindi raccordando una narrazione sociale, condotta con piglio documentaristico e sociologico, con una narrazione incentrata su singole storie, a partire da quella del narratore-protagonista. Queste ‹microstorie›, tuttavia, in cui la componente di invenzione è probabilmente maggiore ma senza che questo crei alcun problema di verosimiglianza, hanno sempre un rapporto simbolico con la storia politica dell’Ilva e della comunità di Bagnoli, così come con la più vasta storia di Napoli, del meridione e infine d’Italia.
Il meccanismo di base è dunque il parallelismo di immagini tra il paesaggio industriale e il panorama psicologico, sia dell’individuo che della collettività. L’immagine fondamentale è forse quella dello svuotamento: il luogo cardine di Bagnoli, la fabbrica sul mare, si nullifica, così come l’identità sociale forte dei bagnolesi, in cui si scava un vuoto esistenziale e materiale. La fabbrica si converte in una «sporca radura» (13), una «polverosa spianata dove una volta sorgevano le strutture» (18) e la narrazione diventa l’avverarsi dell’unico incubo che, secondo Buonocore, non turbava i sonni degli operai, semplicemente perché nessuno lo immaginava possibile, ovvero «quello di un espianto generalizzato della fabbrica, di uno sterminato vuoto al posto dell’intenso pieno che ci aveva accompagnati sino ad allora» (27, corsivi d’autore). Trasposta sul piano individuale quest’immagine diventa un simbolo dell’incomunicabilità in cui Buonocore si viene a trovare, persino nella sua famiglia, nel suo letto, di cui la moglie occupa volontariamente soltanto un margine estremo, lasciando il resto «come una grande radura disabitata» (156).
Quando Buonocore decide di documentare fotograficamente lo smantellamento, insieme a Chung Fu, il tecnico dell’azienda cinese che acquista i macchinari smontati, si rende conto che la sua, così come quella di Rea (di professione fotoreporter), è la rappresentazione – tra documentaria e artistica – di un vuoto crescente:
“Ogni pezzo asportato lascia un vuoto”, dicevamo. Un vuoto, due vuoti, cinque vuoti, dieci vuoti: cresceranno in maniera ritmica, inesorabile, un giorno dietro l’altro, sommandosi l’uno all’altro in funzione di un bel nulla compatto. Eccolo il filo conduttore dell’inchiesta fotografica: il vuoto che pian piano sostituisce il pieno, se lo mangia, fino a sfondare, in ultimo, le stesse pareti del capannone e il tetto in modo da dilagare dappertutto. (260)
Il romanzo stesso è fatto di «passeggiate nella radura piena di ferite» (357) e la conclusione delle chiacchierate vede Buonocore come un attore che «più si è impegnato con tutta l’anima nella rappresentazione, più è stanco ed esaurito. Vuoto.» (356)
Il punto focale della narrazione consiste nel dover smontare la fabbrica e non semplicemente distruggerla, quindi nel dover procedere a una costruzione all’incontrario.59 L’ossessione di Buonocore diventa quella di eseguire il suo lavoro «a regola d’arte», fare di questo smontaggio il suo «capolavoro» (38; ma anche 81). In sostanza una de-costruzione può contenere altrettanta bellezza di una costruzione, e questo in qualsiasi ambito, persino quello industriale: le procedure di disassemblaggio costituiscono
un mondo che non esito a definire di prepotente bellezza, come accade ogni qualvolta tanti minuti elementi, una miriade in certi casi, si disaggregano (oppure si aggregano, secondo il senso di marcia) in sottosistemi (o in sovrasistemi) sempre comunque omogenei e necessari. (43)
La bellezza, apparentemente bandita dalla struttura dell’Ilva, torna nella passione di Buonocore per la macchina, «intesa come impianto, complesso di macchine» (9), come aggregazione razionale e necessaria di elementi minimi, secondo uno schema intelligente che sembra invece mancare nell’aggregazione di esseri umani all’interno di una comunità. L’abilità di Buonocore con le macchine sembra l’inevitabile contrappasso delle sue difficoltà di comunicazione umana e l’intera narrazione è anche, come detto da Rea nelle pagine in corsivo poste come premessa, prima di lasciare la parola al suo narratore, «la cronaca di una passione: tra un uomo e una macchina» (ibidem).
Lo smontaggio è l’ultimo risultato di questo amore60 , poiché consiste nel voler far sopravvivere l’impianto anche dopo la fine della fabbrica di Bagnoli. È dunque un atto, come viene detto esplicitamente, analogo seppure rovesciato rispetto a quello della creazione, tale quindi da poter giustamente suscitare l’orgoglio dell’homo faber. Può sembrare politicamente sospetta o addirittura folle la trepidazione con cui l’ex-manutentore decide di dedicarsi a questo lavoro inviso a tutti, esponendosi a dure critiche anche da parte di amici e familiari, ma è un esempio di come l’etica del lavoro possa travalicare ogni altra norma di opportunità sociale.
Questa etica viene poi definita come «una certa quota di coscienza proletaria dentro la città melmosa» (81): l’Ilva ha infatti dato vita, anche se indirettamente, a vere «dinastie operaie» (180), famiglie di operai assunti nella fabbrica, generazione dopo generazione, grazie alle loro caratteristiche di «disciplina, senso del dovere, etica del lavoro». (ibd.) Quest’opera involontaria di istruzione e formazione è, secondo Buonocore e secondo le vecchie leve di operai bagnolesi, l’«unica cosa buona che abbia prodotto» l’Ilva, nel senso di unico vero indotto.61 Il rapporto con il lavoro non riesce comunque a essere neutro: «in questa città dove […] non esiste consuetudine con la produzione industriale organizzata, che cosa si può fare se non irridere e disprezzare il lavoro, come fanno taluni, oppure idealizzarlo sino allo spasimo e alla monomania?» (86) Buonocore è un esponente di «questa religione del lavoro, questo irragionevole attaccamento [che] è quasi una deformazione professionale» (104, corsivo d’autore), mentre, all’estremità opposta, c’è invariabilmente la plebe.
Nel romanzo è descritta l’evoluzione cronologica del rapporto antitetico tra questa sorta di aristocrazia operaia e la plebe, così come tra la fabbrica e la città antica di Napoli. Inizialmente, nelle parole di un professore che Buonocore e sua moglie ascoltano durante una conferenza, l’Ilva è vista come una «fabbrica-terapia», in grado di opporsi ai mali del meridione, che potremmo definire, condensando vari termini contenuti nel testo, come causati dall’‹indistinzione› sia storica che sociale. Dal punto di vista storico l’indistinzione prende il nome di «oblio generale» (61), l’incapacità della popolazione napoletana (vista sempre come metonimia dell’intero meridione) di distinguere gli eventi fondamentali da quelli ininfluenti, di ricordare quanto può essere costitutivo di una comunità consapevole.62 La mancanza di una comunità consapevole è poi effetto e causa dell’indistinzione sociale: «Tra i vicoli e i fondaci dei quartieri più degradati vive una sorta di poltiglia umana indistinguibile nelle sue variegate componenti: l’operosità di tante singole persone e gruppi è come riassorbita e cancellata da quell’indistinto sociale che va sotto il nome di plebe» (ibidem).
La fabbrica terapia viene quindi concepita come un rimedio alla plebe dei vicoli, tuttavia, durante un travagliato periodo dal 1969 al 1977, sembra accadere il contrario: «Dicevamo: l’Ilva entrerà nel vicolo e lo bonificherà. Alla lunga è accaduto l’inverso: il vicolo è entrato nell’Ilva e l’ha inquinata.» (81)63 L’indistinguibilità tra legale e illegale, così come tra morale e immorale, caratteristica della plebe delle viscere di Napoli, si trasmette a tutti i livelli della macchina industriale, corrompendola. La stessa criminalità organizzata, la camorra, riesce a infiltrare sue aziende corrotte nel sistema degli appalti e trasforma la fabbrica in un sistema di riciclaggio dei proventi illeciti e appropriazione di fondi pubblici. Grazie però a una drastica ristrutturazione, non solo delle strutture fisiche ma soprattutto di quelle umane, dai livelli dirigenziali fino a quelli operai, lo stabilimento riesce a segnare una vittoria nei confronti della camorra e anche a tornare economicamente competitiva: la maggior parte dei ricordi di Buonocore si riferisce a questo periodo aureo, di massima espansione. Sia spazialmente che umanamente la fabbrica diventa quindi «come una cattedrale» (22)64 e le sue strutture aeree si contrappongono metaforicamente al dedalo di vicoli, alle viscere e al sottosuolo della corrotta città vecchia.
Appena chiusa la fabbrica, invece, l’attività produttiva della regione si parcellizza e torna nell’illegalità o ai suoi margini: significativamente il luogo dell’industria diventa allora proprio il vicolo del centro storico, che Buonocore definisce come le «viscere di Napoli (intestino crasso)» (181). Alla moderna città industriale vicino al mare si tornano a contrapporre i vicoli dove si fabbrica merce contraffatta:
L’industria del sottosuolo a Napoli è ormai una bandiera, […]: sventola alta sulle rovine che ci circondano, a gloria dell’alacrità delle nostre topaie. Il vicolo produce, cazzo. E non soltanto criminalità piccola e grande. Produce merci, illegali e contraffatte finché vuoi, ma pur sempre merci, alternative a quelle che l’apparato industriale legale, in costante flessione da sempre, non produce più. (232)
Significativa in questo senso è la visita che Buonocore organizza per Chung Fu agli opifici semi-illegali di un ex tecnico dell'Ilva, coinvolto suo malgrado nelle attività della camorra. Dapprima i personaggi si perdono nel labirinto dei vicoli dei Quartieri spagnoli, poi raggiungono una sorta di fabbrica sotterranea, con ambienti alti cinque metri ma parzialmente scavati nel tufo, per esigenze di segretezza.65 Qui vengono probabilmente sfruttate delle maestranze femminili che però non vengono mostrate e di cui si sente solo il canto in lontananza, mentre lavorano. In un certo senso torna la costrizione al camice di Pulcinella, al lavoro precario e senza diritti, e il progresso sociale delle neonate classi operaie meridionali regredisce nell’occultamento a cui sono costrette le nuove schiave.
La chiusura della fabbrica segna infine il massimo allontanamento di Bagnoli non solo dalla città ma da ogni luogo ancora identitario del mondo:
[Bagnoli] non mi era parsa mai così lontana dalla metropoli come in quel momento. Anzi lontana da tutto: un remoto spicchio di umanità a sé stante, un’isola senza bandiera. D’altronde, c’era poco di che meravigliarsi: si era così tanto identificata con la fabbrica che, alla scomparsa di questa, era diventata automaticamente un nulla, un non-luogo, un’assenza. Soprattutto un’assenza di futuro. (179)
Con l’identità del luogo, si perde anche quella degli abitanti: Buonocore è «un uomo spaesato» proprio perché il suo paese, il suo luogo identitario, era la fabbrica, mentre ora è esiliato in un non-luogo o un vuoto, che è anche un’assenza di progettualità.
La dismissione della fabbrica potrebbe essere l’occasione per progettare un ripristino dell’antica bellezza storico-naturale, ovvero quella caratteristica così fondamentale da essere «la prima cosa» di cui si viene a conoscenza «vivendo a Bagnoli, lavorando all’Ilva tra fumi e vapori, boati e sirene» (181). Lo straniero Buonocore, venendo da Napoli, viene innanzitutto istruito sul fatto che «qui, all’epoca dell’antica Roma, sorgevano ville lussuose [in] una terra che è poco definire fortunata, affacciata (almeno un tempo) sul più azzurro dei mari» (ibidem). Perfino l’aziendalista Buonocore, l’operaio aristocratico, ammette che «quando si decise di dotare Napoli di una grande industria siderurgica, fu un’autentica follia collocare la fabbrica in questo sito di vulcaniche bellezze e di acque benedette» (ibidem) e «non contesta in alcun modo la necessità che l’acciaieria fosse spazzata via liberando questo tratto meraviglioso di costa» (90). Eppure lo smantellamento della fabbrica non coincide automaticamente col ripristino ambientale, anzi rischia di dare il via ad altre speculazioni e sfruttamenti, sia del luogo che degli abitanti, scatenando «gli appetiti dei costruttori napoletani, da sempre smaniosi di mettere le mani sui suoli occupati dall’Ilva in uno dei siti più belli del golfo di Pozzuoli, a valle della fascia settentrionale della collina di Posillipo.» (91)
La progettualità futura rischia allora di essere derubricata a sogno utopistico:
Non manca chi si sente autorizzato a favoleggiare del parco meraviglioso che dovrebbe sorgere sull’area dell’ex fabbrica, una volta bonificati i terreni e ripristinate le antiche condizioni ambientali. Di tale parco dovrebbero far parte un’immensa area verde […] alberghi, un centro congressuale, un porto turistico, un grande complesso sportivo e non so quali altre meraviglie. […] Io però, a essere sincero, non ci credo. Dico di più: non c’è nessuno a Bagnoli che ci creda, tranne qualche inguaribile ingenuo. Di sicuro accadrà qualcosa per effetto della quale o andrà tutto in fumo oppure sarà deciso un nuovo rinvio. (191–192)
La ricostruzione del paesaggio idillico della pre-modernità rientra in sostanza, nella percezione dei bagnolesi, nella categoria delle utopie, a cui può credere solo «qualche inguaribile ingenuo», nella prospettiva di un’eterna procrastinazione e attesa del domani. Inoltre il progetto più utopistico, riguardante gli spazi dell’ex fabbrica, consiste nel «destinarli quasi tutti a parco, come esigevano gli ambientalisti più radicali», dunque «una soluzione prevalentemente paesaggistica: creare una grande macchia verde come atto di profonda contrizione per gli scempi compiuti in passato su tutto l'arco del golfo di Napoli.» (320)
La rinuncia a utilizzare quei suoli, a rendere quello spazio un luogo di impronta antropica, appare fondata su di una motivazione psicologica, forse irrazionale ma nata da un vissuto storico profondamente sentito: la distruzione della bellezza in nome del progresso viene ormai percepita come uno scempio, un atto sconsiderato, di cui provare vergogna e da ripagare attraverso un gesto di contrizione, quasi un sacrificio. Astenersi dall’utilizzare ancora quei luoghi vale innanzitutto come monito per le generazioni future, esortazione a non ridurre il mondo a semplice miniera di risorse, da poter controllare e sfruttare illimitatamente. Ma da quest’astensione ci si aspetta anche una ricompensa in termini non materiali, come recupero della bellezza; il grande vuoto che si apre durante la dismissione, nelle strutture industriali e nelle identità degli operai, rende possibile una grande promessa:
tempo due o tre mesi, il mare sarebbe saltato fuori dal suo nascondiglio. I giornali ne parlavano come del miracolo prossimo venturo: avrebbe dovuto risarcire un sacco di gente delle infinite sofferenze patite con quelle case sottovento, esposte alle fuliggini, ai vapori e agli odori di Ferropoli. Il mare come premio. Il mare come simbolo. Il mare che bagna Napoli. (322)
È tuttavia inevitabile ricordare infine come questa promessa formulata in termini ortesiani sia ancora oggi disattesa. L’enorme area dell’ex-Ilva è stata bonificata solo in minima parte, la colmata a mare è ancora interdetta e recintata da due muri continui che racchiudono la strada: non solo il mare non è raggiungibile né tantomeno balneabile ma nemmeno semplicemente visibile per la maggior parte della linea di costa. Non è stato costruito alcun parco meraviglioso.