Miscellanea

Ricamare l’orlo e l’urlo della parola

Nataša Sardžoska

All’inizio nasce una fessura. Uno strappo oltre cui è impossibile intendere se ci sia un linguaggio o un ingranaggio. Il divario è insondabile.

Io scrivo a partire da quella breccia in quel tempo dove solo l’indicibile mi spinge a sperimentare con il linguaggio e inventarne uno nuovo o non inventarne proprio nessuno. Avere proposito di creare o non averne nessuno. Perché nel nulla si nasconde il nucleo. L’estetismo non mi interessa. Quando scrivo, vado a tentoni e mi perdo e mi faccio prendere da quel crollo, da quello slittamento: e così nasce l’analogia, l’associazione, l’allitterazione.

Credo anche io come Joan Margarit che la bellezza in sé e la verità in sé non bastino perché si possa saldare e consolidare una poesia. La poesia nasce dentro l’esperienza, dal vissuto, dalla ferita. E poi si propaga oltre lo strappo. È un seme che non so che pianta mi darà, in che forma o involucro mi metterà. Ma ho imparato a non scrivere a caldo. Ho bisogno di distanza, distacco, disorientamento.

Al di là dell’offuscamento dei nervi, dello spasimo del cuore, la poesia nasce come una crisalide dentro uno spazio congelato o sospeso. Nasce da un bisogno di sospensione.

Nasce dal dolore dei nervi che non osano parlare, non sanno dire; nasce dall’insostenibile grido che solo il mio corpo dentro può sentire e che se non lo trasformo in poesia, diventa il vuoto, follia. Nasce, così come nasce la persona amata in noi, come in amore, quando non sono io, ma è il mio corpo che ama, che reclama, che desidera, non ama solo l’assenza astratta della mente, o il sangue inesauribile del cuore, ma proprio il corpo con tutti i suoi tessuti e ossature: come quando nel corpo mi duole la persona amata, così proprio fuoriesce la carica che si configura poi nei miei versi.

Amo togliere, trasdire, trasformare quello che scrivo.

Io non scrivo per piacere per come scrivo o per avere un riscontro o per arrivare ad un punto previsto. Io scrivo per non soggiornare nella gabbia dell’impossibilità di discernere, nella follia. Scrivo perché non so fare diversamente, quando il dolore psichico mi tormenta, mi diventa insopportabile, non scrivo proprio nell’ardore del dolore, ma quando lo contemplo nella forma cruda della sua esistenza, nella reminiscenza del colpo o della meraviglia.

Nonostante questo autoriferimento, io scrivo anche per nominare il mondo, per chiamarlo ad agire, per salvarlo dall’effimero, dall’indifferenza. Non credo nel futuro. Non lascio che il piatto diventi tiepido, o l’amore sicuro o certo. Vivo gli avvenimenti nel momento del ratto. Ma, ripeto, ciò non vuol dire che scrivo a caldo. Elaboro il dolore, lo seziono, lo viviseziono, lo strutturo, compartimentalizzo, quindi scrivo per dare vita e voce al dolore. Non lo voglio distruggere. Perché anche nel dolore esiste l’amore, come scriveva Joan Margarit. Per farlo, devo cancellare molto, togliere il superfluo, inondare il vuoto del pieno, ritornare e ripassare, rileggere e riprodurre.

Arriva poi un momento in cui nel distacco posso solo scrivere e cristallizzare la forma. Perché quando brucia il sentimento, la poesia viene tradita. Così io scrivo per ripristinare la mia salvazione e per salvare qualcuno che mi possa leggere: qualcuno che aspetta qualcuno ad una stazione di treni e quel qualcuno non arriva mai, qualcuno che attraversa l’Atlantico per la prima volta per iniziare una nuova vita ignota, qualcuno che aspetta la propria diagnosi in una stanza di ospedale, o qualcuno che aspetta la diagnosi della persona amata in una sala d’attesa, qualcuno che aspetta che si produca l’impossibile in una stanza d’albergo.

Mi interessano i desolati, gli abbandonati, i fragili, gli emarginati. Ho scritto molte poesie per i profughi, per gli immigrati, ma non l’ho mai fatto come una specie di protesta sociale o etica, bensì come un’immersione nello stato di non appartenenza in cui non si ha dimora, nemmeno direzione fissa. Io questo divario l’ho vissuto e testimoniato. Scrivo per comprenderlo. Ma non credo di avere trovato la formula giusta. Arrivo al momento in cui ho qualcosa, trovo in me una scossa, o qualcosa dall’esterno mi colpisce, o mi impressiona, o mi ammutolisce, o mi stordisce, e poi mi fermo, o non mi fermo per niente, e poi parto con quella cosa o non parto per niente.

Ho ucciso molte poesie nel sonno per la paura di alzarmi.

Perché venivano come un ratto, come delle apparizioni, come delle rivelazioni, come delle risposte a domande non poste, o come delle domande a risposte già consolidate.

Arrivavano come conclusioni ai miei corollari che non volevo accettare.

Credo, come dice Octavio Paz, che la poesia non sia una riproduzione o un esercizio di verità, ma una resurrezione di presenze. In un senso ontologico, anche la presenza è verità giacché in essa sussiste una voce, una tattilità, una carnalità, un vissuto. Nell’andare fino in fondo di me stessa e quindi della scrittura, ritrovo la forma e la sostanza che so, che sento siano quelle giuste prive di estetismi eruditi e di futili figure. Non cerco qualcosa al di là del vissuto, anche se nelle simbologie posso sembrare astratta. Nell’ermetismo io riesco ad analogare i miei stati d’animo. Mi attrae la frizione della metafora, la sua stranezza, la brutalità, e la potenza di creare una struttura da una micro-particella, di far nascere un sistema da un dettaglio, o anche nel senso contrario: di ridurre una complessità ad una semplicità. Mi interessa questo tipo di totalità. La dedizione. La rinuncia. La frenesia di leggere e rileggere senza fine un verso e di rivelare ogni volta un senso nuovo, distinto, fino allo svenimento.

La parola è un orlo, ed è un urlo. Per il poeta è un’ossessione. Perché diventa un continuo straziamento nel tentativo disperato di riprodurre un nuovo senso, un perpetuo esercizio di sperimentare con la lingua per crearne una nuova lingua, un esercizio metafisico, perché la poesia non è un genere letterario, non è una riproduzione di parole: se così fosse, si potrebbe leggere come poesia un qualsiasi verbale o messaggio su WhatsApp. Forse anche sì, ma solo nell’astrazione.

Il titolo riporta l’azione del ricamo di quello che è impossibile essere tracciato: l’urlo e l’orlo (perché) sono zone invisibili. Perché la sottigliezza nasce dal tessuto. La seta emerge nella conclusione: è la morbidezza della sospensine, malgrado l’asperità del tessuto.

Scrivere poesia, per me, significa camminare su questi margini dell’insostenibile incomprensione della vita e sull’orlo della mia vita interiore per potermi porgere al mondo.

Per tradurre il mio urlo.

Per tradire il mio orlo.

nota

Una scelta delle poesie dell’autrice - Eine Auswahl von Gedichten der Autorin:
Poesie inedite

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Appunti di Geosofia
Literarische Stimmen

aus:
Il Dio selvatico