Horizonte Ausgabe 8 Titelkunst
Rezensionen

Silvia Ranfagni: Corpo a corpo
Roma: edizioni e/o 2019

Daniela Palumbo

Silvia Ranfagni: Corpo a corpo. Roma: Edizioni e/o 2019, 160 pp., Euro 16,-, ISBN: 978-88-335-7060-0

Silvia Ranfagni, nota ai più come sceneggiatrice, esordisce con questo romanzo sulla maternità, sul volere o dovere essere madri e sulla solitudine che comporta, soprattutto se si è madri single.

Il libro si apre con una visione nuda e cruda del bambino appena venuto al mondo, definito per l’intero romanzo «Il Corpo», come a voler creare da subito un distacco per non affezionarsi troppo.

Il Corpo è meschino. Vuole solo la sopravvivenza. Cemento, inquinamento, insolazioni, irritazioni, tutto gli dichiara guerra. Per lui è sempre troppo caldo o troppo freddo, per lui si mettono e si tolgono uniformi. Il grido del Corpo ferisce. A volte è per il sole cattivo, la sete, la fame; a volte non si sa proprio perché. Sterilizzare, disinfettare, lavare, anche in mezzo alla notte, anche quattro volte prima dell’alba, perché il Corpo pesa tre chili ma ha zero grammi di compassione. (p. 9)

Facendo un passo indietro scopriamo la storia di Beatrice, protagonista di questa storia.

Bea ha un’età in cui ha dato tutto quello che poteva dare, le trasgressioni vissute in passato non la stimolano più, le serate alcoliche fino a tarda notte non la divertono, semmai la stremano. Il sesso è stato usato e abusato e l’unica cosa che adesso desidera davvero è l’amore, quello assoluto.

Tu vuoi l’Amore Assoluto. Purtroppo l’Assoluto è privo di ogni restrizione. L’Assoluto non si può assaggiare, tentare, provare: l’Assoluto è per definizione un tutto o nulla e, tu, con Nulla, non vuoi avere niente a che fare. (p. 17)

Con la consapevolezza e il peso del tempo che passa, Bea capisce che forse la soluzione alla solitudine e all’amore mai corrisposto è avere un figlio.

Dopo una spasmodica ricerca del ‹padre di suo figlio›, passata per incontri al bar, feste, treni e situazioni ordinarie in cui sperava di conoscere un uomo con cui metter su famiglia, arriva alla difficile conclusione che questo figlio deve farlo da sola. Ed è così che Beatrice entra per la prima volta a contatto con una realtà a lei prima sconosciuta, quella del variegato mondo dei donatori di sperma. La Human International è un’azienda di donatori di seme, con un vasto catalogo e anni di esperienza nel settore. I corridoi sono luminosi e rassicuranti, la calda voce maschile ripete lo slogan «Human ti fa realizzare il tuo sogno» (p. 25), ed è così che Bea si convince che la decisione di avere un bambino da sola è quella giusta.

Una scelta che dura tutta una vita racchiusa in pochissimi click, che includono razza e colore dei capelli. Anche se lei non si definisce razzista, esclude tutto ciò che è diverso da lei per paura che questo figlio infine possa non somigliarle per niente; ed ecco che le si presentano in video i donatori che corrispondono ai criteri di ricerca, ne osserva le foto, li guarda da bambini, ascolta la loro voce, conosce la storia personale e famigliare di ognuno di loro e infine la scelta ricade su Mr 8303, un pescatore finlandese.

Nella vita le cose non vanno sempre come vorremmo ed è qui che Bea inizia a capirlo, quando dalle prime ecografie lei non vede il suo bambino ma un piccolo vampiro pronto a succhiarle la vita, a toglierle l’indipendenza, la spensieratezza.«Non sei tu ad avere un figlio, ma è il figlio a possedere te» (p. 14). Quando il Corpo nasce la sua vita cambia, diventa tutto un dare e ricevere in cambio soltanto feci, rigurgiti e pianti, al punto che «Il peso dei tre chili e cento grammi si fa insostenibile» (p. 33). Dopo il parto anche il suo corpo cambia, i seni sono dolenti, a ogni colpo di tosse si piscia addosso, è stanca, imbruttita, si chiede cosa ci sia di meraviglioso nella maternità ma non ne trova la risposta.

Silvia Ranfagni solleva il problema della società odierna che si dimentica delle madri, accolte e venerate quando in stato interessante ma abbandonate una volta genitrici; ma soprattutto respinge il concetto di maternità come elemento di grazia per una donna. La verità spesso taciuta è che essere madre è un lavoro difficilissimo, costante ed eterno, intriso di solitudine e abbandono. Beatrice, che credeva di sentirsi meno sola con un figlio, capisce che la solitudine che la circonda è ancora più devastante della condizione precedente, al punto di dirsi che questo figlio sarebbe stato meglio non farlo.

Con la consapevolezza di un nuovo estenuante giorno, Bea si mette alla ricerca di una tata per accudire il Corpo. Sostiene diversi colloqui pescando dal sud del mondo. Esclude molte razze perché, anche se non lo ammette a sé stessa, è piena di pregiudizi. Alla fine, la scelta ricade su Elsa, che proviene dall’Eritrea, ha tre figli già grandi ed è vedova. Beatrice nel suo egocentrismo vede in Elsa una donna sola, capace quindi di accudire suo figlio in ogni momento della giornata in modo che lei possa ritornare alla vita di prima. Con i giorni che passano, Bea inizia a soffrire anche la presenza di Elsa, che inizia a chiamare «l’altra» o «quella», indubbiamente perché a differenza di Bea a Elsa riesce tutto benissimo e questo non riesce proprio a sopportarlo, ma allo stesso tempo le toglie il peso del Corpo:

Grazie a lei puoi allontanarti dal Corpo. Riappari solo quando sei riposata e reciti il ruolo del genitore. Avere una tata cambia l’avere un figlio, il meno si fa più, come se la tata fosse algebra. (p. 68)

Beatrice è ai limiti della tolleranza di sé e del mondo che la circonda, passa le giornate ad analizzarsi, accusarsi e assolversi continuamente in un loop senza fine, è consapevole di non essere una madre ‹normale›, anche se normale è la definizione di niente. La sua è una depressione post-parto con i fiocchi, o così le viene indicato dallo psichiatra che ha contattato cercando di capire perché sia una madre degenere. È difficile accettare di essere depressi, soprattutto quando nella società odierna ancora non viene capito né accettato, peggio ancora se la depressione deriva da una maternità tanto desiderata. «Da quando hai un figlio, il disgusto per ‹quant’è bella la vita› ti sommerge.» (p. 96)

Il Corpo, figlio, diventa «Arturo» solo quando raggiunge l’età in cui è in grado di comunicare con la madre, come se solo allora fosse degno di avere un nome, di essere classificato come essere umano. Tanto indesiderato e tanto amato è Arturo adesso che è grande, che lei vorrebbe che il tempo tornasse indietro per poterlo rivivere prima che lui spicchi il volo, per una vita senza di lei, in una nuova solitudine. «Cordone ombelicale ormai tagliato, riappari! Legami! Tirami in avanti! Molto più avanti nel tempo di quanto mi sia dato!» (p. 155)

Essere donna è già arduo compito, essere madre, soprattutto di una famiglia monoparentale ancora di più. I sensi di colpa, l’affanno e la solitudine sono solo alcune delle cose che con viscerale schiettezza emergono da questo romanzo; come anche ridimensionare la propria vita, il progetto familiare a cui si ambiva e la difficoltà di non far parte della cerchia della ‹famiglia tradizionale›. Silvia Ranfagni spoglia questa madre dal velo della vergogna dell’essere imperfette, fragili, a tratti egoiste. Per quanto sembri assurdo immaginare una madre che vive male l’idea della maternità, negli ultimi anni sta prendendo spazio l’argomento considerato ancora un tabù, come lo scalpore che ha suscitato la scrittrice e sociologa Orna Donath con il suo libro Pentirsi di essere madri (Regretting Motherhood, 2016/2017), in cui racconta le storie di molte donne che probabilmente tornerebbero indietro e farebbero una scelta diversa. In ogni caso, pentirsi di essere madri non vuol dire non amare i propri figli.

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