· Cesare De Marchi ·
Con sentimenti contrastanti, oscillando di continuo tra condivisione e dubbi e riserve, ho letto il numero della rivista Limes dedicato interamente alla Germania (Essere Germania, dicembre 2018, 296 pagine).
Il volume, ampio e articolato in ben trenta contributi oltre al lungo editoriale del direttore Lucio Caracciolo, è suddiviso in quattro sezioni, di cui la terza si occupa di problemi economici, la quarta delle relazioni internazionali della Germania (con gli USA, la Cina, la Francia e l’Italia); meno chiari sono gli argomenti e le linee divisorie tra le due prime parti, alcuni contributi delle quali avrebbero meglio figurato in un’altra sezione (per es. l’articolo sulla Turchia avrebbe avuto la sua collocazione naturale nella quarta sezione, come pure l’intervista a Kiesewetter). Ma, a parte questo, è evidente lo sforzo di offrire a chi legge un ventaglio il più possibile differenziato di punti di vista e opinioni in merito alla posizione e al ruolo della Germania nell’Europa.
Concepito più come avviamento alla lettura completa del volume che come semplice introduzione, l’editoriale di Lucio Caracciolo presenta tuttavia fin dalla prima pagina alcune tesi di fondo. La prima è che «la Repubblica federale vive una profonda crisi d’identità» (p. 7). Ora, questa dell’identità è una questione che avrebbe perlomeno bisogno di qualche parola di chiarimento. Per Dario Fabbri, l’unico autore presente nella rivista con due contributi, l’identità tedesca va rintracciata addirittura nelle diverse etnie (da lui chiamate anche ceppi e persino tribù (p. 49)); Caracciolo, pur accennando anch’egli «al focolare e al ceppo renano, sassone, bavarese o prussiano», indica due motivi squisitamente politici della crisi d’identità: il non sentirsi la Repubblica federale più protetta dagli Stati Uniti e il non essere essa più sicura dell’Unione Europea (p. 7). A questo punto, tuttavia, viene presentata, o suggerita, una seconda tesi: che l’Unione Europea fu «promossa dai vincitori americani e francesi anche per contenere le velleità solipsiste» della Germania; segue, nella stessa frase, una terza tesi: che l’Unione è stata poi «dai tedeschi rimodellata come veicolo e maschera dei propri interessi» (p. 8); peraltro si fa subito presente che il «contesto comunitario [è] in disintegrazione» (ivi), e si ribadisce poco oltre che è in atto una «disgregazione dell’Ue [sic] all’insegna del più secco, e sacro, egoismo nazionale» (p. 9).
Purtroppo a sostegno di queste affermazioni non vengono offerti argomenti, né si rimanda ad altri testi in cui trovarne.
Il passo successivo, se bene intendo, è (dopo «un passo indietro e uno di lato» alle pp. 10-16) la definizione della Alternative für Deutschland come «opposizione identitaria»: i cui grandi consensi avrebbero quindi la loro spiegazione nel fatto che l’AfD fa quello che i governi federali, affetti tutti da una «germanofobia» indotta dagli alleati punitori e «rieducatori», hanno trascurato di fare; vera o immaginaria che sia la Germania cui si rifà l’AfD, quest’ultima comunque vuole risolutamente «riprendersi la sua storia» (p. 18). La questione, dice Caracciolo, «è geopolitico-identitaria, dunque non conosce dogmi ideologici», tanto che alcuni vi arrivano anche dal marxismo: come Peter Feist, cui è dedicata la sola interessante delle ben tre interviste ad altrettanti figuri di questa estrema destra.
La «rivolta identitaria» dell’AfD consta secondo Caracciolo di tre componenti: «recupero della tradizione nazionalpatriottica tedesca», contrapposizione patriottica alle «élite globaliste transnazionali» dei partiti popolari tradizionali, e infine «gusto anarcoide per la trasgressione» (p. 17). L’aspetto reazionario e xenofobo sarebbe invece secondario e «sviante» (p. 18).
La mia impressione di semplice spettatore vivente in Germania, benché non a Dresda, è che l’AfD abbia spiccato il volo proprio unendosi al movimento razzista e islamofobo di Pegida e finendo con l’assumerne la guida. In proposito non è forse privo di interesse osservare che nella sigla Pegida («Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes») compaiono l’Europa e l’Occidente, non la Germania; nulla impediva una sigla per esempio «Pagid» (Patrioten gegen die Islamisierung Deutschlands), che avrebbe messo in primo piano gli elementi nazionalistici e «völkisch» del movimento. Parrebbe quindi che il movimento volesse legarsi ad analoghi movimenti di altri Paesi europei, piuttosto che limitarsi a rivendicazioni strettamente nazionali. Le dimostrazioni di Dresda hanno coinciso con l’acuirsi della crisi migratoria, e la trasformazione dell’AfD da partito anti-europeistico di incauti professori di economia in partito radicale di massa è avvenuta nel luglio 2015, al culmine di tale crisi, poco prima che la cancelliera Merkel aprisse le frontiere tedesche ai profughi siriani (cadde allora la sua celebre frase «Wir schaffen das»: ce la facciamo).
Ma non sarà inopportuno rammentare qui la disastrosa situazione umanitaria di quelle migliaia di profughi bloccati alla stazione di Budapest, dove erano arrivati dalla Siria passando a marce forzate per la Turchia, la Grecia e i Balcani. Ben 150.000 si erano registrati al loro ingresso in Ungheria quando, il 17 agosto, il governo ungherese decise di non accoglierne altri e, in ossequio al trattato di Dublino, di non far procedere oltre quelli già entrati. L’opinione pubblica tedesca non rimase insensibile, era ancora ben vivo il ricordo dell’estate 1989, quando l’Ungheria aveva aperto i confini lasciandone uscire le decine di migliaia di cittadini della DDR che volevano raggiungere la Repubblica federale. Con la sua frase la cancelliera non fece che dare voce a questo diffuso sentimento. Non credo pertanto che Caracciolo renda giustizia alla Merkel e ai fatti dicendo che la cancelliera agì «in soliloquio d’onnipotenza» (p. 9), tanto più che una nota interna dell’Ufficio federale per la migrazione e i profughi (BAMF) aveva fin dal 21 agosto suggerito la sospensione delle regole del trattato di Dublino per i profughi siriani, che quindi sarebbero stati autorizzati a richiedere asilo in Germania; e tanto più che questa comunicazione interna era chissà come arrivata su twitter, suscitando un’immaginabile euforia tra i profughi, che da Budapest si riversarono a piedi sull’autostrada in direzione di Vienna.1 Angela Merkel non aveva ormai molta scelta.
Come che sia, vi fu in Germania un moto spontaneo di solidarietà: organizzazioni umanitarie, volontari, semplici cittadini diedero accoglienza alle migliaia di profughi stremati che cominciavano ad arrivare. Confesso che per un letterato come me quelle immagini trasmesse dalla televisione furono commoventi. Purtroppo questa accoglienza, che era intesa come misura straordinaria mirante a stemperare la crisi, venne fraintesa e provocò un moto migratorio generale, che la Germania, e probabilmente l’Europa intera, non avrebbe mai potuto sostenere. Il vento cominciò a cambiare, gonfiando le vele dell’AfD.
Può darsi che in tutto questo l’elemento identitario abbia avuto un suo peso non indifferente. Tuttavia la relazione diretta tra crisi migratoria e successo elettorale della AfD nel 2017 è fin troppo evidente; e si consideri che il 12,6% dei voti ‒ tanti ne ha avuti l’AfD ‒ è molto inferiore alle percentuali ottenute da analoghi movimenti xenofobi in Francia e in Italia. La violenta impressione e le apprensioni suscitate dall’ingresso di un partito di estrema destra nel parlamento federale, per la prima volta dalla fine della tragedia mondiale, si sono avuti soprattutto perché il fatto avveniva in Germania. È un trauma per i tedeschi e per tutti gli europei. E anche qui andrei cauto nell’affermare che gli alleati, per spegnere qualsiasi volontà di rivincita dei tedeschi, li avevano «impiccati al paradigma del Male assoluto» (p. 20). Il regime nazionalsocialista fu realmente il Male assoluto, e sarebbe meglio non dubitarne.
Vero è che la Germania di questo lungo secondo dopoguerra ha trovato la propria identità nell’Europa e nel rifiuto del dodicennio nazista e delle correnti ideologiche che lo avevano preparato. Sono fermamente convinto che la Repubblica federale sia una delle migliori democrazie rappresentative oggi esistenti. Lo dico come uomo nato in una famiglia segnata dalla deportazione e assassinio a Mauthausen di un suo membro ebreo, il nonno materno di cui porto il prenome, e cresciuto in un ambiente inevitabilmente incline alla diffidenza per tutto ciò che era tedesco. Qualche rigurgito del passato, per quanto sgradevole mi sia, non basta a farmi dubitare della vocazione politica della nuova Germania. Dirò di più: non credo che una nazione abbia un percorso predeterminato e inalterabile, e che la sua posizione geografica le imponga un indirizzo politico ad esclusione di altri. Non posso condividere affermazioni come questa: «Gli Hitler vanno e vengono, la Germania resta» (p. 22), che tra l’altro echeggia il celebre passo falso del segretario della AfD Alexander Gauland, secondo cui «Hitler e i nazionalsocialisti non sono che una cacatina d’uccello in mille anni di storia tedesca».2 Altri Hitler non ce ne saranno; ma ci saranno, come mi auguro, altri Helmut Schmidt e altre Angela Merkel.
In quest’ultima Caracciolo non trova invece niente di buono. Dopo averne stigmatizzato, come si è visto, il «soliloquio d’onnipotenza», le rimprovera di avere «di scatto innesca[to] la marcia indietro accettando l’accordo a strozzo propostole da Erdoğan» (p. 9). (Naturalmente voleva dire «innestare la marcia», ma forse pensando metaforicamente a una bomba è ricorso all’altro verbo.) Anche su questo punto qualche precisazione non guasterà. Anzitutto l’accordo del 18 marzo 2016 fu tra UE e Turchia, la quale a quella data dava già accoglienza a due milioni di profughi siriani. Moltissimi passavano in Grecia, dove rimanevano bloccati, essendo ormai chiusa la via dei Balcani. La UE si è impegnata a versare alla Turchia sei miliardi di euro, e della prima tranche di tre miliardi la Germania ha sostenuto con 500 milioni il peso maggiore. La Grecia ha a sua volta ricevuto 1,7 miliardi dall’UE. Che l’accordo concluso con la Turchia sia stato «a strozzo» è un’affermazione opinabile, considerando l’enorme pressione aggiuntiva cui si sobbarcava la Turchia accogliendo (come ha poi fatto) un altro milione di profughi, e l’alleggerimento che ne avrebbero e ne hanno ricevuto la Grecia e l’Europa intera. Una giustificata antipatia per Erdoğan e la sua politica autoritaria non dovrebbe qui offuscare l’obbiettività del giudizio.
Più generale, e più grave, è l’accusa che Caracciolo rivolge alla Merkel di aver voluto «congelare la storia per assenza di alternative» (p. 8), lasciando così aperta la via dell’alternativa alla... Alternative für Deutschland (ivi). Che la cancelliera abbia isolato la Germania in uno «spazio metastorico» (p. 28) non è però impressione che si possa condividere stando in Germania; in politica estera ella si è mossa sempre con equilibrio, contribuendo attivamente all’accordo nucleare con l’Iran e non prendendo parte al rovesciamento violento del regime libico, che col senno di poi non è esagerato definire improvvido; se la sua politica nei confronti della crisi siriana è stata tentennante, questo vale per tutti i Paesi occidentali, inclusi gli Stati Uniti. L’opposizione dell’alleato di governo CSU ha riguardato essenzialmente la politica migratoria; mentre dall’interno del proprio partito le è stato rimproverato, evidentemente da destra, di avere fatto della CDU un partito socialdemocratico.
Fuori della storia, congelata all’anno 1949 o poco oltre, era non già la Repubblica federale, ma la Repubblica democratica, che senza la costruzione del muro si sarebbe svuotata nel giro di un paio di decenni, visto che nei dodici anni precedenti il muro 2.740.000 suoi cittadini si erano trasferiti all’Ovest. La riunificazione, anche se qui chiamata sprezzantemente «annessione» (p. 12), fu processo inevitabile e voluto dall’immensa maggioranza dei cittadini tedesco-orientali. È vano citare in contrario qualche sondaggio d’opinione di venti anni dopo, che tutt’al più conferma come la memoria dell’individuo si alteri col tempo.
Peraltro devo purtroppo segnalare le imprecisioni con cui Caracciolo riporta queste indagini statistiche. Il primo sondaggio non è stato affatto «condotto per conto del Land Baden-Württemberg» (p. 16), bensì dall’Institut für Marktforschung di Lipsia; dalla Landeszentrale für politische Bildung del Baden-Württemberg è invece edita la rivista che riporta il sondaggio. L’altra statistica (pubblicata da un’analoga istituzione pubblica, ma federale: la Bundeszentrale für politische Bildung) viene riferita con grande inesattezza: il 49% degli intervistati vi affermava che «la DDR aveva più aspetti positivi che negativi» («mehr gute als schlechte Seiten»), non già che vi «prevalevano assolutamente gli aspetti positivi» («ganz überwiegend gute Seiten»), affermazione che la statistica ascrive al solo 8% degli intervistati; mentre il 32% dichiarava che gli aspetti negativi superavano i positivi («mehr schlechte als gute Seiten»), ossia esattamente il contrario di quel che le attribuisce Caracciolo. Che poi il CJD Erfurt sia uno dei «centri di sostegno a persone che soffrono di disturbi psichici e fisici dovuti all’umiliante trattamento post-annessione» (p. 16) è semplicemente falso. Il Christliches Jugenddorfwerk Deutschlands (tale la denominazione completa) è un’organizzazione evangelica, diffusa in tutti i Länder, anche cattolici, che si dedica al sostegno di «persone con situazioni di disabilità psichica e/o fisica, con problematiche di tossicodipendenza e difficoltà nell’apprendimento», come si legge sul sito del CJD di Erfurt.3 Questo, e non «l’intenzione di proporre una lettura differenziata» della storia della DDR, è il motivo della pubblicazione «in lingua semplice» sull’argomento; bastava leggere le poche righe di presentazione per renderserne conto: «Ci sono molti libri interessanti sulla storia della Germania. Ma le loro informazioni sono quasi tutte in lingua difficile. Perciò abbiamo scritto questo opuscolo in lingua semplice».
Tornando ora alla riunificazione e alla politica estera tedesca, l’unico politico intervistato, il cristianodemocratico Kiesewetter, risponde recisamente in senso negativo alle domande suggestive che gli vengono rivolte: che la Germania si riconosca nell’Europa e nella Nato, dice, non significa affatto che essa non sia «uno Stato sovrano»; nega che la Germania intenda assumere «una posizione intermedia tra Europa e Russia»; definisce senza mezzi termini «una falsità» l’insinuazione che la Germania si stia «de-occidentalizzando» (pp. 37-38). Si sarebbero forse potuti intervistare altri esponenti governativi, anziché dare tanto spazio alle simulazioni democratiche di sobillatori, preoccupati che l’ala estrema dell’AfD (il cosiddetto «Flügel») venga «osservata» dal Verfassungsschutz, il servizio segreto incaricato di valutare la eventuale non conformità alla costituzione di associazioni e movimenti politici, cui seguirebbe la loro proibizione e quindi la probabile disgregazione dell’AfD: una preoccupazione che si è accentuata dopo il licenziamento e la sostituzione del presidente del Verfassungsschutz (5 novembre 2018) e che traspare con evidenza nel timore, manifestato da Peter Feist verso la fine della sua conversazione con Limes, che «la [sic] Flügel ve[nga] messa al bando dai servizi segreti, come potrebbe voler fare il nuovo direttore dell’intelligence...» (p. 93). Eccoli quindi profondersi in dubbie professioni di fede: «Sono un amico della democrazia», assicura Björn Höcke (p. 81); «noi vogliamo cambiare le cose dall’interno dell’ordine democratico», ribadisce Kubitschek (p. 105); «i cittadini dell’Est», aggiunge ancora Feist, «hanno un diverso approccio alla democrazia. [...] Qui il popolo [...] non è stato distrutto dalla rieducazione americana» (pp. 93-94). Più utile sarebbe ascoltarli là dove si esprimono liberamente, come nel famigerato opuscoletto Finis Germania [sic] di tale Sieferle (che Caracciolo ben conosce, giacché lo cita), pubblicato appunto da Kubitschek: in esso la responsabilità storica della Germania (per ovvie ragioni il riferimento esplicito è alla sola Repubblica Democratica) viene negata con questo bell’argomento: che le attenuanti, che valgono per il borseggiatore spinto dalle «circostanze», devono valere a maggior ragione per gli atti dell’uomo politico «interamente deducibili dal grande progetto politico-ideologico entro il quale egli si è orientato»; punire lui o il progetto o lo Stato su di esso costruito non avrebbe neppure un senso rieducativo, dato che «egli si ritrova in un mondo in cui tutto ciò in cui aveva creduto è ridotto in macerie».4 Ne consegue che nessuno porta la responsabilità delle invasioni di Polonia, Francia, Russia e dello sterminio degli ebrei, perché questo «Großprojekt» ormai è ridotto in macerie.
Quale è in definitiva, o forse meglio: quale dovrebbe essere l’orientamento geopolitico della Germania odierna, ci viene suggerito alla fine dell’editoriale. La creazione di «una Germania normale, che disponesse di tutte le dimensioni della potenza che spettano a un Paese della sua taglia» (p. 28), che si creasse «una propria sfera d’influenza» con cui bilanciare il «patronaggio americano» (p. 27). Se questo non è ancora del tutto univoco e chiaro, Diego Fabbri, sbottonandosi un poco di più, propone (anzi «prescrive», come in tutta modestia si esprime a p. 47) alla Germania una strategia che renda ragione degli «elementi ineludibili del pensiero geopolitico teutonico» (p. 49), ossia una «riscoperta vocazione militare» (p. 54): «Berlino dovrebbe finalmente adottare una postura imperiale», dichiara senza mezzi termini (p. 52); ma poi ci tranquillizza un po’ restringendo questa «postura» al compito, invero non esaltante, di «dedicarsi al pattugliamento del fronte orientale, abitato da nazioni che si percepiscono in pericolo di vita a causa della presenza russa» (p. 54).
Che può dire un letterato di tutto questo? Certo ammirare l’ardita personificazione di quelle nazioni in pericolo di vita; ma anche esprimere la propria inquietudine nel vedere geopolitologi di fama auspicare che la Germania abdichi alla sua missione di centro d’equilibrio europeo e che l’Europa stessa, di conseguenza, torni a dividersi in due.