Horizonte Ausgabe 8 Titelkunst
Literarische Stimmen

Mutterland der Tiere

Melanie Rahimpour

Schon lange will er dieses Buch übersetzen. Dreißig lange Jahre hat er es warten lassen. Doch heute Morgen, als ihm ein Sonnenstrahl ins Gesicht fällt und ihn weckt, springen ihm die roten Lettern des Buchrückens ins Auge. Er schwingt sich also aus dem Bett, streckt sich und greift nach dem Buch. Er geht in die Küche und schlägt es auf. Während er die ersten Zeilen zu lesen beginnt, brüht er sich schwarzen Tee auf. Das Einzige, was er morgens runterbekommt.

Jetzt endlich würde er sich daran machen, diese Seiten, die ihn damals beim ersten Lesen so gefesselt hatten, zu übersetzen. In seine Muttersprache, die er kaum noch spricht. Für die Menschen eines Landes, das ihm schon lange sehr fern erscheint und doch immer ein Teil von ihm sein wird. Ihnen wird er dieses Buch schenken.

Er setzt sich an den Küchentisch, blättert die nächste Seite um und schlürft seinen Tee. Schnell verliert er sich wieder in dieser Geschichte. Seine Lust daran, sie zu lesen, und der Drang danach, sie zu übersetzen, sie sind immer noch da und genauso angriffslustig wie vor dreißig Jahren. Er hat das Gefühl, der Autor spricht ihm aus der Seele. Als wäre er sein Landsmann.

Er muss dieses Buch übersetzen.

Er muss einfach.

Es geht um einen Mann, der jung, beliebt und erfolgreich ist, der sich aber in seinem Keller junge Frauen hält, wie Sklavinnen, wie Tiere. An ihnen lebt er seine perversen sexuellen und erniedrigenden Fantasien aus. Bis sich die Frauen irgendwann zusammentun und gegen ihn rebellieren. Viele haben ihm gesagt, diese Geschichte sei nichts Besonderes, außerdem sehr grausam und ziemlich unrealistisch. Aber er sieht in der Geschichte viel mehr als das. Es geht nicht um Keller und Sklavinnen und masochistische Sexspielchen. Es geht um Macht und Gewalt gegenüber Frauen.

Wie in seinem Land.

Darum, dass der Mann das Tier ist und nicht die Frauen. Und um Hoffnung und den starken Willen dieser Frauen, zu kämpfen.

Bis zum Tod.

Wie in seinem Land.

Sein ganzes Leben ist er feige und schwach gewesen. Während der Revolution ist er nicht auf die Straße gegangen. Stattdessen hat er sein Land verlassen und sich in Europa ein neues Leben aufgebaut. Er hat geheiratet und seine Kinder groß gezogen. Er hat es vermieden, mit ihnen seine Muttersprache zu sprechen, und ist seinen Landsleuten aus dem Weg gegangen, bis auch sie ihn gemieden haben. Er wollte nichts mehr von seinem Land hören. Nicht einmal zur Beerdigung seiner Mutter ist er gegangen, weshalb seine Brüder danach den Kontakt zu ihm abgebrochen haben. Er wollte diesen Teil seiner Identität aus seinem Leben streichen, seine Sprache und seine Herkunft lehnte er ab. Das Einzige, was ihm bis heute geblieben ist, ist der allmorgendliche schwarze Tee, auf den er einfach nicht verzichten kann.

Seit einigen Monaten jedoch fällt er zurück in die Vergangenheit. Er hat öfter Lust, wieder Fladenbrot, dick mit Butter und Rosen- oder Karottenmarmelade bestrichen, zu essen oder Reisgerichte mit Kebab und Safran. Er träumt wieder in seiner Muttersprache. Seine Kinder schicken ihm Videos. «Sieh mal, Baba, was in deinem Land los ist. Vielleicht wird das Regime endlich fallen!»

Er will nichts davon hören. Er glaubt nicht daran. Und doch arbeitet es in seinem Unterbewussten weiter. Nachts in seinen Träumen. Er träumt von seiner Kindheit, seiner Mutter und seinen Nichten, die jetzt gerade vielleicht auch auf die Straßen gehen wie all diese Mädchen, die auf der Straße singen, tanzen und ihre Kopftücher ins Feuer werfen. Er nimmt den Geruch von Kardamom, Rosenwasser und Safran wahr. Er hört die Schreie und Klagen aus den Gefängnissen und die Zeilen eines Songs, den ein junger Sänger aus den Tweets seiner Landsleute zusammengestellt hat und den mittlerweile alle Welt kennt. Jeden Morgen wacht er schweißgebadet auf. Bis zu diesem Morgen, an dem ihn ein Sonnenstrahl geweckt und Hoffnung zugeworfen hat. Auch du kannst etwas bewirken, ruft die Sonne ihm zu. Es ist noch nicht zu spät!

Er wird diese Geschichte übersetzen und dann endlich einen Flug buchen. Zurück in seine Heimat. Er wird diesen Text dort verbreiten und den Tieren zum Fraß vorwerfen. Hier hat er nichts mehr, was ihn hält. Seine Frau ist gestorben, seine Kinder stehen auf eigenen Beinen.

Er ist sich sicher, er wird nicht lebend zurückkommen. Diese Übersetzung wird seine letzte sein. Und seine erste in die Sprache seiner Mutter.

Er klappt seinen Laptop auf und beginnt zu schreiben.

Barâye-to, mâdaram.

Für dich, meine Mutter.

Die Autorin

Melanie Rahimpour hat deutsch-französisch-karibische Wurzeln, studierte Sprachen und unterrichtet seit 2016 Deutsch als Fremdsprache. Sie reist unter anderem regelmäßig nach Guadeloupe und in den Iran. In Berlin absolvierte sie eine Schreibausbildung und arbeitet zurzeit an ihrem ersten Roman. Einige ihrer Kurzgeschichten wurden veröffentlicht. Mit ihrem Mann und ihrem zweimonatigen Sohn lebt und arbeitet sie in Mainz.

Madreterra degli animali

Melanie Rahimpour – tradotto da Ilva Fabiani

È da tempo che vuole tradurre questo libro. Trent’anni ha atteso. Ma stamattina, quando un raggio di sole lo sveglia, gli saltano all’occhio le lettere rosse del dorso del libro. In un balzo si alza dal letto, si stiracchia e in mano il libro. Va in cucina e lo apre. Mentre inizia a leggere le prime righe, si prepara un tè. L’unica cosa che riesce a mandar giù la mattina.

Oggi finalmente si metterà al lavoro e tradurrà quelle pagine che lo avevano appassionato così tanto la prima volta che le aveva lette. Le tradurrà nella sua lingua madre che a malapena parla ancora. Per le persone di un paese che gli appare così lontano ormai, un paese che però sarà sempre una parte di lui. È a queste persone che regalerà il libro.

Si siede al tavolo della cucina, gira la pagina e sorseggia il tè. Ecco che sprofonda di nuovo nella storia. La voglia di leggerla e l’impeto di tradurla sono forti e battaglieri come lo erano trent’anni prima. Ha l’impressione che l’autore gli legga direttamente l’anima. Come se fosse un suo conterraneo.

Deve tradurre questo libro.

Deve assolutamente farlo.

La storia parla di un giovane che ha successo ed è amato da tutti, ma che nella sua cantina tiene prigioniere delle donne che schiavizza come fossero animali. Su di loro vive le sue fantasie sessuali umilianti e perverse. Finché un giorno le donne si mettono d’accordo e si ribellano. In molti gli hanno detto che questa storia non ha niente di particolare, e poi, a detta loro, è anche molto cruda e poco realistica.

Ma lui nella storia vede ben altro. Non è questione di schiave e di giochetti sadomaso. È una storia di violenza e di abuso sulle donne.

Come nel suo paese.

È una storia che racconta di come il vero animale sia l’uomo e non le donne. Parla della speranza e della volontà indomabile delle donne che lottano.

Fino alla morte.

Come nel suo paese.

Per tutta la sua vita è stato debole e vigliacco. Durante la rivoluzione non era sceso in strada. Anzi, se ne era andato e si era costruito una nuova vita in Europa. Si era sposato e aveva cresciuto i suoi figli. Cercava di non parlare con loro nella sua lingua madre ed evitava ogni contatto con la sua gente, finché a un certo punto anche loro avevano preso a evitarlo. Niente, non voleva sapere più niente del suo paese. Non era andato nemmeno al funerale di sua madre, e per questo suo fratello non gli parlava più. Voleva eliminare dalla sua vita questa parte della sua identità, rifiutava la sua lingua e le sue origini.

L’unica cosa rimasta fino ad oggi è il tè nero la mattina, a quello non rinuncia.

Ma è da qualche mese che ricade nelle cose del passato. Spesso ha voglia di mangiare di nuovo la focaccia araba con sopra uno strato abbondante di burro e marmellata di rose o di carote, oppure di gustare ancora un piatto di riso con il kebab e lo zafferano. Sogna nella sua lingua madre, dopo tanto tempo. I figli gli mandano dei video: «Baba, guarda che sta succedendo nel tuo paese! Chissà, forse cadrà il regime! Finalmente!»

Lui non vuole saperne. Non ci crede. Eppure il suo inconscio lavora. Di notte, attraverso i sogni. Sogna la sua infanzia, sua madre e le sue nipoti che adesso forse saranno scese in strada come tutte le ragazze che in strada cantano, ballano e bruciano i veli. Sente l’odore del cardamomo, dell’acqua di rose e dello zafferano. Sente le urla, i lamenti dalle prigioni, e stralci di una canzone che un giovane cantante ha messo insieme dai tweet della sua gente, una canzone che ormai conoscono tutti. Ogni mattina si sveglia sudato fradicio. Fino a quel momento in cui un raggio di sole lo ha svegliato infondendogli speranza. Anche tu puoi fare qualcosa, gli dice il sole. Non è troppo tardi!

Tradurrà questa storia e poi, finalmente, prenoterà un volo. Tornerà a casa. Lì, farà girare il testo e lo darà in pasto agli animali. Qui in fondo non ha più niente che lo trattenga. Sua moglie è morta, i figli si sono sistemati.

Lo sa che non tornerà vivo. Quella sarà la sua ultima traduzione. E la prima nella lingua di sua madre.

Apre il laptop e inizia a scrivere. Barâye-to, mâdaram.

Per te, madre mia.

Melanie Rahimpour – nota biografica

Melanie Rahimpour ha radici tedesco-francesi-caraibiche, ha studiato Lingue, e dal 2016 insegna tedesco come lingua straniera. Regolarmente si reca in Guadalupe e in Iran. A Berlino ha completato una formazione di scrittura creativa e attualmente lavora al suo primo romanzo. Vive a Magonza con il marito e il figlio di due mesi.

Literarische Stimmen

Riemergere - Wieder auftauchen